Lo guardo come si guardano le cose grandi della vita. Stesi ventre a terra nell’erba coperta di brina, tra i radi alberi della campagna di Kharkiv, sotto un cielo grigio piombo: così diversi, lui nella divisa tattica pallida, l’elmetto, il giubbotto antiproiettile, io in semplici abiti civili.
Un altro proiettile fischia vicino e s’infila nel terreno con un piccolo tonfo.
“Aspettiamo il prossimo colpo.”
Continuo a guardarlo, assorto a scrutare la linea di tiro, l’ARX tenuto accanto. “Noi non arriviamo vivi alla chiesa.”
“No, infatti. È un cecchino russo, siamo carne morta.”
Sbianco. “Ma allora come…?”
Lui si volta, sorride nel suo modo stupido, mostra indice e medio. “Pesce d’Aprile.”
L’ansia sale e ridiscende in un vortice. “Quindi?”
“Quindi al prossimo tiro ci alziamo e corriamo. È un fucile a colpo singolo, deve ricaricare dopo ogni sparo: corri veloce e non farà in tempo.”
“Madonna.”
“Concentrati.”
“Non hai capito che io non voglio morir…”
Non c’è tempo. Il proiettile sibila oltre di noi: lui mi afferra di peso, ci alziamo, incespico, lo seguo in una corsa a rotta di collo sull’erba imbiancata. Lo spazio sembra non finire mai, così la paura folle che arrivi un altro sparo.
Ci stampiamo contro il muro esterno della chiesa, abbarbicati alla muratura scrostata, se Dio vuole fuori vista dal tiratore. Attendiamo un tempo infinito, col cuore che bombarda nelle orecchie più forte degli scoppi occasionali, lontani, dell’artiglieria russa.
La campagna di Kharkiv è un sogno cristallizzato, sporco di guerra e fango, immobile, senza un segno di vita. Nessun altro sparo rompe il silenzio.
Lui, il soldato, fa segno brusco di scorrere lungo la parete verso l’ingresso; eseguo con le gambe che ancora tremano d’adrenalina. Fatico a trovare il battente in ottone ossidato, a spingerlo per aprire una frazione di porta entro la quale m’incuneo a strattoni.
Dentro, la penombra.
Il soldato entra un attimo dopo, col fucile teso, puntato in ogni direzione a scatti; la porta gli si chiude dietro.
“Sei ridicolo,” mormoro tra un respiro denso e l’altro, “quando fai questa roba.”
Mi guarda, fisso, sbarrato.
“Sul serio: lo fai in un modo… strambo. Nei film sono molto più plastici.”
“Senti,” la sua voce è fredda, cartavetro, “mi hai chiesto di portarti qui, e io l’ho fatto. Tieni per te le tue considerazioni del cazzo.”
Deglutisco. “Okay.”
Faccio scorrere lo sguardo intorno, su quello che è un grande vestibolo mal illuminato: candele bianche affiorano come piccoli occhi. Colonne, affreschi, tutto dall’aria antica. Quattro pareti adombrate e un silenzio da sepolcro. Non so decidere se faccia più o meno freddo che fuori.
“Allora?” Il suo sguardo passa a sottile ironia. “Perché proprio qui, in mezzo al nulla?”
“Avevo un appuntamento.”
Fa per replicare, un breve trillo da SMS riecheggia nella volta: smanaccio il telefono fuori dalla tasca.
Togli la suoneria nei luoghi sacri! – Ele –
Guardo lui, il soldato, alzo lo smartphone come la croce di Costantino. “Chi è Ele?”
“Lo chiedi a me?”
“Sono giorni che mi arrivano questi messaggi, senza numero. Chi è Ele?”
“Hai una coscienza e l’hai chiamata Ele?”
Espiro, una mano tra i capelli e il telefono ributtato nella tasca. Forse sto impazzendo: la sensazione ce l’ho da tempo, ma mai così forte come quando sono arrivato qui, in questa terra fredda, lontana, divorata dalla guerra.
Mai così.
“Perché questo posto?” Insiste mentre fissa con occhi torbidi le pareti e le architetture. “Non sei un guerriero e neanche un religioso: perché questo posto?”
Cerco una risposta a effetto che non possiedo. “Non lo so.”
Alza di spalle plateale. “Non lo sai.”
“È complesso da spiegare.”
