Celinia avanza lentamente lungo la strada che porta al paese, e ne assapora i dettagli e la memoria metro dopo metro. Nonostante tutti gli anni passati, si rende conto che potrebbe percorrerla a occhi chiusi, quella strada.
Ritrova ruscelli e massi e alberi e curve. Ricordi e realtà combaciano in lei come riflessi in uno stagno.
Ecco il lungo rettilineo che precede il dirupo, con gli alberi avvolgenti come un tunnel. Dopo la curva, ecco l’enorme castagno e la stalla coperta di rampicanti, ora secchi per il gelo. Più avanti, ritrova la cascina grande in mezzo al prato, con i suoi muri color terra e il tetto in pietra. Oggi una macchina con targa tedesca è parcheggiata fuori dal cancello e una stella cometa luccica intermittente sopra la porta.
Riconosce il torrente con la pozza sotto la cascatella, dove andava a giocare da ragazzina. Ora è incrostata di ghiaccio. Quante volte, con Marta, aveva fatto il bagno in quell’acqua gelida anche d’estate. Guarda una piccola croce di metallo infissa nella roccia sul bordo della strada, a ricordo di un antico incidente. È arrugginita. Viaggiare nel tempo si può, si dice. Possono dire quello che vogliono ma si può. Si sente come se fosse passata da quei luoghi il giorno precedente, con un salto temporale di sessant’anni in un istante.
Procede lentamente nei familiari profumi umidi e freddi del bosco. I riverberi del lago le giungono dal basso, mossi dai rami spogli di fine dicembre. Un vento gelido scende dal versante e sposta foglie e ricci di castagno secchi.
E dopo l’ultima svolta, ecco il paese. Un gioiello incastonato nel fianco della montagna. Le si apre davanti, così improvviso da togliere il fiato nonostante se lo aspettasse.
Ciao Marta, si dice tra sé. Arrivo. Sono tornata. Una promessa è una promessa.
Vaga per la stradine strette e deserte, accompagnata solo dall’abbaiare lontano di un cane e dall’odore del fumo di qualche raro camino acceso. Non c’è nessuno oggi, sotto quel cielo grigio carico di neve. Pochissime luminarie natalizie si accendono e si spengono tra i balconcini. Tante case sono state ristrutturate, ma la maggior parte sono rimaste come allora, in pietra e legno. Anzi, più decadenti di allora.
Osserva il lago in uno scorcio tra due cascine diroccate. Non si stancherebbe mai di guardarlo, il lago. Le è mancato, si rende conto. Quella vista e quelle stradine le sono mancate terribilmente. Perché non era tornata prima?
Già allora il paese incominciava a perdere abitanti, pensa, e adesso appare praticamente disabitato. Una volta ci vivevano centinaia di persone. C’era la scuola, il prete, la canonica, qualche bar. Ora, immagina, a parte tre o quattro vecchietti e qualche tedesco in cerca di bei panorami, non c’è nessuno.
Raggiunge la piazza della chiesa. Un grande prato si estende davanti al basso edificio religioso dipinto di bianco, con il piccolo cimitero di fronte circondato da vecchi alberi, e il lago e le montagne a fare da sfondo a quel luogo sacro che confonde gli animi mischiando morte e luminosità.
Si ricorda quando arrivò in quella piazza la prima volta, così tanto tempo prima. Avrà avuto dodici anni. Era l’inizio dell’estate e il cielo brillava di colori che lei, bambina di città, a malapena conosceva. Suo nonno aveva da poco acquistato una casa nel paese, primo turista in quel borgo montano e isolato, e lei vi era stata trasportata suo malgrado per passarvi le vacanze estive. Dopo qualche giorno trascorso ad ammirare il panorama, a giocare lunghissime partite a carte con la nonna, a finire libri di avventure e a torturare formiche e lumache, era stata attirata in piazza da un vociare giovane.
