Sicuramente è la piuma di un piccione quella che sfiora la caviglia di Elvira.
I polpacci, tesi sui tacchi a spillo, la tengono in equilibrio, a dir poco, instabile.
Ondeggia, schivando lo spazio tra un sampietrino e l’altro per non rimanere incastrata.
Ma quante volte si è sentita così, intrappolata tra due situazioni, la giusta e la sbagliata, verso cui, puntualmente, andavano le sue decisioni.
Indossa calze velate, strappate in più punti, troppo leggere per una fredda serata di dicembre. Scarpe nere, lucide di vernice e di usura, accolgono i suoi piccoli piedi.
– I piedi sono importanti, da quelli si parte e da quelli dipende il dolore o il buon umore. Fai stare bene i piedi e conquisti il mondo.
Le ricordava sua madre.
Troppo spesso, però, erano stati usati per descrivere le sue qualità.
“Cucini con i piedi, guidi con i piedi, reciti con i piedi, fai l’amore con i piedi.”
A molti piaceva prenderla così, appoggiata a un muro, sospesa sulle punte e senza appigli a cui aggrapparsi.
Ecco, quella piuma, senza nessuna costrizione, portata dal vento o da chissà cosa, sfiorandole la caviglia, è come una carezza, data per tutte quelle mancate.
– Buonasera Elvira. Come va? – le chiede il roscio. –Quando parti in tournée?
– Quanto sei scemo. Pensa a vendere le tue palle argentate e non rompere quelle degli altri.
– Allora se non parti in tournée, ritorni a casa dai tuoi?
– Buoni quelli, te li raccomando. Per loro ero e rimango una puttana! Ma una porzione di affaracci tuoi?
– Allora passiamo il Natale insieme…
– Con te? Manco morta!
Il solito dialogo cordiale con Aldo, proprietario della cartoleria all’angolo di via della Rondinella.
Dal colore delle sopracciglia si intuisce che da giovane aveva i capelli rossi, ma da tempo è completamente calvo. Gli occhiali spessi, dal bordo scuro, gli conferiscono un’aria da imbranato o da truffatore. Non si capisce se faccia la corte ad Elvira o se non tolleri il suo rifiuto. Ha una casa di proprietà, un negozio avviato in pieno centro, tutte cose per lui necessarie e sufficienti per quello che una volta veniva considerato un buon partito.
– Aldo, ma ti vedi? Come sei antico! – Gli risponde Elvira, quando è in vena di complimenti.
Stretta nel suo paltò rosso a scacchi neri, guanti al gomito e il collo di finta volpe sotto il mento. Sembra lei una donna d’altri tempi, un fantasma, che si aggira, zoppicando, per i vicoli di Trastevere. Gli occhi verdi, languidi per la matita nera sbavata, in certe giornate diventano colore antracite o canna da fucile, come dice Gustav, l’anziano ma sempre arzillo, bigliettaio delle Maschere Nude, un piccolo teatro, in una traversa del corso senza neppure un’insegna. La madre, da dopo la guerra, vive a Centocelle e conserva ancora, di un turista francese, il souvenir della torre Eiffel e un figlio.
– Due fori che puntano e fanno fuoco. Bang! Spari pallottole vere mica a salve, il tuo sguardo colpisce, trivella e penetra, senza pietà.
– Addirittura!
– Chissà quanti ne stendi ai tuoi piedi.
– Tutti! Infatti, mi ritrovo da sola più di un cane. – Ride Elvira, senza conoscere il perché.
Sono le sette di sera. L’asfalto luccica per la pioggia del pomeriggio.
In una mano tiene l’ombrello a cui manca qualche stecca, come un fucile, una baionetta con cui difendere le sue fragilità.
I marciapiedi sono affollati, luci e persone si muovono con le stesse intermittenze, di chi si agita restando sempre nello stesso posto.
Non le piacciono le feste, soprattutto il Natale.
A Natale sono tutti buoni. È il prima e il dopo che mi preoccupa. Questi, invece, sono ottimi sempre.
Aveva letto una volta sopra una scatola di biscotti da inzuppare nel latte.
Odia l’amore forzato, la bontà a tutti i costi, la corsa frenetica ai regali orrendi e inutili anche per essere riciclati. La città tutta si imbelletta per nascondere l’ipocrisia sotto l’odore dei canditi nel panettone, dello zucchero a velo sul pandoro.
L’indifferenza, sotto una folta barba bianca, camuffata da buonismo serpeggia per le strade.
