La prua separava le acque calme del porto andando incontro al tramonto. Chissà perché sempre al tramonto. Un forte vento da sud ovest faceva sventolare le bandierine tese tra le due estremità dell’imbarcazione; la salsedine nell’aria induriva le lacrime che, come proiettili, volavano via verso la costa che si faceva sempre più piccola e lontana.
Il principe sostava sul ponte nonostante l’imbarcazione avesse già preso il mare aperto. Il vento gli sbatteva in faccia e la sciarpa di raso bianco sventolava rumorosa dietro le sue orecchie, tese a sentire i rumori del mare confusi nella semi oscurità. Sarebbe stata l’ultima volta? Al principe, questo, poco importava. Piuttosto cercava mentalmente di fissare un obiettivo più concreto, più vicino, più a portata dei suoi pensieri: ci sarebbe arrivato a Natale?
Il suo non era un pensiero egoista. Ragionava per il suo equipaggio, di cui faceva parte con orgoglio. Uomini impavidi, coraggiosi; lupi di mare abituati a lasciare casa frequentemente e senza troppe remore. Il dovere, in quel momento più che mai, veniva prima. La Spezia era lontana ormai, il Natale più vicino e il buio del Mediterraneo spalancava le fauci per inghiottire vecchie nostalgie e inutili pensieri.
“Al diavolo il Natale!” esclamò il principe tra sé e sé. Aveva ragione, a Natale la missione sarebbe già stata conclusa. Con un successo pieno, da scartare come un regalo sotto l’albero, o con un fallimento, sul quale rimuginare in prigionia insieme ai topi o, peggio, in compagnia del proprio spirito laggiù, in fondo al mare, a guardare un corpo dagli occhi vitrei e la bocca spalancata che fissa un cielo che non esiste più.
“Comandante!” esclamò il primo ufficiale mettendosi sull’attenti e rimanendo a un metro dal principe.
“Con quei tacchi bolli la chiglia e mi rovini la vernice nuova!” rispose sorridendo.
L’ufficiale non si scompose: “Navigheremo in superficie fino a Lero, come previsto.”
“Condizioni del mare?”
“Nulla di preoccupante,” fece una pausa, “incontreremo mare agitato tra un paio di giorni, nel canale di Sicilia.”
“Tutto qui?”
“Gli inglesi continuano i pattugliamenti aerei; alla fine di novembre pare che si siano spinti fino a Creta.”
“Poco male,” esclamò il principe con una smorfia d’odio che affiorò sul suo volto fino a quel momento tranquillo e quasi inespressivo, “se sarà necessario navigheremo in immersione, non dobbiamo correre rischi!”
“Signorsì!” urlò il vice battendo nuovamente il tacco.
Il principe sorrise di nuovo: “Mi vuoi far affondare?”, e, facendosi subito serio: “informative dal SIM?” chiese gonfiando profondamente i polmoni d’aria marina.
“Ciò che le ho detto, signore!” rispose mestamente l’ufficiale.
Il principe strinse i pugni. Non si fidava del Servizio Informazioni Militari. Ciò che le sue orecchie avevano appena sentito non poteva corrispondere alla realtà. Non era verosimile che in tempo di guerra lo Scirè avesse potuto navigare in superficie fino in Grecia senza essere disturbato o quantomeno avvistato. I bombardieri inglesi avrebbero potuto decollare dall’Egitto in tempi brevi, raggiungere il sommergibile italiano e affondarlo in superficie senza che l’equipaggio potesse accorgersi della fine imminente.
Eppure, quei giorni di navigazione passarono in fretta e senza intoppi. Il giorno dell’Immacolata, ormai in prossimità dell’attracco nell’isola greca, l’ufficiale della sala macchine improvvisò un albero di Natale utilizzando una scopa di saggina. Piegò le setole in posizione orizzontale creando un cespuglio dalla forma sferica. Ogni ufficiale, ogni sottocapo, ogni marinaio diede il suo contributo alla creazione del particolare albero di Natale dello Scirè: c’era un nastro per capelli, di chissà quale lontana e innamorata fidanzata; c’era una palla da baseball; c’era una sigaretta, un brandello di lettera dalle parole sbiadite; era apparsa addirittura una mostrina della fanteria, cosa che scandalizzò tutti. Il colpevole di quell’affronto fu cercato a lungo, ma invano.
