“Chi avrebbe mai immaginato che il capo degli zampognari fosse il cugino di Don Tonino Mezzosgarro”, così chiamato perché mezzo sgarro gli era bastato per dare fuoco a una casetta di contadini, quando non aveva nemmeno sedici anni? Quella scoperta avrebbe cambiato la vita del ragionier Barducci, per sempre. Ma andiamo per gradi.
Premettiamo che il ragionier Barducci non aveva mai sopportato gli zampognari. Non li sopportava già da piccolo, impaurito che lo rapissero infilandoselo sotto quegli enormi giacconi di pelliccia ovina, sudati fradici giacché a Ronciglietto Lido c’erano almeno ventidue gradi pure all’Immacolata. Il disturbo crebbe col tempo, di pari passo con la statura e il suo cinismo sociale: “perché tanto spreco di tempo per una fandonia del genere, per quella stupidaggine che è il Natale?” Avessero almeno avuto profitto; invece no, lo facevano per beneficienza, col sorriso sulle labbra e chiedendo a stento una monetina. “Ma non possono fare come faccio io, qualcosa di più lucrativo, al posto di conciarsi per tutto dicembre manco fosse Carnevale?” Capiva ancor meno come facessero a riscuotere tanto successo tra il popolino, reo di apprezzare ammirato quei macabri otri di capretto che recavano ancora ben impresse, come stimmate, le forme delle zampine della bestiola immolata: un vero affronto per i vegetariani convinti come lui.
La tensione raggiunse l’apice proprio quell’anno. Se li trovò sotto casa alle nove e mezza di sera, già spaparanzato sul divano, con la copertina fino al mento e il suo bel soriano ad intiepidirgli il pancino, ché per economia condominiale il riscaldamento languiva ancora. Proprio mentre iniziarono a suonare, la Juve si fece segnare dal Galatasaray, con un rigore inventato che nemmeno il VAR era riuscito a togliere. Portavano male, senza dubbio. Oltre alla solita zampogna, c’era pure un altro scocciatore con uno strumentino infernale, una specie di pifferetto stretto stretto, dal timbro fastidiosissimo. Gli rimbombava nelle orecchie, non ce la faceva più; il mefitico suono fece persino scappare il gatto che, rifugiatosi sotto la poltrona, gli lasciò scoperto lo stomaco che si ribellò ben presto del novello freschetto riproponendogli la peperonata della cena. Era troppo, davvero troppo! Si precipitò così sul balcone e lanciò ai due un paio di monetine, giusto per allontanarli; invece si offesero pure, inscenando una sonora pantomima che gli fece perdere la faccia davanti agli altri condomini:
«Ragioniere, noi ci serve la vostra carità. Lo facciamo per piacere, non per soldi. Siamo persone rispettabili, non straccioni; se non apprezzate queste cose significa che non ci avete un cuore, nemmeno a Natale».
Ad essere precisi, ricordiamo che neppure il Natale andava troppo a genio al ragioniere, costretto com’era, per l’occasione, a tuffarsi nel traffico della Ionica per raggiungere la sorella a Sibari, invitato tutti gli anni per creanza, essendo l’unica parente. Sul cancellone della casetta di campagna lo accoglievano le due pestifere nipotine gemelle che, nonostante avessero ormai le zinne più grosse della madre, agghindate con maglioncino ai ferri rosso e gonnella a balze beige, gli recitavano sempre la stessa poesiola, ostentando un sorrisetto finto quanto un ciarlatano ambulante, con il solo intento di depredare lo zio, in quell’unica visita annuale, di quante più banconote possibili. La giornata proseguiva con il pranzo, dove il forzato ospite non sapeva controbattere alle profferte della sorella che, sempre con lo stesso sorriso stampato delle figlie, gli riempiva puntualmente il piatto di fritti, frittini e frittelle così intrisi d’olio da poter rifornire una petroliera. Negli anni si era persino arreso nel chiedere pietà, ché tanto la comare non l’aveva né lo avrebbe mai assecondato nel bloccare quell’eccesso calorico. Arrivava così a stento al tramonto quando, alzatosi per una passeggiatina nel giardinetto della casupola, veniva puntualmente raggiunto da quel fallito del cognato con la scusa “sono cose da uomini, non sta bene parlarne con le donne”; gli proponeva ogni volta di diventare socio in affari: aveva sempre l’idea giusta per far svoltare entrambi, nonostante sapesse a malapena contare fino a cento e tenere in mano una ramazza. Le idee erano sempre le più strampalate, dal commercio in Australia del peperoncino coltivato in giardino, alla costruzione di una diga personale per l’irrigazione del suddetto giardino, all’apertura di una fornace per la fabbricazione dei mattoni da utilizzare per la costruzione della suddetta diga per l’irrigazione del suddetto giardino per la produzione dei suddetti peperoncini. Che nemmeno erano piccanti, per inciso: parevano più dei cruschi che vere bombette calabresi. Atterrito e avvilito dalla concentrazione di tanta rustica ignoranza nell’arco di qualche ora, la Vigilia di Natale era per il ragioniere tensione pura, peggio di quando aspettava trepidante i risultati dell’esame per l’iscrizione all’albo; ma i suoi piano erano diversi, quell’anno.
