https://www.differentales.org/t1261-profumo-di-sandalo#14050 Eleonora saliva stanca le scale del suo condominio. Si era imposta di non prendere l’ascensore da quando, guardandosi allo specchio, aveva notato che il suo fisico si stava ammorbidendo. Non era mai stata fissata con diete, integratori e palestre, ma cercava di mangiare sano e di fare qualche camminata settimanale.
Nell’ultimo periodo però non ne aveva avuto il tempo, o forse, ad essere sinceri, le era mancata la voglia.
Faceva l’infermiera e da quasi un anno era stata trasferita nel reparto di patologia neonatale. Aveva accettato con entusiasmo il nuovo incarico, come faceva sempre, le piaceva conoscere nuovi colleghi e nuovi aspetti del lavoro che aveva scelto sin da bambina.
Non avrebbe mai immaginato la fatica a cui sarebbe andata incontro. Non solo fisica, a quella era abituata e non le incuteva timore, era una fatica che prendeva testa e cuore.
Quel reparto pieno di piccole creature avrebbe dovuto essere un inno alla vita, non certo alla morte e alla disperazione. Aveva visto troppi bambini lasciare genitori dilaniati dal dolore. Si era chiesta più volte come fosse possibile, erano creature rimaste sulla terra per pochi giorni, a volte poche ore, eppure erano in grado di lasciare vuoti incolmabili.
Nel suo pensiero, lei che figli non ne aveva, immaginava più difficile lasciare persone con cui si era vissuto una vita intera.
All’inizio guardava con stupore queste mamme lacerate, eppure così risolute a tenere con sé bambini che molto probabilmente non avrebbero dato loro in cambio né parole, né abbracci, ma solo tanto impegno, sofferenza e tristezza. Non le capiva, a volte ne era addirittura infastidita, lei che aveva visto figli lasciare andare genitori, visto mogli che salutavano compagni di una vita, composti nella loro dignità. Queste madri invece lottavano con tutte le loro forze contro ogni avversità e contro ogni logica per trattenere vicino i loro figli, a qualsiasi condizione. A volte si sorprendeva a pensare che fossero mosse da egoismo, pronte ad una vita di sofferenza pur di non distaccarsi.
Poco alla volta però, contravvenendo alle regole che a scuola le avevano insegnato, iniziò ad affezionarsi a quei bimbi, esserini simili a piccole pagnottelle a volte uscite non proprio perfette ma che racchiudevano in loro una forza esplosiva, coperti di cannule, respiratori, PEG. Il loro mondo racchiuso dentro quelle scatole che li aiutavano a sopravvivere, circondati da bippanti macchinari e rumorosi stantuffi.
Poi un giorno arrivò Stella.
Era una delle più piccole entrate in reparto, persa in un pannolino troppo grande per lei e un buffo capellino rosa con delle strane orecchie gialle che le cadeva sempre su quegli occhietti gonfi e neri. Insieme a lei arrivò Angela la sua mamma. Anche lei aveva vestiti troppo larghi a coprire un corpo ancora adolescente. I capelli annodati in uno strano e scompigliato nodo, gli occhi azzurri sempre velati di lacrime che non scendevano più. Era sola Angela, nessun compagno, nessun genitore o amico a supportarla.
Erano lei e Stella.
I medici faticavano a parlarle, qualsiasi cosa le dicessero lei sorrideva, un sorriso malinconico ma gentile. Non parlava molto, rispondeva a monosillabi, ma ogni mattina arrivava puntuale alle otto e aspettava pazientemente seduta sulle scomode sedie malconce dell’ingresso del reparto osservando i disegni che qualche volontario aveva fatto sui muri grigi per rallegrare le interminabili attese. A volte rimaneva lì per ore senza muoversi, immobile e determinata. Ogni giorno portava piccoli doni a Stella, una sorpresa trovata in un ovetto Kinder, un nastrino colorato che appendeva all’incubatrice un paio di buffi calzini dai mille colori fatti a mano da lei.
Se avesse dovuto usare un aggettivo per descriverla sarebbe stato resiliente.
Eleonora iniziò ad affezionarsi a quelle due strane creature che sembravano uscite da uno dei dipinti di Bansky così eteree e leggere, pronte a spiccare il volo per l'isola che non c’è.
