Gatti. C'è chi crede che siano numi senza stirpe, spiriti universali dotati di poteri magici nei confronti degli esseri umani. Soprattutto quando hanno il manto fulvo…
Se stai per morire, ti arrivano accanto, poi se ne vanno a cercare topi o a rovistare dentro i cassonetti.
Il randagio aveva il pelo biondo rame e pareva tutto tranne che una divinità. Condivideva coi clochard la strada e le stagioni, e null’altro.
Ma non quella sera d’inverno, quella notte di Vigilia.
Lasciando indietro le sue impronte sulla neve fresca, il felino si fermò felpato e plastico a tre metri da lei, annusò la scatoletta del tonno vuota e ancora unta d’olio che c’era a terra, levò in alto lo sguardo e la fissò dritta come chi firma un armistizio con il nemico e solo dopo s’infilò dentro il cartone per scaldarsi.
- Ciao micio. Mi spiace, è finito – e lo accarezzò.
Anche se non ricordava di averlo consumato, quel tonno probabilmente era stata la sua cena, un’ottima cena, da regina. Pur sorpresa, lasciò entrare l’animale facendo attenzione a proteggere dagli artigli la sua bambola con il vestitino color pesca e macchie d’olio, con le trecce di lana bionde e con gli occhi di plastica che una volta erano stati azzurri come quelli di Aurora.
Non le era mai successo, i gatti di strada non sono i compagni più socievoli, vivono ai margini dello spazio vitale dell’uomo, ma questo era particolare: se ne stava sornione a prendersi le carezze. Del resto, a chi non piacerebbe qualche coccola nel tepore del cartone, quando fuori nevica? Specialmente quando si tratta dello scatolone di un televisore, leggero e caldo, profumato di pulito e cellulosa. I migliori sono quelli dei tivù al plasma, che si trovano facilmente nelle discariche: ampi, rinforzati, pieni di imbottitura a bolle d’aria che puoi usare per cuscino. E tengono caldi.
Non le importava molto di quella invasione randagia, ne coglieva il buono, il caldo animale. Il suo sogno si era avverato: si trovava dove, da molto tempo, desiderava trascorrere la notte di Natale. Sdraiata su una panchina di ferro intarsiato, prossima alla riva del fiume di San Pietroburgo, si guardava intorno come farebbe un pioniere davanti al nuovo mondo. Scendevano abbondanti dei fiocchi candidi, eppure non faceva freddo. Anzi, di colpo lei sentì caldo, come nelle notti d'agosto sotto l’androne della stazione ferroviaria di Sestri Levante.
Maria si levò e sedette, facendo scivolare sul prato la coperta di pluriball dei clochard. Tolse da un trolley, recuperato anni prima dentro un cassonetto, un piccolo dipinto che custodiva gelosamente, e lo poggiò con attenzione sulla spalliera della panchina. Poi bevve da una bottiglia l’ultimo sorso di vino, tolse il berretto blu di lana che le copriva le orecchie, sganciò la spilla da balia con cui teneva chiuso un cappotto senza più bottoni e si sdraiò nuovamente. Sentendosi di nuovo regina, in quel breve spazio che separava lo scorrere quieto del Neva e il parco dal soffice manto brillante, alzò la testa per assaporare la magnificenza del Palazzo d’Inverno. Era uno scenario molto diverso da quello dei lontani colonnati di San Pietro dove, per un tacito accordo con la Chiesa, lei e quelli come lei trovavano ospitalità in Vaticano. In tanti vi si recavano e, senza clamore, ricevevano, da prelati silenziosi e discreti, qualcosa da mangiare. L'imponenza della Basilica romana, esaltata dalla cornice dei massicci fusti di marmo che si allineavano alla vista, era splendida.
San Pietroburgo suscitava però un altro fascino, quello della realizzazione di un sogno agognato. Tanti anni prima lei aveva visto, dietro la vetrina di un'agenzia di viaggio, l'immagine del Natale nella incantevole città russa. Se ne era da subito innamorata: un grande giardino con la fontana che si trovava a sinistra dell’Hermitage, abbellita da una meravigliosa cascata di zampilli luminosi, poi lampade, cristalli di neve e una galleria di archi traforati, che con i lampioni gialli creava un ambiente dove è inevitabile sognare. Sognare di trovarsi lì con Aurora.
D'improvviso, si sentì prendere per mano con una stretta leggera. Si alzò di scatto e fu sorpresa di vedere una bambina con un vestitino color pesca, come quello della sua bambola ma senza macchie d’olio.
Forse era proprio Aurora, non la vedeva da almeno quarant’anni. Sapeva ciò che gli altri vagabondi raccontavano, lei stessa lo raccontava: in un’altra vita era stata madre di due gemelli, una coppia di Bambini Gesù.
Il randagio guardò la scena rassegnato. Era come un’entità soprannaturale e, grazie al suo spirito felino, sapeva che stava accadendo un fatto eccezionale, unico, più importante delle carezze a cui, suo malgrado, doveva rinunciare.
