- Ciao Pam, come stai?
- Insomma… non tanto bene.
- Che hai, avrai mica preso il virus?
- No, no, ho fatto il vaccino, anche la seconda dose.
- Allora?
- Il ginocchio, le vene varicose, l’artrosi. Dovrei operarmi e non ne ho l’intenzione, ma non è questo; è che ho il morale sotto le scarpe.
- Dai, tirati su che tra poco è Natale. Sei a pranzo da tua cognata, come sempre, vero?
- No. Rachela sta male.
- Mi spiace. Vedrai che si rimette presto, coraggio. Ho telefonato per farti gli auguri.
- Grazie. Tanti auguri anche a te.
Neanche se n’era accorta, Pamela, ma si era già a fine dicembre. Non le erano mai piaciute le telefonate di auguri, di solito convenzionali e non del tutto sentite, più che altro un’abitudine alla quale non era lecito sottrarsi per educazione. Però aveva gradito la telefonata di Franca, segno che ancora qualcuno si ricordava di lei.
Sarebbe stato il suo ottantacinquesimo Natale, ma quanto diverso dagli altri! Senza il pranzo di Rachela veniva meno il senso di festa, il sentirsi ancora parte di quel briciolo di famiglia che le restava.
Le parole di Franca avevano risvegliato il ricordo degli anni trascorsi, quando Pamela arrivava a casa della cognata con le braccia cariche di dolci e regali per i pronipoti, accolta da gridolini di gioia e sguardi d’attesa.
Dalla porta dischiusa si sprigionava l’odore del brodo di cappone, dove Rachela avrebbe tuffato i cappelletti preparati da lei, un capolavoro ̶ sfoglia e ripieno secondo la tradizionale ricetta ferrarese ̶ mica col ripieno già pronto. I caplit, un classico natalizio, erano il vanto di famiglia, un punto d’orgoglio per Rachela.
I nipoti, una volta cresciuti, non partecipavano più al pranzo di Natale, ma la tradizione non s’era interrotta, anche se il numero dei commensali s’era assottigliato. Gli odori e i sapori erano quelli di sempre, l’allegria in tono minore, ma non mancava. C’erano sempre la figlia di Rachela col marito, un’anziana cugina e naturalmente Pamela. Tutti sembravano felici. Che lo fossero o no. È d’obbligo nella mistificazione del Natale, come sentirsi tutti buoni, come volersi bene tutti. A un giorno speciale anche una parvenza di felicità poteva bastare, ma quell’anno le cose andavano diversamente perché Rachela aveva avuto un ictus e dunque quale allegria? Nemmeno l’ombra.
Pamela sentiva intorno a sé un’atmosfera pesante e la testa piena di nebbia.
Ormai sua cognata era appena capace di muovere pochi passi in casa con le stampelle, per lo più stava a letto o in poltrona e senza il pranzo di Rachela, sarebbe stato un giorno come gli altri, anzi peggiore. Mica per il pranzo - ché Pamela mangiava pochissimo - ma per l’atmosfera, l’allegria, i profumi, il suono delle risate. Delle sue stesse risate.
Da mesi Pamela non rideva più.
Si sentiva dilaniata da un vuoto che non sapeva ben definire.
Certo le mancavano le attenzioni dei parenti che la gratificavano, solleticandone l’autostima. Il suo arrivo a casa della cognata veniva sottolineato con enfasi: Oh, finalmente Pamela! Mancavi solo tu. Eccola, sempre bella ed elegante!
Quell’accoglienza festosa la faceva stare bene. Forse era questo che le mancava.
Un vuoto d’amore? Non quello che mai aveva dato se non col contagocce, impegnata com’era ad amare sé stessa, ma quello ricevuto.