Il traffico aumenta, la corsa frenetica pure, e questo è il periodo in cui chi è solo sembra accorgersene veramente, come fosse la prima volta.
Non ha una famiglia, Elvira, non perché sia vecchia, se i suoi cinquant’anni scarsi possono definirla tale.
E che per sé ha voluto una storia diversa e ha lasciato che le cose prendessero una piega inaspettata, fuori dal quadrante delle convenzioni, come il suo naso, che spinge leggermente a destra.
– Ho il naso di nonno, gli occhi di mio padre, la bocca sottile di mia madre, rimane qualcosa di me che non appartenga agli altri? Vorrei essere unica, qualche volta.
È nata in un paese dell’Abbruzzo, i genitori erano proprietari di un negozio di generi alimentari.
Finito il liceo, esisteva solo il miraggio di Roma e l’accademia d' Arte Drammatica. Voleva fare l’attrice, Elvira, vivere la vita di altri attraverso la sua, era l’unico modo per sentire che, per quanto banale e scontata fosse, non le apparteneva.
Quelle degli altri, quelle sì, che valeva la pena raccontare.
Venendo in città aveva incontrato i veri lupi e non sempre aveva saputo difendersi.
Tanti uomini, grandi promesse e un’interruzione di gravidanza, necessaria per non ostacolare la sua promettente carriera. Ma quale carriera?
Una delusione dietro l’altra, molti rifiuti dopo altrettante illusioni.
Cercava di accaparrarsi qualche piccola parte, anche come comparsa. Si piegava a fare lavori semplici, insignificanti, pur di riuscire a pagare gli affitti arretrati.
Poi c’era stato il debutto in una vera compagnia, come protagonista, L’esclusa di Pirandello, con cui era partita in tournee.
Sette anni fa, era successa la disgrazia o il fatto, come lo chiama lei. Allora abitava in due stanze al quinto piano di un palazzo fatiscente, senza ascensore, con le scale strette e gli scalini consumati.
Era la Vigilia di Natale, era pronta per uscire, si era truccata e aveva indossato un tubino nero con le spalle e le braccia velate. Una cena con pochi intimi, a casa di amici.
Uscendo dal bagno, aveva visto una luce arancione, accecante e il fuoco che riempiva la stanza. Non si era accorta di niente.
Il panico è come un fratello, un angelo della morte da tenere a bada, quando si può, quando si riesce a mantenere la mente lucida. Non quando le fiamme stanno arrivando da ogni parte e pensi di stare all’inferno senza essere ancora morto.
Solo il dietro e un davanti.
Il dietro era una porta chiusa sopra un passato ingannevole, ormai irraggiungibile; davanti c’era una finestra che dava sulla strada. Cinque piani per atterrare sul marciapiede, l’urlo che avrebbe interrotto, per un breve tempo, una notte di festa.
Di quale morte doveva morire?
Lei, proprio lei poteva scegliere se essere divorata dalle fiamme, stordita dal fumo o se, con un lancio nel vuoto, finire sull’asfalto.
Quale delle due morti poteva considerarsi un suicidio? Forse la più veloce?
E mentre aveva smesso di pensare, aveva le braccia già aperte, si lanciava nel vuoto, spiccava il volo. Solo le mani, cercando un varco nel fuoco, si illuminavano come torce vive.
Vivere da soli e morire, ancora di più, non erano una novità per lei, in fondo era un’attrice, ma a quarant’anni poteva succedere altro.
Il suo corpo leggero si faceva spazio nell’aria, una corsa senza freno.
Un sasso scagliato in un lago, che finiva sopra il tendone aperto del ristorante sotto casa.
La stoffa era robusta e resistente e lei rimbalzava, appena il tempo di vedere che era verde scuro, per poi rotolare verso il basso.
Del poi ricorda poco. Le facce sopra di lei, qualcuno che gridava al miracolo: – È viva!
Il dolore interno e quello esterno alle mani, una gamba scomposta in una posizione innaturale. Qualcuno l’aveva coperta con un cappotto prima dell’arrivo dell’ambulanza.
– Non era la mia ora, mamma. Non era ancora arrivata la mia ora.
Poi tre operazioni, il trapianto di pelle alle mani, i lunghi mesi trascorsi in ospedale, la riabilitazione.
– Vado verso il futuro con il passo sempre più incerto, ma almeno cammino.
Se lo ripete spesso, per trovare la forza, per andare avanti.
Gira l’angolo, come per tornare a casa. È ancora una volta la Vigilia di Natale, la gente si affretta più del solito.