Si era avvicinata piano, lei con le sue scarpette da ginnastica bianche. Il gruppo era composto da una decina di ragazzini e ragazzine di varie età, chiassosi e infangati. Giocavano a passarsi una palla. Tra tutti emergeva una ragazzetta con lunghi capelli rossi. Non era la più alta né la più grande, ma era quella con la voce più forte e gli altri si zittivano quando lei parlava. Avrà avuto un paio d’anni più di lei. Era vestita con una pesante camicia da uomo e con il suo sorrisino storto sembrava prendere in giro tutti.
Ricorda che per un po’ guardò da lontano il gruppo giocare. Poi la palla cadde nel prato sotto la piazza, finendo in un roveto.
I ragazzi si radunarono in cerchio, parlottarono per qualche secondo chinati, quindi la ragazzetta rossa si alzò e le urlò: - Ehi, tu vieni qui!
Lei prima aveva esitato, poi si avvicinò piano e la rossa proseguì: - Tu, come ti chiami?
- Celinia - rispose titubante.
- Celinia, bel nome - disse la ragazzina con il suo vocione. – Vorresti giocare con noi?
Lei ci pensò un attimo, guardò il pallone di sotto e rispose: - Sì, mi piacerebbe.
- Ecco brava, allora vai giù a prendere la palla.
Celinia si fece coraggio e chiese: - E tu, come ti chiami, tu?
L’altra l’aveva guardata quasi stupita, come se non si aspettasse una reazione, poi rispose: - Io sono Marta. Allora vai?
- Ok.
Ricorda di essersi sentita vagamente umiliata ma, nonostante questo, sotto lo sguardo del gruppo radunato sul muretto, si avventurò nel prato fangoso sottostante. Le sue scarpe al ritorno avevano perso il loro candore cittadino ed erano diventate più simili a quelle degli altri, meno bianche e più montane, ma non per questo più brutte.
Ecco la prima volta che aveva incontrato Marta.
Quel pomeriggio era proseguito allegro, con il lago scintillante a fare da sfondo ai giochi. Lei continuava a recuperare il pallone ogni volta che cadeva sotto, e si stupì di sentirsi quasi contenta di aver assunto un ruolo preciso, seppur sottomesso, nel gruppo.
Ora il cielo è plumbeo e carico di neve e il lago manda riflessi di un grigio metallico e minaccioso. La solitudine del posto è quasi tangibile, pensa Celinia. L’eco delle risa di quei bambini è dispersa, e il tempo di quei giochi dimenticato. Quel poco di atmosfera natalizia che può ricavare da qualche sparuta lucina intermittente non la aiuta a sentirsi meno sola.
Marta, dove sei? si chiede. È Natale, sono tornata.
Sente un rumore provenire dal cimitero e si irrigidisce. Il vecchio cancello metallico del camposanto cigola mosso dal vento. Nulla è cambiato, nota, neppure il rumore di quel cancello arrugginito.
Torna a guardare il lago e a ricordare . Quel cimitero ha avuto un significato tutto speciale per lei e per Marta.
Dopo quel primo pomeriggio di tanti anni prima, Celinia aveva cominciato a far parte sempre più assiduamente del gruppo di ragazzi. Andavano a fare lunghe escursioni verso i paeselli sparsi sul versante, seguendo sentieri e mulattiere conosciuti solo a chi la montagna la percorreva non per diletto ma per la necessità di spostare animali o gerle di fieno. Mangiavano in stalle o su rocce sporgenti a picco sul lago. Raggiungevano chiesette sperdute nei boschi con scorci e panorami imprevedibili.