- Aurora, sei tu bambina mia? Cosa ci fai qui? Non è un posto per te -. Il giaciglio di cartone scivolò a terra, raggiungendo l’imbottitura di pluriball e la scatoletta di tonno.
- Perché no? Se ci stai tu posso starci anche io.
Maria era strana, gli altri dicevano che era matta, ma quelli non capivano nulla. Non era stupida, lo sapeva. Una vita intera le diceva che l'immensamente bello non riesce mai a essere contenuto dal misero involucro del reale. Quella non poteva essere la sua bambina, non la figlia che lei aveva abbandonato fuggendo quando, bollata come stramba e pericolosa, era stata imbottita di farmaci. E nel momento del sospetto, la stretta di mano divenne più importante.
- No. Non sono Aurora, Mamma. Sono Gesù Bambina, come mi hai sempre sognato e chiamato. Avevi ragione, sai? Gesù aveva una gemella che si chiamava come lui.
Quante cose belle le stavano accadendo! Maria si trovava a San Pietroburgo, non aveva più freddo e scopriva di non essere pazza, come tutti volevano farle credere. Ma più di tutto, Gesù Bambina esisteva davvero e si trovava lì, in quell'istante, proprio di fronte a lei. Di colpo ebbe paura: nelle strade diseredate devi stare in allerta anche quando dormi, perché vengono a rubare sia il poco tuo, sia quello che hai sottratto a un altro.
- Non puoi essere Gesù Bambina, mi hai chiamato mamma. Tu sei Aurora, anche se non assomigli molto a tuo nonno. Ricordo ancora quando andavo con lui a raccogliere funghi: portava nella tasca destra dei pantaloni una castagna matta come portafortuna e tornavamo sempre con il cestino pieno.
A questo punto Maria esitò un momento, chiedendosi se non stesse sognando.
- E se fosse? Il sogno è quel momento perfetto che condividiamo con Dio. Anche lui ama sognare cose belle.
- Ma tu leggi nel pensiero?
- Non pensi che Gesù Bambina possa farlo?
- Si, e allora non sei Aurora.
Maria si tolse dalla stretta della bambina, prese in braccio la bambola, si parò con una espressione altera, dignitosa e cortese, così buffa per una clochard, e le disse:
- Signorina Gesù, La ringrazio per essermi venuta a trovare. Si può fermare qui con me se lo desidera, ma se Lei non è Aurora preferisco continuare a guardare le luminarie del Palazzo d’Inverno.
- Va bene, allora. Hai sempre fatto un po’ di confusione, ma non è poi così importante. Sono Aurora, Mamma - e trasse dalla tasca una castagna matta - e ora starò sempre con te, staremo sempre assieme.
La donna sentì di avere le lacrime pronte a sgorgare.
- Se sei Aurora, ne sono certa, non saresti qui, non potresti perdonarmi. Tu non puoi ricordare, e da qualche parte io ricordo, e bevo vino. Forse, stasera ne ho bevuto troppo.
La bambina era incantevole nel suo vestito di pesca, sulle sue labbra un sorriso impreziosito dalla gratitudine.
- Ricordo Mamma. E so cosa ti fa star male. So che hai voluto proteggermi. Ci sei riuscita.
- Cosa ricordi, amore mio?
- Ricordo che io e mio fratello eravamo bambini. Che ti vedevamo inchiodata alla croce della maternità, che eri stanca eppure non ci riguardava: volevamo le carezze a tutti i costi. Eravamo i tuoi due Bambini Gesù, temevi facessimo la stessa tua fine e non sapevi come proteggerci da te stessa. Noi avevamo un anno e ci aggrappavamo alle tue vesti fino a tirare e strappare il vestito per giungere al seno. E un giorno ci scansasti con un gesto di stizza facendoci male, molto male. Anzi, no, quest’ultimo fatto non lo ricordo, non ricordarlo nemmeno tu, Mamma.
- Amore mio, Aurora, vivevo la colpa di non sentirmi madre protettiva. Quella croce, quei chiodi che straziano i polsi volevo risparmiarveli. Con tuo fratello non ci sono riuscita. Ho letto il suo nome su un giornale buttato nei giardini pubblici: c’era droga, violenza, morte!
Il suo Bambino Gesù aveva scelto la propria strada, lei aveva abbandonato anche lui per salvarlo ma era stato tutto inutile.
- No, Mamma. Non hai trovato per caso quel giornale. Te lo feci trovare io. E te ne portai anche un altro, qualche tempo dopo, ricordi? Quello della mia prima mostra d’arte, dopo essermi laureata in belle arti. E so che ti sei privata anche del mangiare per molto tempo, pur di raggranellare qualche soldo per comprare un mio piccolo quadretto.
E si voltò, grata, a guardare la sua piccola opera pittorica che sua madre aveva esposto sulla panchina.