“E allora vediamolo.” Getta l’ARX a tracolla e si avvia verso la porta d’accesso alle navate della chiesa, il suono degli scarponi riecheggia nella volta del vestibolo.
“No, aspetta!” Corro per mettermi tra lui e la porta di legno massiccio, scalfita, che è l’ultima barriera prima dell’oltre, a braccia aperte come un segnale stradale.
Mi fissa cupo. “Tu non sei a posto.”
“Non possiamo entrare.”
“E perché?”
“Perché dobbiamo aspettare qui.”
“Aspettare cosa?”
Vorrei dirglielo, qualcosa m’interrompe. Un parlare fitto, basso, viene da fuori. C’è qualcuno.
Vorrei avere la rapidità del soldato mentre prende fucile e posizione di tiro nello spazio di un secondo, s’inginocchia a puntare dritto verso l’ingresso. Mi fa un cenno disperato di tacere. Trattengo il respiro.
C’è qualcuno fuori dalla porta, qualcuno che sta parlottando a mezza voce. Mi tappo bocca e naso per non far sentire neanche il respiro.
Un breve trillo da SMS riecheggia nella volta: impreco mentalmente.
Silenzio assoluto, anche le voci. Poi è l’inferno.
La porta si spalanca sotto un calcio, urla incomprensibili, due figure in bianco disegnate sulla soglia. E gli spari.
Una raffica secca, netta, mentre il soldato apre il fuoco e inchioda uno degli intrusi, un grido, schegge di legno e pietra, l’eco assordante del fuoco di risposta, le imprecazioni.
“SNARYAD!”
Qualcosa tintinna dentro, so cos’è, nei film succede sempre che, “Copriti gli occhi!”
Esplode. Vedo solo un istante di bagliore color lilla e salmone prima di affondare il viso nelle braccia, evitando il flash della granata accecante: lui, il soldato, lascia cedere il fucile per coprirsi il volto, si getta con una capriola al lato dell’ingresso, estrae la pistola.
Nell’attimo in cui l’aggressore entra a passo di carica gli è già alle spalle: un colpo a bruciapelo, nella nuca: quello cade disteso, di faccia, sul pavimento a lastroni di pietra.
Silenzio.
“Sono… finiti?” chiedo in un filo di voce.
Chiude la porta con un gesto sprezzante e gli occhi strizzati. “Lo spero.”
Fisso il cadavere del tizio in tenuta invernale bianca e passamontagna nero.
“Tu e il tuo telefono,” sibila recuperando il fucile caduto.
Il mio telefono che ha suonato. Lo tolgo di tasca, SMS: Ti avevo detto di togliere la suoneria. – Ele –
No, questo è assurdo. Grottesco.
Tolgo la suoneria mentre lui perquisisce il morto: si rialza di colpo, nelle mani una piccola fotografia e gli occhi stralunati. “Chi è questo?”
“Chi?”
Mi sbatte davanti la foto, c’è la mia faccia, peraltro venuta brutta, ma brutta. “I Russi ti stanno cercando?!”
“Ma no!”
“Ma sì, cazzo!”
“No, no, sei fuori strada.”
“Questo stronzo aveva la tua foto!”
Gesticolo a cercare una mediazione culturale complessa. “Non discuto questo. Era il primo assunto a essere sbagliato.”
“Quale?!”
Indico con mano malferma il cadavere. “Quello non è un Russo.”
“E cos’è allora?”
Lascio che lo scopra da solo mentre si china furioso a terra, lo rivolta, gli strappa il passamontagna. Sotto c’è un altro passamontagna.
“Ma che cazzo.”
Glielo strappa via: sotto c’è un altro passamontagna. Si rialza con due occhi di fuoco. “Che storia è questa?”
Azzardo un sorriso. “Pesce… d’aprile?”
Mi agguanta per il bavero, l’altra mano toglie la pistola dal fodero. “Sentimi bene…”
“Ehi, tu sei qui per proteggermi, okay? Nient’altro.”
“Io voglio sapere cos’è questa storia e voglio saperlo ora.”
“Te l’ho detto, è complicato, non è alla tua portata capire.”
“Chi sono questi bastardi?!”
“Agenti della SISS.”
“Della che?!”
“Tanto non puoi capire, perché non…?”
Scatto di sicura, mi ritrovo la sua Parabellum alla fronte.
