La bambina salì sul masso e cercò di rimanere in bilico sulle punte dei piedi. Portò una mano alla fronte a schermarsi gli occhi dal riverbero dorato del sole al tramonto e lo seguì nella lenta discesa, finché scomparve dietro la cresta del monte.
«Ciao sole! Ci vediamo domani!» e con un balzo scese sul prato, appena imbiancato dalla prima neve della stagione. Raccolse la fascina di stecchi e rametti che aveva preparato e s’incamminò per raggiungere la madre, occupata a sistemare gli ultimi pezzi di legno sul carretto.
Ma il bosco sussurrò qualcosa.
La piccola si voltò verso gli abeti, ormai raggiunti dalle ombre della sera, e guardò le fronde immobili davanti a sé: nel buio del bosco vide brillare una lucina rossa, appesa a un ramo basso e nero, mentre nell’aria squillò il din argentino di una campanellina.
La bambina sorrise e si mosse verso quella lucina che si accendeva e si spengeva nel buio.
«Teoly!» la madre la raggiunse e le posò una mano sulla spalla «Non devi andare nel bosco ora che è buio! Forza, aiutami con il carretto e torniamo a casa.»
«Mamma, guarda là!» e puntò il dito verso la sua scoperta.
La donna guardò e strinse a sé la bambina.
«Andiamo a casa» sussurrò.
«Cos’è quella lucina, mamma?»
«Adesso andiamo a casa e poi te lo dico.»
«Ma…»
«Adesso!» e dal tono della voce Teoly capì che non doveva insistere. Prese la mamma per mano e la seguì fino al carretto. Si voltò un paio di volte verso il bosco: tra i rami poteva ancora intravedere la misteriosa luce accendersi e spengersi.
Sembrava farle l’occhiolino.
La donna raggiunse il villaggio a testa china mentre la figlia trotterellava accanto al vecchio asino e cantava allegra una canzoncina. Sull’uscio di una casa incontrarono Helda intenta a spazzare la soglia.
«Siamo state nel bosco» disse a voce bassa la madre di Teoly.
«E abbiamo visto una lucina rossa che si accendeva e si spengeva!» finì per lei la bambina carica di entusiasmo.
Helda deglutì, abbassò il capo e ritornò in casa.
Presto il carretto, tirato dal vecchio animale, percorse l’intero villaggio e la notizia della luce nel bosco si sparse. Nell’ora incerta che precede il buio della lunga notte invernale, tutti si chiusero in casa seguiti dall’ombra nera di quella cattiva novella.
Solo i bambini faticarono ad addormentarsi: percepivano qualcosa di diverso nell’aria e ne erano allo stesso tempo eccitati e impauriti.
Mastro Fedor chiuse le imposte della falegnameria in modo che nessuno potesse vedere quello che sarebbe stato il suo prossimo lavoro. Andò nella stanza sul retro dove teneva del legno prezioso; si fermò un attimo sulla soglia, scosse la testa ed entrò. Le tavole chiare erano appoggiate al muro e le accarezzò con la mano ruvida e callosa prima d’iniziare a prendere le misure per costruire una piccola bara, da bambino. Tra poco sarebbe stato Natale.
Il funzionario romano scese a fatica da cavallo e si stiracchiò.
Mentre i soldati portavano i cavalli nelle stalle, cercò di rimettere in sesto le ossa, provate dalla lunga cavalcata. Quando fu sicuro che le gambe lo avrebbero retto, si diresse alla casa di Fedor.
Il falegname lo vide arrivare e gli andò incontro a braccia aperte.
«Finalmente ti rivedo, Lucius! Com’è stato il viaggio?»
«Ah, canaglia! Ti prendi gioco di me! Salire fino al vostro villaggio è sempre un’enorme fatica per le mie vecchie ossa. Dammi qualcosa che mi faccia dimenticare di essere arrabbiato con voi per aver costruito questo posto in capo al mondo!»
Fedor lo fece entrare in casa e accomodare vicino al camino scoppiettante.
«Ti aspettavamo prima. Adesso rischiate di trovare la neve al ritorno» e gli porse un bicchiere di liquore al ginepro.
«Cavoli quant’è buono!» disse il romano dopo averlo assaggiato «Solo questo vale il viaggio. Non è che te ne avanza un barilotto in più?»
«È già pronto con il tuo nome inciso sopra» e si sedette accanto a lui.
Lucius rise e stese i piedi verso il fuoco.
«Allora, Fedor, come vanno le cose qui da voi? Abbiamo tardato a venire perché siamo stati impegnati a respingere un’incursione germanica a un paio di giorni da qui. Brutte bestie questi barbari.»
«Già» convenne Fedor e rimase per un po' a fissare la danza del fuoco. Poi guardò l’altro in viso: le luci e le ombre si rincorrevano sul volto tirato e serio colorando di rosso la pelle candida «Abbiamo un problema, Lucius.»