- Ho provato, sai, a entrare alla mostra. Avevo messo il cappotto bello, che ancora aveva i bottoni, ma non mi hanno fatta entrare. E poi, non avrei certo potuto farmi riconoscere: mi vergognavo.
- Lo so, Mamma.
Sostituì quell’ultimo pensiero scomodo con un nuovo ricordo.
- Come sta Giuseppe, tuo padre?
- Non ha mai smesso di pensarti, ti ama ancora Mamma. Anche se è ancora un po’ arrabbiato con te e Gabriele, per quella storia strana che avevate provato a raccontargli.
- Ma tu sei Gesù Bambina o Aurora?
La piccola le prese di nuovo la mano.
- Dai, dobbiamo andare Mamma, è ora. Presto saremo assieme; tu, i tuoi due Gesù e Giuseppe.
Maria dimenticò di colpo il Palazzo d’Inverno perché si era finalmente ricongiunta con Aurora, la sua bambina che, forse solo ai suoi occhi, non era mai cresciuta. Si lasciò condurre via felice.
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Giulia, così ordinaria con i capelli raccolti a crocchia e gli occhiali sul naso, non aveva una grande considerazione di sé. Nel camice da lavoro, che nascondeva le forme aggraziate della donna, pensava a quel ragazzo che l’aveva conquistata dicendole che lei riusciva ad accarezzargli la mente, che rappresentava “qualcosa di più". Lei ci aveva creduto per anni e per anni si era sentita felice, anche quando tiravano la cinghia perché solo lei lavorava. Ne ebbe la conferma quando, una sera, lui le disse che c’era un modo per smettere di vivere di stenti, perché lei era speciale, e le chiese di accompagnarlo in un posto particolare. E quando con Antonello si trovò di fronte ai falò delle prostitute, comprese cosa lui volesse intendere definendola "speciale".
Per ironia della sorte, quell'esperienza fallimentare, lungi dal farle sorgere degli interrogativi sul prossimo, aveva invece minato la fiducia in sé stessa. Continuava a chiedersi cosa vi fosse in lei di abbastanza degno da essere amato, visto che non era neanche capace di tenersi stretta un uomo. Tutti hanno un dono che consente di realizzare il proprio scopo, il senso di un'esistenza. Ma non ne trovava alcuno in lei: forse non valeva la pena di vivere una vita inutile come la sua. Così pensava.
- Infermiera, è tornato! Come è possibile che un gatto se ne vada a spasso per le corsie? Veda di farlo sparire.
Giulia sospirò, colta da una strana morsa al cuore. Aveva studiato filosofia e poi frequentato un corso come infermiera professionale, infelice intreccio che, quando si viene colti da un attimo di debolezza nei reparti di un nosocomio, induce a tristi riflessioni sulla morte anzitempo. Se il micio compariva, le toccava quel compito indesiderato, non rientrante nei doveri della categoria. Lei non l’aveva mai visto in realtà, i dottori mandavano lei a cercarlo perché “risolvesse il problema”. Eppure cercandolo, seguendolo avvertiva come un richiamo, una sensibilità istintiva frutto di un talento naturale, che la faceva giungere puntualmente in prossimità di un moribondo.
Quella sera lavorava nel turno della Vigilia. La clochard, una donna minuta, senza nome ed età, era in fin di vita. Lo dicevano le attrezzature mediche che la monitoravano. Il fantomatico gatto l’aveva infine condotta da lei. La poverina era stata tormentata e cosparsa di benzina da balordi che non sapevano come passare il tempo. Stava morendo… sedata, drogata, eppure sognava qualcosa poiché gli occhi chiusi comunque mostravano una intensa attività. La giovane infermiera sperava che non soffrisse troppo per le gravi, diffuse ustioni. Le stette vicino, come faceva con tutti i morenti che non avevano persone care al capezzale, tenendole la mano con caritatevole compassione. Arrivò al suo letto giusto in tempo, gli ultimi due minuti. Le prese il palmo, lo tenne stretto a sé fino a quando, venuto a mancare il polso, la sfortunata senzatetto, con un ultimo sorriso, sbarrò gli occhi, la fissò, disse qualcosa di strano, probabilmente aveva capito male, e se ne andò per sempre. Le era parso di sentire la poverina dire rivolta a lei:
- Grazie, Gesù Bambina.
Giulia pensò che dall’uomo che amava gli era stato offerto un posto di lavoro “speciale” sui marciapiedi intorno all’Eur, che in lei non c’era bellezza e nemmeno santità.
- Si, certo, io Gesù Bambina… che se potessi fare miracoli…!
Predispose con mestizia il protocollo per i casi di decesso, e poi tornò ai suoi compiti ordinari, con una tristezza grande che le attanagliava il cuore, quello stesso cuore che, nella sua inconsapevole vastità, non riusciva a comprendere quale fosse il senso della propria esistenza.
E la vita continuava a scorrere lenta come il Neva, mentre soffici fiocchi coprivano le orme di un gatto che, con passo mesto, si allontanava dall’ospedale.