Il cuoco di bordo, quel giorno, cucinò delle frittelle con pomodoro, capperi e olive, cotte nell’olio bollente e morbide come focacce. Pare fossero una tradizione prenatalizia del suo paese d’origine nel sud Italia. Nonostante la difficile missione a cui era chiamato tutto l’equipaggio dello Scirè, il clima natalizio, portatore di gioia e mistero, era arrivato persino in mezzo al mare.
Le coste dell’isola di Lero erano ben visibili al periscopio nonostante la foschia. Entro poche ore si sarebbe entrati nel vivo della missione. Il principe attendeva nervosamente nella sua cabina. Era contento dell’affiatamento e dello spirito di cameratismo che si era consolidato tra i membri del suo equipaggio. Nonostante questo, la tensione lo rendeva irascibile. Se ne rendeva conto e non riusciva a smettere dimangiarsi le unghie. “Al diavolo il Natale!” pensò ancora.
Nonostante fosse dicembre la temperatura era mite e il sole splendeva nel cielo. Per un attimo pensò di trovarsi in un sogno e si augurò di non svegliarsi mai. Aveva lo sguardo fisso sui suoi piedi, che ondeggiavano sott’acqua al ritmo della risacca. Il mare, d’una limpidezza paradisiaca, dal riflesso verde, rispecchiava tutti i pensieri che si contorcevano nella sua mente: un altro Natale lontano da casa, dalla sua promessa sposa. E ancora: la guerra, la missione; la morte, che ogni giorno, ne era certo, gli camminava al fianco, sempre in agguato.
“Enzo!”, sentì gridare, destandosi immediatamente dal suo torpore pensieroso.
“Enzo! Dobbiamo andare. È ora” disse ancora una voce che gli fu subito familiare.
Infatti, voltatosi verso la spiaggia, Enzo vide Mario, suo commilitone, che si sbracciava facendogli segno di andare.
“Non vieni a farti un bagno prima di partire?” disse Enzo in tono sarcastico.
“Ma che dici?” ribatté Mario, “dobbiamo ricontrollare tutto l’equipaggiamento!”
“E dai!” scherzò ancora Enzo, “guarda che potrebbe essere l’ultimo!”
“Mamma mia!” urlò Mario, grattandosi platealmente il basso ventre.
Mario restò ai limiti della spiaggia sbuffando, mentre Enzo se la prendeva comoda per asciugarsi e rivestirsi.
“Ti vuoi sbrigare?” esclamò indicandolo con la mano posta a coltello, a mo’ di minaccia.
“Sono già arrivati?” domandò Enzo.
“Sono a poche miglia, arriveranno a breve, dobbiamo essere pronti!”
“A poche miglia?” disse Enzo ridendo, “quanta fretta! Potremmo pure fare una partitina a scopa!”
“Ma falla finita. E sbrigati che dobbiamo sistemare le cose e abbiamo tutto sotto sopra!”
“Io porterò sfiga, ma tu c’hai un’ansia figlio mio!” ribatté Enzo allargando le braccia.
Il gruppo di uomini attendeva paziente sulla banchina del porto. La sagoma dello Scirè era nitida e la sua scia correva, svanendo, all’orizzonte. Il sommergibile avrebbe attraccato a breve. Il sole stava per fare capolino colorando la volta di tonalità leggere ma calde. Ancora una volta, il tramonto.
Enzo guardava il maiale, Mario era accanto a lui, ma sicuramente pensava ad altro. L’avevano tirato a lucido; avevano controllato il funzionamento dell’elica e del timone, ingrassando gli ingranaggi. Tutto funzionava perfettamente. Avevano passato in rassegna tutto l’equipaggiamento subacqueo: muta, maschera e respiratori, un controllo meticoloso e al limite dell’inverosimile. Degno di una missione come quella. Rimaneva un’unica incognita, come uno sgradito ospite che non se ne vuole andare: il fato.