Questione di scelte: niente marito, niente figli e andava bene così. Mai s’era sentita sola, le bastava uscire di casa per incontrare gente che conosceva con cui scambiare quattro chiacchiere. Col passare del tempo incontrava sempre meno conoscenti; erano morti tutti? Parecchi di sicuro e molti erano troppo malandati per uscire. Comunque la compagnia si trovava sempre e a Pamela non dispiaceva attaccare discorso con gli sconosciuti. Spesso diceva qualcosa ai bambini, che la guardavano incuriositi e sembravano rivolgerle maggiore attenzione degli adulti.
Poi era arrivato il mostro dal nome strano: covid 19 e l’aveva costretta a casa. S’era così trovata in compagnia di sé stessa senza voglia di fare alcunché, visto che non le piaceva leggere, ricamare, cucire, cucinare. Accendeva il televisore per sentire una voce, ma non ascoltava. Aspettava la colf per parlare con qualcuno o l’arrivo di una telefonata.
Franca aveva chiuso la comunicazione e spulciato il nome Pamela dall’elenco “telefonate di auguri”.
Stava pensando di passare alla prossima telefonata e già sentiva vibrare il cellulare che teneva in mano.
- Sono ancora io, Franca, sto male.
- Che succede Pamela?
- Sono confusa, ansiosa e piena di paure, non mi sento più io…
- Perché, ti è capitata qualcosa di grave?
- Sì. Una scoperta mi ha fatto andare in tilt.
- Che hai scoperto?
- Che sono vecchia.
- E l’hai scoperto ora a ottantacinque anni? Sarai mica invecchiata in un giorno solo, ma quando te ne sei accorta?
- Quando ho letto il referto della visita geriatrica. C’è scritto “declino cognitivo”…
Non ci sarebbero state altre telefonate per quella mattina, la lunga conversazione con Pamela aveva turbato Franca, facendo svanire quel minimo d’allegria che aveva tentato d’imporsi. Che diamine – pensava – a Natale bisogna almeno provare a darsi un po’di gioia!
Invece si sentiva molto triste e le frullavano in testa pensieri cupi come uccelli neri.
Quanto capitava all’amica poteva succedere prima o poi anche a lei che ̶ sebbene più giovane ̶ si avvicinava all’odiata soglia degli ottanta. Come Pamela anche lei era sola, le sue figlie lavoravano all’estero e da alcuni anni non tornavano a casa a Natale.
Da quanti anni non ricordava con esattezza, perché quando le giornate sono uguali il tempo sembra accartocciarsi, tanto scorre veloce.
Declino cognitivo due parole che avevano innescato depressione e paura nella testa di Pamela: - sta scritto, capisci? aveva detto.
- Ma… dove sta scritto? E lei aveva ripetuto:
- motivo della visita, declino cognitivo.
Franca s’era poi sorbita la lettura di tutta la relazione della visita geriatrica, dove comunque la paziente veniva descritta in termini positivi: giunge non accompagnata, igiene buona, eloquio fluido, lucida e bla,bla,bla.
- Quindi vedi? Motivo della visita è una formula. Ma quella insisteva.
- Sì, però sta scritto.
Inutile dirle che se capiva il significato, declino cognitivo non ce n’era, ormai s’era fissata e forse, peggio ancora, se n’era convinta.
Da allora Pamela, come Franca ebbe modo di constatare nelle telefonate successive, segni di confusione mentale aveva cominciato a darne davvero.
Le sue domande erano sempre più strane; andavano dal "secondo te, cosa posso mangiare?" a "posso stare a letto, mi farà male?" Intercalate da "oh, Franca, sono andata in tilt, do i numeri".
- Perché cosa fai?
Ancora più strampalate le risposte.
- Combino pasticci.
- Cioè?
- Stupidate.
- Per esempio?
- Ho sognato d’avere ladri in casa e ho chiamato il 113. Sono arrivati a sirene spiegate, sai i vicini, di notte…
- Perché non esci?
- Ho paura che mi ricoverino.
- Chi ti vuole ricoverare?
- Luva. Mi vuole portare dai suoi vecchi.
- Chi è Luva?