Marta continuava a essere la più rispettata del gruppo e a Celinia, l’ultima arrivata, rivolgeva a stento la parola. La interpellava solo per chiederle di portarle qualcosa, o per esortarla a camminare più veloce quando l’altra rallentava su sentieri particolarmente impervi. Celinia nonostante ciò era contenta, stava esplorando un mondo nuovo e aveva trovato amici inattesi con cui condividere avventure, sbucciature di ginocchia e punture di insetti. Si sentiva libera e senza legami, e questo la inebriava: i suoi genitori avevano un piccolo negozio di alimentari in città e la raggiungevano in montagna solo qualche finesettimana ogni tanto, e i nonni erano felici di lasciarla inselvatichire nei boschi.
Verso la fine dell’estate la pelle le era diventata più spessa per il sole e il vento, e le gambe più solide grazie alle salite e le discese percorse correndo e ridendo. La città e la scuola erano un mondo remoto e quasi dimenticato.
Celinia guarda le lontane cime innevate e i riflessi nel lago che in quel periodo dell’anno sembra piombo fuso. La memoria della sensazione di libertà di quei giorni le fa venire una specie di magone. Poi torna a volgere lo sguardo al piccolo camposanto e a ricordare l’amica.
Un pomeriggio Marta annunciò al gruppo: - Questa sera andiamo a fare un giro nel cimitero. È l’ultimo plenilunio di agosto, il giorno delle streghe e dei morti viventi. Vediamo chi sarà il più coraggioso.
Il cimitero faceva spesso da sfondo ai loro giochi ma non vi si avventuravano mai, intimoriti dalla sacralità del luogo e dagli sguardi austeri provenienti dalle piccole foto incorniciate sulle lapidi.
- Bene – disse Marta. - È ora di dimostrare il nostro coraggio. Non solo entreremo nel cimitero, ma dovremo infilarci nell’ultima cappella, quella rossa, in fondo, e chiudere la botola dell’inferno. Chi non oserà, sarà per sempre ricordato come il cacasotto del paese.
Non sapevano come mai a Marta fosse venuta in mente questa impresa. Anche la storia dell’ultimo plenilunio d’agosto sembrava inventata. Ma era sempre lei che li trascinava nelle spedizioni più ardite e, in effetti, anche questa proposta aveva scatenato più di un brivido di eccitata paura in tutti loro.
La cappelletta, probabilmente una tomba di famiglia, era quasi immersa nel bosco che si estendeva dietro. Ciò che la rendeva veramente spaventosa era una botola che si apriva sul pavimento, mezza aperta da sempre. Tra i ragazzi circolava la leggenda che fosse un’entrata per gli inferi.
Si trovarono dopo cena in piazza della chiesa. Il cielo sereno era rischiarato dalla luna e le luci dei paesi intorno al lago tremolavano lontane. Aprirono il cigolante cancello di metallo e, intimoriti ed eccitati, entrarono piano nel camposanto.
Dentro, l’atmosfera cambiò improvvisamente, almeno nelle loro sensazioni, soprattutto in quelle di Celinia. Il silenzio della sera sembrò loro più intenso e l’aria più rarefatta. Non c’era bisogno di luci perché la luna illuminava ogni dettaglio. Candele e lumini punteggiavano le lapidi storte ma ben tenute. Vecchie signore in scialle e seri uomini con baffi e cappello, da piccole foto in bianco e nero, guardavano i ragazzini avanzare circospetti tra i sentieri erbosi e puliti.
Arrivati vicino alla cappella si fermarono. Era un piccolo edificio dipinto di un rosso scrostato, con un’alta guglia che si confondeva con i castagni retrostanti. L’interno era illuminato da un piccolo lumino rosso.
I ragazzi si sentirono racchiusi in un’inspiegabile bolla di silenzio che solo Marta riuscì a infrangere: - Andiamo! – disse.
Tutti si presero per mano, anche i più grandi, e ripresero a camminare. Poi un colpo di vento più forte li immobilizzò ancora.
La folata fece cadere dei ricci di castagno e uno dei ragazzi gridò: - Dei passi. Sono dei passi, li ho sentiti!
Il lumino, mosso dall’aria, disegnò sul muro della cappella una specie di figura in movimento.