Mani sui fianchi, mento alto, uniforme ordinata di tutto punto. Non appena il sommergibile varcò la bocca di porto, il principe, impettito, era già sul ponte. Certo, avrebbe sovrainteso alle operazioni di attracco e all’imbarco di mezzi, materiali e uomini. Ma era anche una questione d’immagine, soprattutto per una persona con il suo carisma, per cui un aspetto doveva essere cristallino a tutti: “Questo è lo Scirè e io sono il comandante!”
Il vento di tramontana appiattiva il mare che pareva essere un’infinita tavola blu. Le bandierine svolazzavano impazzite. Gli incursori, a due a due accanto ai loro maiali, erano sull’attenti e porsero subito il saluto militare non appena il principe fu a pochi passi da loro.
“Riposo!” esclamò il comandante, tradendo una certa emozione mista a compiaciuta soddisfazione. Si convinse definitivamente che gli uomini che aveva davanti erano quelli giusti per la missione loro assegnata. Non avrebbero fallito.
“Dammi una mano!” disse Mario a Enzo mentre tirava la cinghia che fissava il maiale all’interno della pancia del sommergibile. In quel momento era Enzo a essere sovra pensiero.
“Com’è dura!” esclamò Enzo. Dopo una piccola pausa: “E ci credo, la fibbia è tutta arrugginita!”
“Non temere,” lo tranquillizzò Mario, “abbiamo di fronte pochi giorni di navigazione, la ruggine non farà in tempo ad attecchire sulla chiglia del maiale.”
“Speriamo che non attecchisca su di noi!” scherzò Enzo.
“Figurati! Se tutto andrà bene, per Natale saremo già in un harem del Cairo, travestiti da inglesi, a spassarcela tra fiumi di whisky e lunghe sottane che si muovono al ritmo della danza del ventre!” sorrise Mario.
“Come no!” esclamò Enzo dando una sonora pacca sulle spalle al commilitone.
La luce rossa cominciò a lampeggiare. Gli incursori aspettavano nella loro cabina e gli sguardi s’incrociarono. Il silenzio era assordante. Enzo si portò la mano all’orecchio, il sommergibile aveva iniziato la discesa verso il fondo del mare. Da quel momento la missione entrava veramente nel vivo.
Un giorno prima dell’ora x, il principe convocò una riunione per fare il punto sulla missione. La tensione si tagliava con il coltello: gli ufficiali dello Scirè avevano i volti tirati come tamburi; gli incursori parevano più tranquilli. Per loro, si trattava di una tensione diversa, una sorta di logorante attesa prima dell’inizio delle operazioni.
“Orbene,” esordì il principe rivolgendosi agli incursori, “benvenuti sullo Scirè!” E continuò: “La missione è entrata nel vivo. Domani a quest’ora, è prevista la vostra partenza.”
Con un cenno del capo passò la parola al suo vice che prontamente parlò: “Vi sgancerete con i vostri maiali appena il sole sarà tramontato. Navigherete rasenti al fondale. Quando vedrete una leggera salita, significherà che sarete sotto la bocca di porto. Da quel momento romperete la fila indiana e vi separerete per raggiungere ciascuno il proprio obiettivo.”
Il vicecomandante fece una pausa.
“Bene!” esclamò il principe, “prima di elencare i dettagli, tutto chiaro?”
Gli incursori annuirono silenziosi. Il principe fece cenno al vice di proseguire.
“Maiale numero duecentoventuno, verso l’obiettivo pomodoro, rompe la formazione per primo. Maiale numero duecentoventidue, verso l’obiettivo denominato olio d’oliva, si separa verso sinistra. Maiale numero duecentoventitré, verso l’obiettivo cappero. Ecco la mappa di superficie del porto fornita dal SIM. Ciascuna x corrisponde agli obiettivi in rada. Non sappiamo se ci sono mine subacquee nei pressi delle navi. Siamo certi che non è attiva alcuna vigilanza subacquea del porto.”
“Come vedete, cari signori,” intervenne il principe, “possiamo contare sull’effetto sorpresa. Sfruttiamolo al massimo! Siamo in possesso di un vantaggio che non fa che accrescere il prestigio e l’importanza della missione!”
“Una volta piazzate le cariche esplosive,” continuò il primo ufficiale, “ogni equipaggio provvederà autonomamente a lasciare il porto e a mescolarsi tra la popolazione. Il buon esito della missione si udirà all’alba. Le dotazioni per questa seconda parte della missione prevedono abiti locali e moneta corrente. Vi ricordo che non sarete armati,” deglutì, “buona fortuna e che Dio vi protegga!”