- La mia colf. Viene quando può. Lavora in una casa per anziani. Mi controlla, ha chiamato l’assistente sociale.
- E non è un aiuto?
- No. È tutto contro di me…
Conversazioni strambe dalle quali traspariva un disagio esistenziale che riversava su Franca a ogni telefonata una iniezione di malumore. A un certo punto smise di telefonare.
Non usciva da tanto tempo, Pamela, non ricordava da quanto, ma una mattina che c’era un sole sbiadito, infilati un paio di pantaloni, un maglione e afferrato uvecchio cappotto, aveva deciso di andare ai giardini.
Camminare le faceva bene, si sentiva viva. C’era poca gente, qualche famigliola a passeggio tra aiuole sfiorite sotto alberi spogli; alcuni bambini giocavano a rincorrersi tra i viottoli. Uno di loro, capelli arruffati e rosso in viso, stava per venirle addosso. Nel trattenerlo, gli fece una carezza prima dell’arrivo trafelato della madre che, strattonandolo, lo allontanava.
Eh, che modi, non lo mangio mica!
Pensava Pamela, irritata dall’intervento esagerato di quella donna, ma non si sarebbe rovinata la passeggiata per colpa di una madre iperprotettiva. La sua attenzione era già diretta altrove.
Distante, seduta su una panchina, una signora anziana dall’aspetto familiare sembrava aspettarla. Pamela si diresse verso di lei, riconoscendola mano a mano che si avvicinava.
- Oh, mamma, sei venuta?
- Certo, Pam, oggi è un giorno speciale.
- Perché, che giorno è?
- È Natale. Non potevo lasciarti da sola, senza regali, senza parole.
- Come hai fatto a venire?
- Ti ho detto che è un giorno speciale, è il giorno dei miracoli.
- E mi hai portato un regalo?
- Ma certo, è qui nella mia mano. Lo riconosci?
- Sì, mi ricordo. È il biglietto che ho messo sulla scatola di un regalo per te. Come mai l’hai conservato?
- Era la prima volta che usavi quella dedica, come se sapessi che sarebbe stato il tuo ultimo regalo.
- È stato l’ultimo Natale, infatti, che abbiamo trascorso insieme ma poi sei andata via.
- Non ti ho mai lasciato, figlia mia
- Ma io non ti vedevo.
- Non potevi, mi portavi dentro. Ero nel tuo cuore.
Natale tranquillo pensava il vigile che pattugliava i giardini al tramonto, neanche l’ombra dei soliti pusher, ma trovandosi di fronte a una panchina, occupata da un grosso involucro, cominciava a ricredersi, assalito da un sospetto truce.
Mentre si avvicinava con circospezione, si rendeva conto che doveva esserci qualcosa di voluminoso o meglio qualcuno avvolto e quasi nascosto in un vecchio cappotto. Forse un ubriaco, un drogato o semplicemente un barbone, ma poteva esserci di tutto lì dentro.
Si stava facendo buio, che fosse una trappola tesa da chi attendeva, nascosto nell’ombra? Era meglio chiamare la volante, ma prima voleva dare una sbirciatina, sollevando un lembo del cappotto, per curiosità tanto per farsene un’idea.
Non si aspettava lo spettacolo che si offriva ai suoi occhi, lasciandolo di gelo.
C’era una donna anziana rannicchiata in posizione fetale; sembrava addormentata e sorrideva.
Invece era morta.
C’era un tappeto di foglie secche dai gialli e rossi ormai stinti davanti alla panchina, facevano mulinello al levarsi del vento gelido; la giornata era stata mite, ma ora cominciava a far freddo. La donna teneva in mano un foglietto ingiallito.
Un colpo di vento più forte lo fece cadere a terra tra le foglie morte. Il vigile lo raccolse.
Nel biglietto era scritto: Ti voglio bene, mamma. Pamela non aveva mai pronunciato quelle parole.
Una volta le aveva scritte
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