Un altro dei ragazzi, indicando l’ombra sulla parete disse concitato: - E quello cos’è?
- Un fantasma! – disse un terzo.
A queste parole tutti i ragazzini si misero a urlare e scapparono fuori dal cimitero.
Solo Marta rimase. Era immobile e guardava fissa l’interno della cappella. Celinia dapprima era stata tentata di fuggire con gli altri, poi però tornò indietro da Marta. Era l’occasione per mostrarsi coraggiosa e salire nella gerarchia del gruppo.
La ragazzina rossa non si muoveva, aveva gli occhi e la bocca spalancati. Fissava un punto davanti a sé. Il silenzio era tornato a predominare le tombe. Celinia le era a fianco, impaurita più dall’espressione sul viso dell’altra che dall’ombra sul muro.
Poi Marta fece un passo verso la cappella. Non pareva che si fosse neanche accorta che solo Celinia era rimasta e gli altri scappati. La brezza d’estate parve lasciare il posto a una lama d’aria gelida. Quando Marta fece un altro passo ancora, Celinia la prese per mano. – Vieni – sussurrò.
L’altra non si curò dell’invito e continuò ad avanzare, attirata in avanti come una falena dal fuoco.
Il vento si fece improvvisamente più intenso e da dietro la cappella o, pensò Celinia, forse da dentro la cappella, giunse un tonfo sordo.
- Vieni via! – disse più forte Celinia, sempre più impaurita.
Marta continuò in avanti. Erano arrivate sulla soglia del piccolo edificio. La botola era aperta e non si riusciva a scrutare nulla al suo interno, ma un odore acre di marcio e di vecchio, diverso dagli odori del bosco, riempiva l’aria.
Marta alzò un piede. A Celinia parve di udire un grugnito. Un cinghiale? Forse, o forse qualcos’altro. Poi ebbe l’impressione di sentire un’eco di un grido provenire da sotto i loro piedi. Era un suono indistinto, solo la sensazione di un rumore che però le arrivò dritto allo stomaco facendolo accartocciare. Nonostante il crampo terrorizzato alla pancia, Celinia ebbe la forza, un attimo prima che il piede di Marta appoggiasse sul suolo della cappella, di strattonare l’altra ragazza. – Vieni via, con me! – urlò, con tutto il fiato.
Il vento si alzò fortissimo e spense il lumino facendo scomparire l’ombra sul muro e dissipando l’afrore.
Marta fu scossa come da un brivido, si girò e guardò Celinia con un misto di stupore e di terrore, ma senza più quell’alone spiritato negli occhi. Insieme corsero via.
Appena uscite dal cancello tornarono a sentire la tiepida aria di fine estate. I rumori del paese le accolsero e le tranquillizzarono.
Marta si girò verso Celinia e, prima di andare dai ragazzi, le sussurrò: - Grazie.
Il resto della serata si svolse abbastanza normalmente, tra chiacchere e giochi. Il giro nel cimitero, per la maggior parte di loro, era stato solo uno dei tanti episodi in quella lunga estate. Marta però era rimasta particolarmente silenziosa, e prima di andar via si rivolse ancora a Celinia. Con una voce carica di un’emozione che non conosceva, le ripeté: - Grazie, grazie ancora.
Celinia si allontana dalla piazza della chiesa e dal cimitero. Le giornate sono brevi a fine dicembre, e vuole dedicare ancora qualche ora a cercare tracce di Marta prima che faccia buio. C’è aria di neve. È Natale, e le promesse vanno mantenute, si ripete.