“Okay, è per una ragazza!”
Silenzio.
“Una ragazza.”
“Sì, è la verità.”
Tace, mi fissa coi suoi occhi da macellaio. “E tu sei voluto venire in questo posto massacrato per una ragazza.”
“Lo sai che è l’unica roba per cui… per la quale posso pensare di muovere il cu…”
Mi lascia con uno strattone. “Non posso crederci.”
“L’ho conosciuta su internet, intendo prima che scoppiasse la guerra. Volevo portarla via dall’Ucraina, gliel’ho promesso. Avevamo appuntamento qui, nella chiesa. Pensavamo che i Russi non sarebbero venuti da questa parte, ma…”
“Come si chiama?”
“Vika.”
“Ma tipo che se cambi la V con la F diventa…”
“Dai, oh!”
“E allora dov’è questa Vika?!”
Accenno alla porta d’accesso alle navate. “Dentro, immagino.”
“E perché cazzo siamo fermi qui nell’atrio, allora? Prendiamola e togliamoci da qui.”
“No!” Scatto di nuovo per mettermi tra lui e la porta. “No, no, non ancora.”
Apre le mani senza capire.
“Non posso farlo, no.”
“Perché?”
“Perché adesso mi saltano addosso i dubbi, capisci? Se fosse tutto una trappola? O se avessi fatto una scelta sbagliata?”
“E te lo chiedi ora?”
“Sì, è normale! Quando sei vicino all’obiettivo ti vengono sempre i peggiori dubbi!”
Vibrazione del telefono.
“Scusa, eh.” Lo tolgo di tasca, SMS: Stanno arrivando! – Ele –
Non faccio in tempo a dare alcun avvertimento: un grattare sordo alle pareti e urla stridule riempiono il vestibolo. I nostri sguardi si alzano sgranati alla calata di creature candide dal soffitto in ombra: lemuri impellicciati, dai musi storti, deformi, scendono lungo pareti e colonne, lungo gli affreschi, in una cacofonia di versi.
Ci sono addosso in un niente. Non ho che il tempo di coprirmi il volto prima di essere travolto, tirato giù dalle loro piccole mani graffianti.
Scalcio, sbraccio, colpisco a caso, arranco sui gomiti cercando una via d’uscita.
Il soldato è un’altra storia: si strappa di dosso le protoscimmie una per una con la foga dei guerrieri, imbraccia l’ARX, innesca la combi-arma a lanciafiamme con due occhi selvaggi e i denti digrignati: dalla canna secondaria parte un getto di fuoco, una vampa che spazza il pavimento e i muri.
Le bestie urlano e si sciolgono in un tripudio al calor bianco.
L’ultima rimasta sta ancora cercando di cavarmi gli occhi prima che lui arrivi, la afferri per il collo e la schianti con un verso contro la parete.
È finita.
Lo guardo dal basso in alto, malconcio: ha un triplo graffio fenomenale di traverso sulla faccia, sanguina.
“Io,” tossisco nell’aria arroventata, “ti ammiro, sul serio. Hai una tale resilienza alle cose della vita che…”
Mi solleva in piedi con un gesto brusco. “Va’ a prendere quella ragazza e andiamocene.”
Sospiro, fisso il vuoto, il pavimento.
Non so come dirglielo.
“Non posso.”
“Senti…”
“No, senti tu! Per te è facile, okay?! Hai un cazzo di fucile sempre in mano, il giubbotto, non hai niente da perdere né paura! Per te è facile, ma per me…”
“Ehi, li vedi questi?” Si pianta un indice contro i graffi aperti. “Questi diventano cicatrici. È così che sono diventato quello che sono. Questi uguale figo. Forte. Cazzuto. E tu? Sei qua a balbettare dei tuoi dubbi, cazzo!”
“Non puoi capire. Non puoi! Tu non sei me!”
Due tonfi sordi ci bloccano a metà dell’invettiva.
“FANTE!”
La voce è apparsa dal nulla, dalla porta, che ora e aperta e fa entrare il freddo, aperta sulla campagna brinata di Kharkiv, con altri due agenti della SISS stesi a terra sul selciato.
Una ragazza, abiti pesanti scuri, come i capelli, l’espressione contrariata.
“Cosa?” rispondiamo all’unisono io e lui.
“E anche basta, dai.”
Il soldato mi guarda torvo. “È quella Vika?”