– Ciao, Elvira, ti ho lasciato una porzione di lasagna ai funghi e la verdura ripassata.
Daniela, sulla porta della rosticceria, la invita a entrare andando verso il banco.
Elvira odia fare la spesa, perché non ama cucinare. Compra cibi già cotti o scatolette da aprire senza fatica e troppa fantasia. È il suo modo semplice di badare a se stessa, lasciando che gli altri facciano il resto.
– Buon Natale, Dany!
Ha lo sguardo tra la gratitudine e l’affetto.
Tornando a casa passa davanti al negozio che vende candele. Di tutti i tipi colorate, profumate, di ogni misura. Necessarie quando si vuole creare un’atmosfera. Le guarda con la coda dell'occhio, perché non osa più sfidare il fuoco.
Asad, l’amico egiziano, sull'altro marciapiede, la vede avanzare.
Le corre incontro e le prende le buste della spesa. Non sono pesanti ma le sue mani sono di cartapesta, come carta e colla pressata che tengono insieme le cinque dita.
L’accompagna a casa, un monolocale al primo piano.
Le luci delle luminarie, dalla strada, accendono la stanza. Il profilo di una slitta trainata da una renna si ferma sulla parete di fronte alla finestra, da cui si intrufola un odore di caldarroste.
In un angolo della stanza, sopra un tavolinetto, c’è un piccolo presepe, Maria e Giuseppe accanto a una mangiatoia vuota, in attesa, stanno con le mani giunte. Solo un pastore e due pecore, una sdraiata e una sulle spalle, animano la scena. Neppure un angelo sulla grotta. L’essenziale. Niente albero e nemmeno luci, perché era stato da un cortocircuito che si erano sviluppate le fiamme, quella notte. L’alberello finto era andato a fuoco, l’incendio di un bosco, insieme a tende e mobili.
– Ogni Natale è l’anniversario.
Elvira guarda la piccola grotta di legno, poi aggiunge: – Il giorno della nascita, ma anche della mia mancata morte.
Poi scostando con un movimento secco i capelli dal viso, allegra, chiede:
– Cos’hai preparato?
Asad è egiziano ma vive in Italia da diversi anni. Nel suo paese lavorava nell' impresa di famiglia, commerciava legname.
Continue estorsioni e minacce l’avevano costretto ad abbandonare l'attività.
Di quegli anni terribili conserva una cicatrice, sulla guancia sinistra, che sembra una strada asfaltata male.
Cambiando vita e lavoro era finito in Italia a gestire uno dei tanti negozi di frutta e verdura.
Dal suo metro e ottanta, conserva una bella chioma folta di capelli neri.
Ha gli occhi scuri come catrame, con ciglia talmente folte che sembra abbia messo il kajal.
La bocca carnosa mostra denti bianchissimi, in fila per un sorriso disarmante.
Una sera, che si erano trovati più vicini, lei aveva chiesto ragione di quella cicatrice.
Lui aveva risposto:
– Uno squarcio di tanti anni fa che, per fortuna, non sanguina più.
Poi, guardando negli occhi Elvira, tenendo le mani nelle sue, aveva domandato:
– E tu? Cosa è successo?
Lei aveva risposto:
– Il mio volo d’angelo, direttamente dall'inferno.
Poche battute e si erano scambiate le vite, avevano livellato le imperfezioni.
– Stiamo insieme stasera?
– E tuo figlio?
– È da sua madre. Ho preparato il koshari. Senz’aglio, tranquilla, lo so che non lo tolleri.
– Tipico piatto natalizio…
– …Nel pieno rispetto della ricetta classica!
Ridono, perché entrambi non hanno idea di cosa sia la tradizione.
Elvira lo guarda e si sente a casa.
– Per me va bene tutto. Mia madre mi ha tramandato poche cose. Lei stava in negozio fino a tardi, vendeva quello che serviva agli altri per preparare il cenone. A me e a mio padre non rimaneva molto.
Mette in tavola la tovaglia rossa con fiorellini ricamati e apparecchia per due.
Seduti, uno di fronte all’altra, ruota nervosamente le scodelle tra le mani.
– Da bambina, la sera della Vigilia, mettevo una letterina sotto il piatto di mio padre. Era un uomo burbero, tutto d’un pezzo, ma questa cosa lo inteneriva perché la lettera non era indirizzata a Babbo Natale, come facevano la maggior parte dei bambini, ma a loro, i miei genitori.