Scende un ripido viottolo fra le case, fiancheggiato da un ruscello ghiacciato. In fondo, prima del bosco, può girare a destra verso quella che era la casa dell’amica, ma preferisce dirigersi prima a sinistra, dove si trova la vecchia abitazione dei nonni. Vi arriva da dietro. Le emozioni che quel luogo le suscita, nonostante l’evidente rovina, la fanno immobilizzare. Il bosco ormai circonda l’antico edificio, il tetto di pietra è quasi sfondato e il balconcino pende con un’angolazione sbagliata. Quanti anni sono che nessuno si prende cura di quella casa? Chiude gli occhi. Mille ricordi le affiorano tutti insieme: i nonni, le galline, i temporali con le nuvole che si ammassavano in basso, sul lago, e poi risalivano lungo la montagna. I giochi e le chiacchere con Marta. Si sente schiacciata dal senso di perdita di quelle giornate, passate con l’amica a guardare la pioggia sui vetri e a contare il tempo tra il lampo e il tuono. Marta…
Dopo quella sera al cimitero, la ragazzina con i capelli rossi la aveva presa completamente in simpatia. Le afferrava la mano durante le salite, le offriva del cibo o dell’acqua. La difendeva se c’erano dei litigi. Durante le gite le parlava delle storie della montagna e delle sue leggende. Il gruppetto con l’avvicinarsi di settembre si era assottigliato, tanti dei ragazzi dovevano lavorare o preparare gli animali e i pascoli per l’autunno. Alcuni tornavano a bottega per imparare un mestiere. I pochi che sarebbero andati a scuola comunque dovevano aiutare i genitori. Marta era la figlia della maestra e dunque era più libera degli altri. Spesso si trovavano a passeggiare loro due sole, e allora la ragazzina più grande la portava nei posti segreti dove i funghi crescevano più grossi o dove l’acqua delle sorgenti era più dolce. A volte, mentre camminavano, Marta si fermava, o interrompeva un discoro, e, senza motivo, con un tono scherzoso solo in apparenza e quel sorrisino strafottente, le diceva: - Ancora grazie, eh! - E poi riprendeva da dove si era interrotta. Oppure le diceva: - Un giorno ti devo dire un segreto. Ricordamelo, quando saremo più grandi. Io non me lo dimentico, ma tu ricordamelo.
Celinia era estasiata da questa nuova amicizia così viva, ed era felicissima di essere passata da essere l’ultima arrivata alla preferita della capetta del piccolo gruppo. Passavano ore a costruirsi regali di fiori intrecciati o a parlare del nulla, due ragazzine provenienti da mondi distanti – la città e la montagna – accumunate dall’età e dalla voglia di stare insieme. Celinia non si faceva domande sul quel cambiamento così repentino nei loro rapporti. Le interessava solo il risultato e se lo godeva tutto.
Quell’estate infine giunse al termine. Le giornate si accorciarono e i colori dei boschi cambiarono. Ci fu un addio ma fu dolce, carico di aspettative per gli incontri successivi.
La scuola ricominciò e Celinia ritrovò compagnie e abitudini cittadine. Si sentiva una ragazzina contenta tutto sommato, ma quando aveva bisogno di conforto fuggiva con la testa in montagna, per rifugiarsi in quel suo altro mondo tra i boschi e dalla sua amica.
Lei e Marta si ritrovarono per le castagne, un fine settimana a metà ottobre. Si abbracciarono a lungo e risero e ripresero i loro discorsi come se fossero stati interrotti solo mezz’ora prima. La sera incontrarono qualche altro dei ragazzi, ma furono soprattutto loro due.
La domenica pomeriggio, mentre passeggiavano intente a rompere ricci di castagne con i piedi per estrarne i frutti, Marta buttò lì un - …e comunque grazie ancora -, che lasciò Celinia un attimo interdetta.
- Grazie di cosa? – chiese l’altra.
- Tu lo sai.
- Prego. – rispose Celinia cortesemente, anche se non sapeva bene per che cosa.
- Vieni su a Natale, vero? – cambiò discorso Marta.
- Certo! – rispose con trasporto Celinia.
Si rividero a Natale e a Pasqua e l’estate dopo, e quella dopo ancora.