“No, no, oddio, no. Non la conosco, giuro.”
“Non mi conosci?”
Indago mentalmente la lista degli appuntamenti falliti negli ultimi dieci anni, invano.
La guardo prendersi due ciocche di capelli, esasperata, mettersele a mo’ di baffi.
Straluno. “Ele-Kun?!”
“Ancora con questa gag? Quella volta hai taggato una che non c’entrava niente.”
“Quindi,” caccio fuori il telefono, “sei tu che mi mandi questi messaggi d’avvertimento? Ma come hai fatto a…”
“Vi stavate per far prendere di sorpresa da questi due,” allude agli agenti stesi a terra.
“Li hai uccisi?”
“Ti pare? Io non sono mica come quello.” Il soldato la guarda in cagnesco.
Ele chiude la porta, si accosta a passo lento aggirando i mucchi di cenere e fiammelle che furono i lemuri del dubbio, come le candele sparse nel vestibolo.
“Fante,” il suo tono è ora più leggero, con una vena di comprensione, “te lo dico sincera: stai facendo una roba incredibile, okay? Ma non puoi rovinare tutto così.”
“Così come?”
“Ripensa al tuo viaggio. Cos’è successo sull’aereo? E a Varsavia? Il casino che avete scatenato sul treno?”
“Era pieno di agenti della SISS! Erano lì per me!”
Fa un cenno deciso delle mani. “Sì, ma chi ce li ha messi? E la sparatoria nella foresta?”
“Ehi,” il soldato si caccia un pollice sul giubbotto antiproiettile sforacchiato, “io ho abbattuto quei bastardi, uno per uno. Se non fosse stato per me…”
“E poi lui, appunto.”
Scuoto la testa. “Ma hai visto quanti ne avevo alle costole? Avevano anche la mia foto segnaletica! Senza di lui io non…”
Altro gesto delle mani, paziente. “Fante, sei-sempre-tu. Fai tutto tu. Continui ad affidarti a lui per distruggere paure, dubbi, incertezze, ma non è necessario. Dico davvero, guardalo: cioè, siete identici, siete la stessa persona, ma lui è una specie di idiota militarista incorruttibile, a cosa ti serve?”
Fa per replicare, lei gli piazza un indice sulla ferita aperta, osserva il rosso che le resta in punta, lo assaggia. “Non è neanche sangue vero, ha usato… marmellata di ciliegia?”
Guardo il soldato come si guardano i traditori della patria.
“Era per il discorso dell’essere fighi,” si giustifica.
“No, Fante,” Ele scuote la chioma, “le cicatrici non sono fighe. Non è sventolando davanti a tutti le ferite che si diventa persone migliori: è interessandosi agli altri che si creano i legami. Condividendo qualcosa di sé. Facendo del bene.”
“Non so cosa vuoi dire.”
“Lo sai invece. Lui, questa specie di eroe sfregiato, è una parte di te, e lo capisco. Ma non può sempre salvarti la vita, non può essere sempre lì a fare il lavoro sporco. Devi trovare un’altra via.”
“Senza di lui non sarei sopravvissuto alle imboscate della SISS.”
Sorride. “Senza di lui, non ci sarebbe neppure la SISS. È questo che continui a fingere di non capire. Abbiamo tutti prima o poi a che fare con la SISS, è inevitabile. Ma lui non è la soluzione, è un innesco. Se non te lo fossi portato dietro, non ci sarebbero stati agenti della SISS sul tuo cammino, non uno.”
Silenzio costernato. “Ma…”
“Pensa a Vika. Chi credi che vorrebbe veder entrare da quella porta? Te o questo guerrafondaio insanguinato alla ciliegia?”
Lo guardo. Sembra sentirsi in colpa, ma è solo un momento prima che riprenda il cipiglio. “Però è figo…”
“È solo apparenza. Lui non prova affetto o paura, ed è per questo che può continuare a difenderti anche per sempre dalla SISS: ma non ti libererai mai di essa finché lui ti aprirà la strada. E poi, vuoi vedere quanto è figo?”
Tira fuori il telefono, digita qualcosa, glielo mostra: sullo schermo una foto di Alexis in bikini rosso fiammante.
Il soldato crolla in ginocchio, lo sguardo estatico alla volta. “Alexis, oh Alexis.” Apre le braccia in adorazione, una prece furibonda alla dea della bellezza. “Alexis, la mia anima è tua!”