Il principe pareva seccato dalle ultime parole del suo primo ufficiale: “Siete gli uomini giusti! E siete chiamati a scrivere una pagina importante della Storia! In bocca al lupo!” e così dicendo batté il piede destro e tese il braccio facendo il saluto romano. Tutti i presenti lo imitarono.
“Certo che Borghese deve essere molto rispettato dal suo equipaggio” disse Mario con voce compiaciuta.
“O molto temuto,” gli rispose Enzo, “hai visto come ha guardato il suo vice appena ha finito di parlare? Quello ha abbassato le orecchie e lo sguardo come un cane. Come se gli avesse messo paura.”
“L’ho notato anch’io. Credo l’abbia guardato male perché le sue parole non sono state per noi di grande motivazione, diciamo così” disse Mario.
“Ma dai Mario, siamo della decima, incursori della regia marina, di quale motivazione avremmo bisogno?” rise Enzo.
“E allora avrà invocato la protezione di nostro Signore perché siamo vicini al Natale!” ribatté Mario, “o forse perché siamo semplicemente in guerra!”
Risero entrambi. “Meglio dormirci sopra, domani si lavora seriamente!” esclamò Enzo prima d’infilare scherzosamente la testa sotto il cuscino, per mimare una paura che gli incursori della decima non potevano conoscere.
Le pessime condizioni del mare costrinsero il principe a rinviare la missione al giorno successivo. Lo Scirè rimaneva in agguato in profondità a largo di Alessandria d’Egitto. Aveva navigato in immersione senza intoppi e aveva evitato il campo minato subacqueo di cui aveva avuto informazione e coordinate dal servizio. Il mare in burrasca ritardava la missione e questo infastidiva, e parecchio, il principe. Il tempo era prezioso e non andava sprecato.
I maiali iniziarono lentamente ad allontanarsi dal sommergibile in fila indiana come previsto. Il maiale di Enzo e Mario era al centro della fila. L’oscurità del mare sembrava aumentare il freddo che si attaccava alle mute come le ventose di un polpo. Probabilmente si trattava soltanto di una questione psicologica: la missione era entrata veramente nel vivo e l’adrenalina nel sangue aumentava esponenzialmente.
Il colore della sabbia sul fondo cambiò. Gli incursori si guardarono intorno. Il primo maiale rallentò la sua corsa. L’equipaggio, con le braccia alzate, indicava qualcosa verso la superficie. Mine. Un reticolo di mine. Soltanto sfiorare una delle catene ancorate al fondale avrebbe provocato una serie di esplosioni a catena che avrebbero polverizzato maiali e uomini. Con conseguenze successive potenzialmente ancora più gravi, ovvero la localizzazione dello Scirè al largo del porto.
Nell’oscurità e con un pizzico di fortuna, gli equipaggi trovarono subito un varco nel campo minato. Era l’unico ostacolo tra loro e gli obiettivi. Lasciate le mine alle spalle, la fila si ruppe e i maiali si separarono per raggiungere ciascuno il proprio obiettivo ormeggiato nel porto.
Le scie degli altri due maiali svanirono presto. Ora erano soli. Enzo e Mario, con il loro maiale carico di esplosivo. Enzo era concentrato sul percorso da seguire, per cui non si accorse subito di quanto facesse fatica a respirare. Senza rendersene conto svenne. Mario vide il compagno accasciarsi sul maiale e, senza pensarci due volte, prese i comandi e risalì in superficie. Fortunatamente si trovarono in una posizione defilata all’interno del porto. Olio d’oliva era a poche decine di metri. Enzo si riprese subito anche se aveva un gran giramento di testa. Entrambi concordarono che la missione doveva continuare a ogni costo.