Il gruppettino dei ragazzi si andava assottigliando di anno in anno. Il paese aveva iniziato a spopolarsi già allora e alcune famiglie si erano trasferite in città o nelle cittadine lungo il lago. Ma loro due continuavano a stare insieme. Andavano alle feste dei paesi, a fare il bagno giù al lago, a scoprire nuovi sentieri. Esploravano con gioia la montagna e la loro amicizia. Ci furono anche dei ragazzi e degli amori, qualcuno anche intenso, qualche litigio superficiale, qualche piccola incomprensione, ma nulla che scalfisse il loro rapporto. Finché non arrivò l’ultima estate che passarono insieme.
Ora il tempo sta proprio cambiando, si dice Celinia guardando il cielo. L’aria più fredda e più secca preannuncia neve. Si avvia verso la casa della vecchia amica, nella ex-scuola. Si muove con attenta e accorata lentezza, timorosa di infrangere i ricordi.
L’ultima estate che passarono insieme era iniziata male per Celinia. Il negozio dei suoi non vendeva più tanto e lei dovette restare in città più del solito per dare una mano. Arrivò in montagna non all’inizio di luglio come gli anni precedenti, ma verso metà agosto. Trovò l’amica solitaria e incupita.
- Temevo non venissi più. – Le disse appena si rincontrarono, con una specie di broncio un po’ scherzoso e un po’ no.
- Verrò sempre. Ormai non posso più fare a meno di questo posto, lo sai. – rispose sincera Celinia.
- Sempre? Anche a Natale?
- Anche a Natale.
- Anche tra sessant’anni? – Insistette Marta
- Anche a Natale tra sessant’anni.
- Prometti?
- Prometto solennemente – rispose ridendo Celinia, prima di abbracciare stretta l’amica.
Passarono settimane allegre, come erano abituate a fare. Camminarono, risero, esplorarono, fecero bagni e corse.
Il giorno prima della partenza di fine estate, Marta trascinò Celinia alla pozza al ruscello. Con i piedi immersi nell’acqua gelida indicò in alto, dove iniziava la cascatella, e disse all’amica: - Oggi andremo là sopra. Dicono che lassù ci siano una cascata ancora più alta e una pozza ancora più profonda dove si può addirittura nuotare.
Celinia si lasciò facilmente convincere, nonostante la parete da superare fosse impervia e particolarmente scivolosa per via dell’umidità, dei muschi e delle felci. Si arrampicarono con mille difficoltà e rischi. In cima guardarono la strada e la pozza più in basso, che parvero lontane e strane da quel punto di vista inconsueto. L’avventura le elettrizzava. Si girarono e risalirono il torrente saltando da un masso all’altro lungo una gola stretta e profonda, finché dopo un’ansa, l’orrido si aprì e un’alta cascata apparve davanti a loro, con alla base un minuscolo laghetto cristallino.
Si tuffarono, risero e giocarono, spensierate e felici, come forse mai erano state.
- Questo è posto è mitico, – disse Marta ridendo a crepapelle. - È il paradiso!
Al momento della discesa dovettero cercare un’altra via, perché percorrere verso il basso la parete umida da cui erano salite parve loro impossibile senza un’attrezzatura adatta. Si avventurarono tra i boschi, alla ricerca di un sentiero conosciuto o di un pendio più agevole da discendere. Incominciava a farsi tardi e ancora non avevano trovato una via quando intravidero la strada per il paese in basso, in fondo a un ripido e stretto canalone.
- Andiamo per di qui – disse Marta, risoluta. – Non vedo altre possibilità.
La discesa fu difficile. Si sostennero su rocce e su giovani alberi. Un ramo a cui erano appoggiate si spezzò, si aiutarono a vicenda, Marta prese una mano dell’amica poi la lasciò andare e insieme scivolarono sulla terra e sulle le foglie secche fino alla strada.
Quella fu l’ultima esperienza che ebbero insieme.