Il funzionario romano si voltò verso di lui e alzò un sopracciglio «Vivete in un posto meraviglioso, Fedor. Avete cibo, tanto e buono e nessuno vi minaccia. Che tipo di problema può avere una comunità come la vostra? Qualche vacca si rifiuta di fare il latte?» e gorgogliò in una risata affogata nel grasso del suo doppio mento.
Fedor guardò ancora il fuoco, poi tornò a fissare l’ospite.
«È vero, l’apparenza è questa, ma…»
«Ma?» lo incalzò l’altro.
Il falegname rimase in silenzio: sembrava cercasse da qualche parte la forza per parlare. Fece un lungo sospiro, drizzò la schiena e fissò Lucius dritto in viso.
«C’è qualcuno che abita laggiù, oltre il bosco» disse «qualcuno che non sappiamo chi sia. Ogni anno però scende in paese. E uccide un bambino.»
Lucius fece un balzo sulla sedia e imprecò chiedendo subito scusa al suo dio «Ma che vuol dire Fedor? Dici che è un uomo solo, perché quindi non avete provato a cercarlo? Perché aspettare noi?»
«Ci abbiamo provato! Siamo andati oltre il bosco più volte con i ragazzi più svegli del villaggio, ma niente. Non lo abbiamo mai trovato. So soltanto che ogni anno scende in paese e se ne va con uno dei nostri figli.»
«E non lo avete mai fermato?»
«Non si può.»
Lucius scosse la testa e guardò il fuoco con la fronte corrucciata «Brutta storia.»
«Sì. A nome di tutto il villaggio chiedo la vostra protezione: siamo rispettosi nei vostri confronti, paghiamo tutte le tasse che vi dobbiamo, produciamo cibo di ottima qualità. Non penso che Roma si lamenti di noi, ma adesso abbiamo bisogno della vostra protezione.»
«Cosa volete di preciso da noi?»
«Siete guerrieri addestrati: vogliamo che provate a catturare quel mostro! Non vi abbiamo mai chiesto niente, ma adesso siamo disperati! Noi abbiamo provato a stanarlo, ma non abbiamo trovato niente. Ti prego, Lucius, aiutaci!»
Il romano lo guardò grattandosi la barba.
«Ma sapete almeno chi è? Qualcuno lo ha visto?»
Fedor alzò gli occhi su di lui e annuì lentamente.
Quella notte Lucius dormì male: rifletteva sull’accorata richiesta di aiuto e la pelle gli s’increspava di brividi. Quello che gli aveva raccontato il vecchio falegname non gli piaceva, nemmeno un po'. Un uomo che viveva da solo alla fine del bosco e che teneva in scacco un intero villaggio, derubandolo di quello che aveva di più caro. Vinte le perplessità aveva promesso che l’indomani sarebbe andato in ricognizione con i suoi uomini, anche se quell’impiccio gli avrebbe portato via altri giorni. Ma la presenza di Roma si doveva percepire anche in quei luoghi nascosti e, soprattutto, c’erano un paio di barilotti di liquore che aspettavano il suo ritorno per essere portati via. Ormai quella spedizione stava rosicando non più giorni, ma settimane e ne aveva fin sopra ai capelli. Barbari, mostri, tasse da riscuotere: era proprio l’ora di tirare i remi in barca e ritirarsi nella sua fattoria a Tarquinia.
Fedor rimase insieme agli altri a guardare il drappello a cavallo sparire tra le fronde del bosco.
«Lo troveranno?» chiese la moglie, appoggiandosi alla sua spalla.
«Spero di sì.»
«E se fosse lui a trovare loro? E se non tornassero più?»
«Torneranno, stanne certa.»
«E come fai a essere così sicuro?»
«Non gl’interessano. Non sono bambini.»
La donna si portò una mano alla gola, strozzando un singhiozzo.
«I bambini…» sussurrò e si voltarono verso un gruppo di piccoli scalmanati che giocavano a rincorrersi, finché uno di loro non si fermò e indicò il bosco. Subito decine di occhietti si voltarono in quella direzione: dai rami neri pendevano decine di lucine rosse che brillavano nella penombra, regalando il loro argentino din al vento.
Lucius e i suoi uomini tornarono tre giorni dopo. Il vecchio funzionario romano fermò il cavallo di fronte alla casa del falegname e scese mentre i soldati rimasero fermi sui loro destrieri. Spalancò la porta e si diresse verso Fedor: i suoi occhi brillavano nella penombra della stanza.
«Tu!» iniziò.
«Lucius! Cosa ti è successo?»
Il funzionario romano si sedette di fronte al fuoco, mentre il falegname muoveva qualche timido passo nella sua direzione.
«Lucius…» chiamò ancora.
Il nuovo venuto rimase ancora un po' a fissare il fuoco e lentamente sembrò sciogliersi e scrollarsi qualcosa di dosso che lo stava immobilizzando: qualcosa che poteva essere paura.
«Prima di salire fino al vostro villaggio» iniziò a parlare con un filo di voce «siamo passati da Vico Porcellorum, a un giorno di cammino da qui. Sai cosa abbiamo trovato?»
Fedor fece segno di non con il capo.