I palombari s’avvicinarono alla nave ormeggiata proseguendo a zig zag a pelo d’acqua. Una scia dritta poteva essere avvistata più facilmente e avrebbe messo subito in allarme le guardie del porto. Si accostarono lentamente alla carena. Enzo si era tolto il respiratore e la forte puzza di nafta proveniente dalla nave gli fece aumentare il mal di testa. Si sentì nauseato. Non c’era tempo per pensare ai malesseri. Con cautela, lentamente, Enzo estrasse la carica esplosiva dal vano del maiale e la porse a Mario che s’immerse subito. La posizionò a circa un metro sotto la linea di galleggiamento. Una volta risalito, dopo pochi minuti, fece segno di aver concluso. I due incursori si guardarono soddisfatti. Chissà se anche gli altri incursori erano riusciti ad assolvere il loro compito, pensarono telepaticamente.
La prima parte della missione era finita. Ora veniva quella più difficile, ovvero mettersi in salvo senza essere scoperti.
Si allontanarono in fretta, dirigendosi verso un pontile di legno molto defilato rispetto a dove erano ormeggiate le navi inglesi. C’erano delle barche da pesca e il molo non sembrava essere sorvegliato. I palombari abbandonarono il maiale sotto il pontile. Dispiacque a entrambi. Senza fare rumore, con la massima cautela, salirono sul pontile, il legno marcio scricchiolò, facendo aumentare il battito dei loro cuori. Erano ancora bagnati, ma entrambi sentirono il sudore freddo sulla fronte.
Si nascosero dietro a dei barili di nafta arrugginiti. Dovevano cambiarsi e occultare l’equipaggiamento, più in fretta che potevano. Comunicavano a gesti nel silenzio più assoluto. Il cielo limpido illuminato di stelle gli consentiva di guardarsi negli occhi scambiandosi cenni d’intesa.
Una serie di rumori metallici, secchi e improvvisi, li pietrificò all’istante. Il silenzio si fece mortale. Erano circondati da un imprecisato numero di uomini armati col turbante in testa. Enzo e Mario si guardarono un’ultima volta: se solo avessero accennato un movimento, li avrebbero ridotti a colabrodo.
Deboli raggi solari s’affacciavano sul mare, una leggera brezza scuoteva le sfilacciate bandiere di sua maestà poste sulle navi da guerra. I gabbiani volteggiavano sul porto tracciando traiettorie irregolari, mentre assonnate guardie egiziane giravano guardinghe sui moli con i fucili imbracciati.
La calma era soltanto apparente. Qualcosa era successo. O doveva ancora accadere.
Con un sincronismo inaspettato, le cariche esplosive squarciarono le carene delle navi. L’alba sopra il porto di Alessandria si colorò d’arancione e rosso, come il tramonto, poi fu soltanto nebbia fumosa, odore di nafta e sirene a intermittenza.
Enzo sentì battere contro il muro della cella in cui era rinchiuso. Tese l’orecchio per ascoltare meglio. Il messaggio in codice Morse era di Mario, rinchiuso in una cella accanto. “Ce l’abbiamo fatta! Torneremo a casa”.
Una lacrima calda solcò il viso di Enzo. Rispose: “Memento audere sempre, amico”.
Junio Valerio Borghese era al settimo cielo. Non riusciva a stare fermo e faceva avanti e indietro calpestando tutta l’esigua superficie della sua cabina. I suoi uomini, con un’azione da manuale, avevano messo fuori gioco buona parte della flotta più potente del mondo. Perfino Churchill aveva dovuto dichiararlo. Non riusciva a smettere di mangiarsi le unghie. Emozioni e pensieri inversi rispetto a quando la missione doveva ancora cominciare.
Bussarono alla porta. “Avanti!” disse il comandante. Era il primo ufficiale, il quale, senza salutare, porse un foglio e disse semplicemente: “Da Roma”. E uscì.
Il comandante lesse ad alta voce: “Complimenti. Grandi uomini, fulgido esempio di attaccamento alla patria. Ora l’Italia è rafforzata. Vi aspetto a Montecitorio. Buon Natale! Dux.”
Il principe gonfiò il petto, sbatté il piede e tese il braccio. “Buon Natale!” esclamò. Prese la sciarpa di raso bianco e il giaccone. Con la mano fece il gesto di spolverare i gradi di tenente di vascello che aveva appuntati sulla manica. Lo Scirè era appena risalito in superficie rallentando la sua corsa in avvicinamento al porto di Lero, lo stesso da dove era partito per la missione. Il principe, sorridendo, s’avviò verso il ponte per godersi il tramonto.