La vecchia scuola si trova isolata dal resto del paese, in fondo a un sentiero. È un palazzone squadrato, forse il più grande del piccolo borgo. Celinia si avvicina cauta nel silenzio invernale del bosco. Nota un filo di fumo da uno dei comignoli perdersi nel cielo grigio. Bene, pensa, c’è qualcuno. E poco dopo, ecco una donna seduta all’esterno, nonostante il freddo. È di spalle e osserva il lago. Indossa un pesante scialle di lana e i capelli bianchi sono raccolti in uno chignon. Poi si gira, e Celinia vede il viso rugoso dell’altra illuminarsi di un sorrisino storto e beffardo.
Celinia si ferma. Il viso della donna è cambiato, così come il colore dei capelli, ma quel sorriso no.
- Marta, - dice con un filo di voce.
- Ciao Celi – risponde l’altra.
- Ciao Marta. Mi hai riconosciuta? – dice Celinia, stupita.
- Ti stavo aspettando – dice Marta. - Me lo avevi promesso.
Le due amiche si abbracciano. Così, strette, si scambiano a lungo delle parole dolci pescate direttamente dal loro passato e non si lasciano finché le lacrime non bagnano i loro vestiti.
- Anche tu hai una promessa da mantenere – dice poi Celinia, allontanandosi leggermente, senza distogliere lo sguardo dall’amica per non perdere nulla di quell’emozione. – Mi dicesti di ricordati del segreto.
- Certo. – risponde Marta. – Vieni con me.
- Perché non sono tornata prima? Come mi è mancato questo posto e quanto mi sei mancata tu… – dice Celinia a mezza voce.
Le due amiche ritornano sulla strada che porta al paese e intanto Marta racconta: - Per dirti del segreto devo iniziare da quella sera al cimitero, ricordi?
- Come potrei dimenticare? – risponde Celinia.
- Quella notte io vidi veramente qualcosa, anzi, qualcuno. Celi: io vedo le persone morte. Non sempre e non tutte, solo alcune, e unicamente quando vogliono loro. Il mio segreto è questo: quella sera vidi un morto, sepolto probabilmente in quella cappella. Non aveva intenzioni buone. Mi stava attirando a sé. Senza di te, mi avrebbe trascinato là sotto, e non so cosa sarebbe successo. Grazie ancora. La tua forza mi ha salvato. Ora sei tornata, e il tuo arrivo è il più bel regalo di Natale che abbia mai avuto.
Intanto sono arrivate vicino alla cascata. Si fermano davanti alla piccola croce di metallo arrugginita infissa nella roccia, sul bordo della strada. Marta indica la scritta alla base e dice: - Anche tu mi sei mancata, Celi. Non sai quanto. Mi sono mancate le cose cha abbiamo fatto insieme, e soprattutto quelle che non abbiamo mai potuto fare.
Celinia con voce attonita legge la scritta impressa sulla croce: - Celinia Rusconi, 1946, 1961.
- Per questo non sei mai più tornata. Solo la tua promessa ti ha dato l’energia per farlo ora. Io vedo le persone morte, te l’ho detto. – dice Marta. – La discesa dal quel canalone è stata terribile e, scivolando, battesti la testa su un masso.
Celinia è bloccata dalla nuova, sconvolgente percezione della realtà.
- Ora non ti voglio più lasciare Celinia mia. Mai più. – prosegue Marta.
Celinia guarda l’amica e, questa volta non urlando e senza strattonarla, con la voce piena di dolcezza, le chiede: - Vieni via, con me?
- Sì - risponde Marta. – Sono sessant’anni che aspetto. Sì. Dove andiamo?
- Su, alla cascata alta. Alla pozza dove si può nuotare. – Risponde Celinia. – Al paradiso.
La neve incomincia a cadere.
Le due amiche si prendono per mano e, per l’ultima volta e senza fatica, iniziano a risalire il torrente.