«Ebbene lì erano davvero disperati: un incendio ha distrutto il fienile e non sanno cosa dare da mangiare alle bestie. I lupi hanno fatto razzia di pecore e sono morte ben tre donne dando alla luce i loro piccoli. A Equi Terme invece un’epidemia si è portata via mezzo villaggio.»
Tacque. Fedor abbassò il capo e apprese quelle notizie in silenzio. Nel mentre che lo faceva sentì la speranza che aveva riposto nell’aiuto dei romani scivolare via.
«Sai perché ti dico questo, Fedor?»
Silenzio.
«Perché qui vivete nel paese del latte e miele! Siete dei privilegiati rispetto agli altri villaggi, lo sai, vero?»
Fedor lo sapeva.
«A me non interessa niente se festeggiate il Sol Invictus, la nascita di Gesù Cristo o i Saturnali» continuò Lucius e la sua voce divenne sempre più alta e stridula «A me non interessa niente di niente. So solo che il dio che venerate è potente e veglia su di voi. Se il prezzo da pagare è la vita di un bambino io non mi agiterei più di tanto. C’è di peggio intorno a voi.»
«Lo hai visto?»
Il romano si alzò di scatto e così facendo il cappuccio che aveva sugli occhi ricadde indietro scoprendo i capelli completamente bianchi. Solo tre giorni prima erano di un grigio vigoroso.
«Io non ho visto niente, Fedor. Ma ho percepito una presenza intorno a noi. Nel bosco non c’era freddo, abbiamo trovato acqua corrente e i cervi, mio dio! Cervi grossi più di me fermi sul sentiero che aspettavano una freccia per essere uccisi. Ti sto parlando di cibo a volontà, Fedor! Anche se tu tutto questo lo sai già, vero?»
Il falegname chinò la testa. Certo che lo sapeva! Tutto era dannatamente perfetto intorno a loro, tutto. Ma il prezzo da pagare era in ogni caso immenso.
«Me ne vado, Fedor. Non credo che tornerò più.»
I due uomini si fronteggiarono. Lucius tese la mano.
«Tutto qui? È questo l’aiuto che offre Roma ai suoi sudditi? Ci abbandonate, quindi?» e la sua voce divenne sempre più instabile.
«Io sono qui per controllare i confini e riscuotere le tasse. Non per combattere contro un dio che non conosco!» e si avviò verso la porta.
Fedor rimase immobile di fronte al fuoco, senza sentire calore, avvolto da un gelo profondo. Uscì quando i cavalli erano ormai una nuvola di neve all’orizzonte.
«E adesso?» chiese sua moglie.
Ma Fedor non sapeva cosa sarebbe successo adesso. Anzi, sì. Chiuse la porta e tornò in falegnameria.
Il bosco vibrava. Le luci infiammavano i rami e chiazze di rosso si riflettevano sulla neve per poi sparire e ricomparire subito dopo, mentre il concerto di campanellini riempiva il silenzio della notte. Nelle case del villaggio i genitori si strinsero intorno ai giacigli dei bambini che ignari di tutto si apprestavano al sonno eccitati da qualcosa che non sapevano spiegare. Nel buio, nell’attesa, nella frenesia, nella paura, il villaggio rimase sospeso nel nulla ad affrontare una nuova vigilia di Natale. Quando il vecchio giorno cedette il passo al nuovo tutto si chetò. Nell’irreale silenzio si udiva distintamente un passo pesante percorrere con calma le vie del paese. I genitori tenevano strette le mani dei figli addormentati tra le loro e il loro cuore cessava di battere quando sentivano i passi all’esterno fermarsi davanti alla loro porta. Poi il fruscio della neve che cedeva sotto un nuovo passo e l’eco di una camminata che scemava via li sollevava riportandoli alla vita. E quel suppliziò durò tutta la notte, fino a che l’urlo disperato di una donna non mise fine a quell’agonia. Fedor si precipitò alla finestra e guardò giù in strada, appena in tempo per vedere la figura di un uomo che sorridendo si voltava verso di lui, mentre il vestito gli si colorava con il rosso del sangue che colava dalla sua bocca.
E allora anche Fedor urlò, con il ricordo di quel sorriso macchiato di rosso squillante incastrato davanti gli occhi, a ricordargli quanto fosse alto il prezzo della loro invidiabile felicità.
La purezza del cielo azzurro del nuovo giorno feriva gli occhi. Le porte si spalancarono e un turbine di bambini festanti si riversò in strada. Oggi era nato Gesù Bambino e ci sarebbe stata una bella festa in paese, ma prima, come da tradizione, corsero verso il bosco. Già da lontano il luccichio tra i rami confermava la promessa dell’anno prima: le lucine rosse e i campanellini non c’erano più, sostituiti da doni per tutti. L’adrenalina dell’attesa finalmente scemava e i doni andarono a colmare i buchi che si erano aperti nelle coscienze.
Fedor guardava tutto dalla porta della sua falegnameria: come ogni anno meditava sul prezzo delle cose, e di quanto fosse alto quello della felicità. Poi rientrò in bottega a finire il suo lavoro: doveva scrivere un nome su una bara.