Contro ogni aspettativa Stella cresceva, vincendo tutti i pronostici negativi fatti su di lei, superava ogni difficoltà e insieme a lei Angela rifioriva. Gli occhi fissi puntati sulla sua bambina, le dita che la sfioravano leggermente per calmarla e per farle sapere che lei c’era, che nonostante tutto loro erano insieme. Erano connesse così prepotentemente, madre e figlia, che sembravano fondersi, anche se non potevano stare vicine, divise da quel muro di plastica asettico, unite da una forza invisibile agli occhi ma tangibile con il cuore.
Un giorno a fine turno Eleonora incrociò Angela sulle scale e infrangendo ogni suo dogma la invitò a bere un caffè. Con suo grande stupore la mammina, come l’avevano soprannominata in reparto, accettò e così si diressero verso il bar a piano terra, quello vicino all’uscita. Si misero in fila per il caffè poi in silenzio si diressero entrambe verso il giardino esterno. Era una bella giornata di aprile, il sole scaldava e l’aria frizzantina rigenerava i corpi stanchi di chi, per lavoro o per malattia, era costretto a transitare di lì.
Sedute su una panchina sorseggiarono con calma il caffè.
D’un tratto senza nessun preavviso Angela iniziò a parlare.
“Non ho mai posseduto nulla, non ho una famiglia, non ho amici, non ho mai avuto una casa mia dove tornare. Figlia di nessuno come in tanti mi hanno chiamata, ho vissuto per molto tempo in una casa famiglia. Non ricordo nemmeno il numero dei genitori affidatari che si sono avvicendati nella mia vita, non ricordo i loro nomi e nemmeno i loro volti. Solo nonna Rosy è rimasta nel mio cuore. L’unica che mi abbia guardato dentro, l’unica che sapeva quando avevo bisogno di un abbraccio. Purtroppo anche lei se ne è andata e da allora nessuno ha più provato a sentirmi. Quando ti dico che non ho mai posseduto nulla intendo in senso totale. Non erano miei i vestiti che indossavo, i libri che leggevo, il letto in cui dormivo. Non ho mai ricevuto regali se non qualche dolcetto o qualche caramella allungata da chi in quel momento si sentiva molto magnanimo. Anche Stella all'inizio non era interamente mia. Suo padre” e nel dire quella parola la voce le uscì lieve mentre con le sue esili braccia di bambina si cingeva forte la vita “era uno dei miei genitori affidatari”.
Eleonora era seduta, la gamba sinistra che picchiettava leggermente il terreno su cui era poggiata, lo sforzo immane per non piangere, i ricordi frammentati che le uscivano da quel posto segreto in fondo al cuore dove li aveva rinchiusi tanti anni fa.
“Non mi importava molto, anzi all’inizio mi faceva anche piacere. Lui mi diceva che ero sua, solo sua e mi accarezzava i capelli, il collo, poi i seni e quando arrivava lì dove si racchiudeva la mia femminilità qualcosa in lui cambiava. Non erano più lievi carezze ma dure sferzate date con la mano aperta, erano morsi, erano capelli tirati con forza, erano pesanti insulti. Ma continuava a non dispiacermi perché per la prima volta sentivo di appartenere a qualcuno.” Si fermò, sembrava dovesse scegliere le parole giuste per continuare “La moglie non diceva nulla, non so se per comodità o perché non le importasse proprio, e tutto filava più o meno bene. Fino a quando rimasi incinta. Avevo diciassette anni per poco ancora, ma ero comunque una minorenne.”
Eleonora aveva bisogno di aria, le sembrava di ripercorrere la sua vita passo dopo passo.
“I miei genitori affidatari volevano che abortissi, avevano paura di essere denunciati, e cominciarono a farmi pressioni molto forti, fino ad arrivare a picchiarmi. Io mi riparavo e cercavo di proteggere il più possibile l’unica cosa che possedevo. Le avevo giurato che avrei lottato contro tutto e contro tutti ed ero determinata a farlo. Insieme nella vita o nella morte” Sembrava più adulta dei suoi diciotto anni, in quel momento non era più la bambina che sorrideva malinconica, ora era una donna fiera e consapevole.