“Cos’ha di figo costui?”
M’adagio alla parete, di schiena. Un certo senso di stanchezza. “E allora che dovrei fare? Congedarlo?”
“No. Lasciarlo a casa, e chiamarlo solo quando serve. Quando serve davvero.”
“Non so se sono in grado.”
“Lo sei. Ma devi volerlo.” Ele sorride e accenna alla porta chiusa, quella che dà sull’interno della chiesa. “Ti fermi sempre nelle anticamere delle grandi cose della vita. Quello che stai facendo qui è qualcosa di grande: non sprecare tutto.”
“Intendi Vika?”
“Credo che ti stia aspettando.”
Guardo la porta di vecchio legno, chiusa, e il mondo che c’è oltre.
Ho un vago senso di tristezza ma è solo per tutto quello che è passato, prima, altrove. “E se fosse la scelta sbagliata?”
“Ah, ci risiamo.”
“Dai, oh, magari non è figa come in foto, o magari sì ma ci lasceremo dopo sei mesi e dovrò pagarle gli alimenti e due litri del mio sangue!”
I versi dei lemuri, da qualche parte sul soffitto, tornano a riempire il vestibolo. Il soldato si ricompone di scatto, ha un sorriso malevolo, guarda in alto, toglie la sicura dall’ARX con gesto deciso.
“Fante!”
“Ma non puoi chiedermi di non avere dubbi, Ele, dai!”
“Varca quella porta e togliteli: è l’unica strada.”
Sospiro.
“E va bene.”
“Oh, finalmente.”
“A proposito, perché diavolo ci sei tu a farmi questo pippone psicologico?”
“Sei-sempre-tu: hai dato alla tua coscienza la mia figura, tutto lì.”
“Ma neanche ti conosco dal vero.”
Apre le mani. “Adesso vai, per favore?”
“Vado.”
Staccarsi dal muro è la cosa più difficile del mondo.
“Fammi un cenno,” il soldato s’aggiusta l’elmetto, “un cenno e ti apro la strada.”
Lo guardo con quel misto di riconoscenza e abitudine. “No, faccio da solo stavolta.”
Ne soffre e lo vedo. “Almeno fatti aprire la porta.”
“No. Faccio io. Grazie.”
Mi accosto a quella barriera di legno vecchio; una parte di me sente, sente forte, la nuova orda di protoscimmie bianche che si agita e freme tra le ombre del soffitto, il manipolo di agenti SISS che già converge sulla chiesa.
È solo un momento, e nulla più.
Adesso c’è il silenzio.
C’è una di quelle cose grandi della vita. Ma grandi davvero.
Il sorriso di Vika.
Una strada diversa.
Apro la porta.
Bianco.
Sbatto più volte le palpebre, mi giro: Ele ha un mezzo sorriso costernato. “Scusa,” mormora dissolvendosi in un caleidoscopio di luci colorate, “Pesce d’Aprile!”
Sto guardando lo schermo di un pc.
Sono solo.
Quattro pareti, una stanza.
“Cioè,” ricapitolo per me stesso, “tutto questo deve ancora succedere? L’ho immaginato come fosse un racconto?”
Sullo schermo una pagina Facebook, una foto d’asilo, bambini impiastricciati di vernice gialla, rossa, verde, blu: sullo sfondo un cartellone con scritta nera che a mani di colore viene spennellata via.
Sfiducia In Se Stessi.
Il telefono vibra, SMS: Almeno adesso hai una storia da condividere. I legami si creano così. – Ele –
Guardo il vuoto.
“Chi è Ele?”
Chiudo la schermata, riapro quella che avevo prima, Word, poi il messenger criptato.
L’inglese stentato di Vika.
Scrivo di fretta, cancello, riscrivo.
Scrivo quindi sono.
Digito ergo sum.
C’era un brano che qualcuno m’aveva scritto da qualche parte, Post Romantic Empire?
Suona in sottofondo.
Vika, vengo a prenderti.
Dove, come, i Russi, la chiesa.
Servirebbe un soldato addestrato.
No, io basto e avanzo.
Chiudo tutto, ho dei biglietti da prendere.
Guardo il calendario, è il primo del mese, calcolo il tempo che ci vorrà.
Andrà bene.
Zero dubbi, stavolta no.