Pianificò infatti minuziosamente la rivincita sugli zampognari, da consumarsi giusto prima della Messa di mezzanotte davanti alla chiesa di San Rocco. Odiando in modo dogmatico i buchi nell’acqua e lo spreco di tempo, voleva essere certo di trovarli nel piano svolgimento delle loro funzioni e così attese pazientemente per quasi due settimane. Partì da casa già armato di un piccolo punteruolo, facilmente celabile in una tasca. Saranno state le undici e mezzo, forse qualcosa di più, e davanti alla chiesa, al centro di un semicerchio di bambini con annessi genitori, plaudenti e felici, i suoni disarmonici dei due appestavano l’aria di note stonate e timbri irritanti, talché già in Corso Garibaldi il ragioniere fu sul punto di turarsi le orecchie. Si diresse rapido verso i mediocri musicisti abusivi, con il bavero del giaccone in ecopelle alzato fin quasi alle orecchie. Si insinuò schivo fra le famigliole, affrontando direttamente quello più grosso; questo lo riconobbe ma non serbava rancore per quanto avvenuto giorni addietro.
Il volto disteso, mentre soffiava tranquillo nello strumento, quasi fosse la cosa più naturale del mondo, invitava al perdono, alla riconciliazione. In fondo, era Natale per tutti. Quando fu a meno di un metro di distanza, il ragioniere sporse appena la punta del punteruolo dal giaccone, senza dare nell’occhio, e si avvicinò ancor di più al bamboccione davanti a lui, manco volesse abbracciarlo.
Zac, tutto era compiuto. La zampogna si sgonfiò in un attimo lasciando il suonatore allibito, tanto quanto il suo compare con il flautino che, senza accompagnamento, si accorgeva solo allora di quanto fosse sgraziato il suono del suo primitivo strumento. Inutile dire che il ragioniere si dileguò tra la folla, che lo schivava lasciandogli strada libera, nel timore che potesse ferire qualcuno.
Fu così che il ragionier Barducci, proprio alla mattina di Natale, ricevette l’inaspettata visita di Totò Sgozzacani e Calogerino Cannamozza, soprannomi tutt’altro che fantasiosi per indicare una certa vicinanza artistica e culturale con Don Tonino Mezzosgarro. Non fece nemmeno resistenza quando bussarono alla porta, convinto che si trattasse di uno sbaglio. Fecero ancora meno fatica i due sgherri a sollevarlo di peso, bendargli gli occhi e caricarlo su una vecchia 206 grigia.
«Dove lo portiamo, direttamente da Don Tonino, o prima ci fermiamo e ci divertiamo un po’?»
Al solo pronunciare la parola divertimento l’intestino del ragioniere si contorse a tal punto da emettere una serie sconsiderata di peti che, complice la fagiolata maldigerita della sera prima, tanto appestarono l’abitacolo dell’utilitaria da renderlo irrespirabile, costringendo così i due galantuomini ad abbassare i finestrini nonostante gli si gelassero le orecchie, quasi.
«No, per carità, portiamolo subito da Don Tonino. Questo minchione si sente un signore ma fete quanto un maiale! E poi oggi le ricevitorie sono chiuse, è Natale!»