“Contavo i giorni che mi separavano dal mio diciottesimo compleanno, diventata maggiorenne avrei potuto andarmene e rifarmi una vita. Mi ero informata, presso la mia città c’era una associazione che accoglieva le mamme e i loro bambini che non avevano un posto dove stare. Avevo anche racimolato un po’ di soldi con qualche lavoretto saltuario fatto nei ritagli di tempo. Il giorno prima del mio compleanno Michelangelo, di nome ma non di fatto, si rese conto che non avrei ceduto e preso da un attacco di rabbia, possesso, prepotenza e non so cos’altro, iniziò a picchiarmi così forte che pensai non sarei riuscita a sopravvivere. Quando mi convinsi di essere arrivata alla fine Stella mi diede il suo primo calcio. Sembrava dicesse ehi cagasotto sono viva, combatti, fallo per me. Mi ripresi e riuscii a schivare un colpo, poi un altro, giravo intorno alla stanza cercando di non farmi colpire finché non lo vidi. Era un pugnale Jambiya, Michelangelo mi aveva raccontato molte volte la sua storia. Lo aveva comprato nello Yemen dove era andato a lavorare per un periodo, ne andava orgoglioso, lo teneva pulito e affilato. Vidi nei suoi occhi il terrore quando capì le mie intenzioni. Rivedo la scena al rallentatore io, lui, il pugnale. Sono arrivata prima e sono ancora viva. Ero minorenne, ero stata riempita di botte, la moglie non voleva grane, anzi credo di averle fatto un piacere. Per la prima volta nella mia vita ho reagito. Non dimenticherò la sua espressione quando la lama gli si conficcò nel collo. Un fiotto di sangue schizzò sui miei vestiti e sui suoi. Tenni la mano ferma sul coltello e lui le sue mani artigliate alle mie come per aggrapparsi. Lo rifarei ancora, ancora e ancora. Stella è la mia vita senza di lei io ritornerei a non esistere”.
Eleonora l’aveva vista trasformarsi sotto i suoi occhi, ora risplendeva.
Dopo il racconto senza aggiungere una parola Angela le aveva sorriso e si era diretta verso le scale per raggiungere il reparto dove la sua bambina l’aspettava.
Eleonora era rimasta lì, incapace di pensieri coerenti, fino a quando la stanchezza si era fatta sentire. Solo allora si era alzata ed era ritornata lentamente verso casa.
Non aveva avuto il coraggio di dire a quella ragazza così coraggiosa che la capiva, che sapeva di cosa parlava. Anche lei aveva vissuto un’esperienza simile, ma non aveva avuto la forza di ribellarsi, aveva lasciato che altri scegliessero per lei, lasciandole un vuoto dentro che niente e nessuno sarebbe mai riuscito a colmare.
Era diventata infermiera per sentirsi parte di qualcosa, per sentirsi utile per qualcuno. Si era costruita una vita da sola con grande sacrificio, ed era arrivata ad un punto in cui aveva pensato di essersi liberata, di essere ritornata alla normalità. Quel racconto, buttato lì su una panchina dell’Ospedale, l’aveva riportata indietro nei meandri della sua mente.
Aprì la porta di casa e il silenzio la accolse. Poi d’un tratto avvertì un lamento straziante, sembrava il verso di un animale ferito, finché Eleonora non si rese conto che era il suo pianto. Pianse per molto tempo, pianse tutte le lacrime che non aveva versato da quando le avevano strappato dal corpo la vita. Pianse per non essere stata coraggiosa e pianse per quella ragazza solare che era stata e che non esisteva più.
Era diventato buio ormai quando si svegliò.
Si sentiva più leggera, come se ascoltare e accogliere la storia di Angela avesse mosso qualcosa dentro di lei, e avvertiva la consapevolezza di aver ricevuto un dono prezioso.
Nonostante Eleonora avesse chiuso da molto tempo il cuore con una serratura a doppia mandata, Angela aveva scelto lei, senza nessuna motivazione chiara alla ragione.
Le loro due anime si erano incontrate e riconosciute contro ogni logica, per condividere, in quel preciso momento, qualcosa di importante, intenso e liberatorio per entrambe.