Si ferma con i piatti in mano, si accorge che non sta recitando, anche se lui la guarda.
– La cartoleria vicino al nostro negozio vendeva delle bellissime letterine di Natale.
La signora Franca le disponeva sul bancone e io era indecisa su quale prendere. C’erano renne che trainavano la slitta piena di regali. C’erano angeli vestiti di bianco con i riccioli d’oro e grandi ali azzurre che cantavano “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini”. Re Magi in viaggio guidati dalla stella cometa. Ma tra tante, quella che preferivo era la capanna con la Santa Famiglia.
– Cosa aveva di speciale?
– Luccicava tutta. Gesù Bambino, nella sua vestina bianca, sorrideva con le braccia aperte. Sembrava mi guardasse. Maria aveva un velo celeste bordato di porporina dorata. Giuseppe stava appoggiato al lungo bastone di porpora argentata.
Ha lo sguardo stanco, Elvira, eppure gli occhi le brillano.
– La portavo a casa tenendola come un tesoro per paura di sciuparla. Ricopiavo, nella parte interna, quello che avevamo scritto a scuola, con la paura di sbagliare.
– Perché non si potevano fare cancellature.
– Infatti. E quando la scodella traballava e mio padre faceva finta di accorgersene, arrossivo per l’emozione.
Un sorriso impercettibile le accarezza la guancia.
Come se la tenesse tra le mani Elvira legge, con il tono di una bambina felice in un giorno di festa.
– Cari mamma e papà, in questa Notte Santa ho pregato Gesù bambino che vi dia salute e serenità. Prometto di essere più buona e di non farvi arrabbiare troppo. Dite a Babbo Natale di portarmi Ciccio bello o un bambolotto uguale. Vi voglio bene. Vostra figlia Elvira.
Certi ricordi fanno fatica ad andare via.
– Non è andata proprio così…
Lui l’abbraccia, non vuole che pianga.
– E alla fine Ciccio bello non è mai arrivato!
Asad non comprende il Natale anche per questo, le continue richieste, troppe e che nessuno ascolta.
– Dio che diventa come la sua creatura, nessuno se lo ricorda più. Che idioti che siamo! Ridurre la festa d’amore per eccellenza a uno stupido scambio di cose inutili.
– Come fare le guerre in nome di Allah… Musulmano è colui che non ferisce mai nessuno né con le parole né con azioni e lavora per il benessere e la felicità delle creature di Dio.
Questa volta è Asad a declamare.
– Alla fine il mio Dio è uguale al tuo. Cristiani musulmani buddisti ebrei, quale Dio ama di più le sue creature? Si può forse confrontare l’amore di Dio?
Per un po' mangiano in silenzio. Poi lui, servendole alto koshari e un bicchiere di rosso, le chiede:
– Quanta poesia hai venduto oggi?
Elvira scrive poesie, le ricopia in bella grafia su piccoli fogli colorati e le vende per strada.
Si mette davanti ai ristoranti, alla fermata degli autobus, vicino ai bar o ai supermercati.
Chiede pochi spicci, per la carta e l'inchiostro, poca roba in confronto alle necessità della vita.
– La gente va sempre troppo di corsa, non ha più tempo di leggere, di ascoltare, di emozionarsi…
Dalla tasca della gonna di velluto, tira fuori un bigliettino arrotolato, legato con un fiocchetto rosso. Lo porge ad Asad e quello legge:
L’amore a volte si sgretola, a poco a poco, come tanti granelli attaccati a un castello di sabbia.
Annuisce, mentre da una tasca della giacca tira fuori un pacchetto per lei.
Non aspettano lo scarto dei regali. Mezzanotte può essere a qualsiasi ora.
È un libro di poesie di Nizar Qabbani.
Il libro si apre alla pagina dove è inserita una viola secca.
Lei recita, così su due piedi, senza nemmeno riscaldare la voce:
Confronto d’amore.
Non assomiglio agli altri tuoi amanti, mia signora,
se un altro ti donasse una nuvola io ti darei la pioggia
Se ti desse un lume io ti donerei la luna.
Se ti donasse un ramo germogliato io tutti gli alberi.
E se un altro ti donasse una nave
io ti darei l’intero viaggio.
Finito di leggere, alza il calice.
La mano le trema quando porta il bicchiere alla bocca.
Non sa ancora se Asad sia l’uomo giusto.
Sa che lui le bacia le mani ed è la sola persona a cui riesca a parlare della sua vita come fosse un romanzo, o una storia da raccontare.