Il ragioniere, dai finestrini abbassati, riusciva chiaramente a percepire il placido sciabordio delle onde sulla spiaggia. Erano certamente sul lungomare, davanti agli occhi di tutti, quasi fosse la cosa più naturale del mondo portare un uomo bendato sul sedile posteriore, manco stessero giocando a mosca cieca. Il suono si fece sempre più flebile, cambiando tonalità: ora udiva solo l’eco di impetuosi flutti che si infrangevano su alte rocce roboanti. Anche l’andatura della 206 si fece più movimentata, con brevi e frequenti curve a destra e sinistra e il motore che arrancava pure per tenere quella moderata andatura. Probabilmente stavano salendo dalle parti di Capo Rizzitello: lo avrebbero certamente buttato dalla scogliera, per ammazzarlo e occultare il cadavere con un unico sforzo. Al solo pensiero del suo cranio sfracellato su uno spuntone e delle sue membra come merenda per i pescecani, tanto peggiorò la fragranza delle sue emissioni intestinali da indurre i due sgherri a pensare che da aeriformi si fossero tramutate in liquide: da allora il ragioniere fu semplicemente nominato “cacasotto”.
Ad auto ferma, tolta la benda, il fatto di trovarsi nel giardino di una bella villa, curata e piena di vasi di fiori, rincuorò giusto un attimo il Barducci, fin quando i suoi occhi rinati incrociarono una malconcia porta a listelli di legno spalancata, che dava su una ripida scala tanto profonda da non vedersi il fondo. Sulle prime tentò di opporre resistenza, ma fu nuovamente sollevato di peso dai due energumeni. Scendendo, l’iniziale sentore di muffa si tramutò in un tanfo pestilenziale, da carogna in putrefazione, e fu proprio lì che perse i sensi, sicuro che quelle scale non le avrebbe mai ripercorse sulle proprie gambe.
Appena riavutosi con l’ausilio di uno schiaffone, si trovò davanti Don Tonino in giacca e cravatta, con i soliti occhiali fumè che portava sempre in paese. Si dice che li abbassasse unicamente prima di ammazzare i suoi avversari, per fissarli bene negli occhi e nutrirsi del loro terrore, senza filtri. Appena le dita del boss si avvicinarono all’asticella sull’orecchio destro, il ragioniere, riavutosi per lo spavento, iniziò a prostrarsi a terra e a piagnucolare:
«Don Tonino, vi sbagliate di certo, non ho mai fatto torto a nessuno, né a voi né alla vostra famiglia!»
Il Mezzosgarro lo guardò con sdegno e schifo, come una donnetta prima di spiaccicare una blatta appena uscita dall’insalata:
«Ma come ti permetti, cacasotto, mai mi sono sbagliato in vita mia! Se sei qui un motivo c’è, l’hanno visto tutti in paese!»
Si sedette quindi su una specie di seggiolone di velluto antico, regale scranno dal quale impartiva gli ordini ai suoi sudditi:
«Giusto ieri sera facesti offesa a Carmine, mio cugino. Fa lo zampognaro, ti ricordi? Tu c’hai rotto la pelle dello strumento. Ora, per lavare l’offesa, io devo rompere la tua, di pelle!»
Intanto i due galantuomini al suo fianco avevano estratto due punteruoli in tutto e per tutto simili all’arma usata la sera prima dal Barducci. Il ragioniere cercò di difendersi appallottolandosi, buttandosi a terra in posizione fetale, a uovo e si sentì strappare il giaccone di ecopelle dalle maniche. Cercò di trattenerlo, ma i nerboruti fisici dei due sgherri gli diedero ben poche chance di vittoria. Uno “zac, zac”, uno squarcio, rimbombò sibilante nell’antro sotterraneo. Il Barducci non percepiva alcun dolore: tanto era stordito dall’accaduto che si sentiva quasi anestetizzato. Appena i gaglioffi allentarono la presa, il ragioniere si rimise in piedi e si palpò dappertutto in cerca di buchi o ferite; tuttavia le sue mani non erano lordate di sangue. Alzò lo sguardo e vide il signor Sgozzacani con in mano il suo giaccone sbrindellato. Don Tonino lo apostrofò:
«Adesso siamo pari, tu rompesti la pelle della zampogna di mio cugino e ora io rompo la pelle della tua giacca”. Scrutò il ragioniere ancora per un attimo, immaginando la sua incredulità nell’essere uscito incolume dalla colluttazione: “Ma che pensavi, che ti ammazzavo proprio il giorno di Natale? Siamo galantuomini, noi: come posso sozzare queste mani che fra poco abbracceranno i miei figli?” Figli che, per inciso, vedevano ormai più spesso il secondino e l’avvocato che loro padre. “E per chi poi? Per quello scimunito di Carmine? Mai uno bisnéss ci andò bene in vita sua e così si è ridotto a suonare la zampogna. Per fortuna che c’è la famiglia che provvede a lui! Adesso vai, va: è Natale pure per te!»
Aggiunse quindi il Cannamozza:
«E con i migliori auguri di Don Tonino!»
Tanto fu il terrore che questa teatrale esclamazione fosse il preludio di una scarica di Kalashnikov, da indurre il ragioniere a precipitarsi a rotta di collo verso la scala, che lasciava trapelare una leggera chiazza di luce solare. Dopo una decina di gradini, quando giudicò di essere fuori tiro dalla traiettoria di eventuali proiettili, si fermò e si tastò di nuovo ovunque, quasi incredulo di avere solo la giacca un po’ sbrindellata. Al cospetto dell’azzurra volta a coronamento della salita, il Barducci percorse quindi l’ultimo tratto della scalinata con una levità tale da parergli ancora in discesa.
Appena fuori fu bombardato da una gragnuola di messaggi WhatsApp, che evidentemente non erano riusciti a penetrare i dieci metri di dura roccia a protezione della caverna. Erano tutti della sorella, in sequenza:
- Siamo un po’ indietro con i preparativi, potresti arrivare verso le tredici? –
- Miranda e Iolanda non stanno bene, mi sa che se ne staranno in camera loro –
- Le gemelle sono al pronto soccorso, ma niente di grave, magari ci liberiamo per cena-
- Oggi è meglio se non vieni, mi dispiace… Auguri comunque! –
La situazione, ben più complessa, era solo parzialmente rappresentata dai messaggi. In realtà la donna, nel preparare il sugo per le polpette, aveva involontariamente scambiato i miti peperoncini autarchici con una poderosa manciata di Habanero originali, gentilmente donati dalla vicina per mostrarle cosa significa una piccantezza da 500000 Unità Scoville. Inutile dire che, appena addentata mezza pallotta per vedere se era cotta, le pestifere gemelle avessero ricevuto pressoché all’unisono un’ustione di terzo grado alle papille gustative, frignando tanto da costringere i genitori a portarle in ospedale e maledicendo di non essere nati tutti quanti a Vipiteno, dove almeno le gare di piccantezza non sono all’ordine del giorno.
La fortuna volle che, oltre a poter saltare il temuto pranzo, poco distante dalla villa di Don Tonino vi fosse una modesta fermata del treno, dalla quale una spetazzante littorina riportò il ragioniere direttamente a Ronciglietto Lido. Il sole caldo che attraversava le tendine, il cielo terso sopra il mare e, non ultima, la compiacenza del controllore che gli abbuonò persino il biglietto (“tanto sono dieci chilometri e oggi è Natale!”) resero la festività del ragioniere più dolce degli stucchevoli canditi di un panettone del cellophane.
Trovò persino aperto il Bistrot degli Artisti, a duecento metri dalla stazione, dove un’insalata con uovo sodo e un vaporoso sufflè agli asparagi gli consentirono di banchettare meglio di un re, oltre che rapidamente. Non vedeva l’ora di rientrare a casa, per una volta con il sole ancora alto, e piazzarsi sul divano con annesso soriano per la replica di qualche film di Lino Banfi e Alvaro Vitali.
A pochi passi dalla cancellata del suo condominio, già avviato verso il tramonto del Natale, gli si avvicinò un attempato spilungone con la barba lunga, un po’ trasandato e con un mantellone usato a mo’ di coperta. Biascicava qualcosa di incomprensibile, ma senza dubbio chiedeva soldi, con la decisa insistenza di chi sapeva benissimo che, per un paio d’ore almeno, nessun cristiano avrebbe potuto dargli corda né denaro. Il tono si fece in breve molto più violento: il barbone mise la mano destra sotto il giaccone con fare alquanto minaccioso; il Barducci provò a scansarsi, ma non fece in tempo.
Prima che il ragioniere riuscisse a dileguarsi, il malintenzionato estrasse un organetto stonatissimo e iniziò a rincorrerlo con una tarantella scomposta, fuori tempo: basta zampognari, da quel giorno avrebbe odiato i suonatori di organetto.