Seduto nel mio lettino d’ospedale, sto per addentare la mia lauta colazione quando un urlo mi blocca in piena manovra.
È Ciccio, infermiere pseudo professionale chiamato ‘il prete’, famoso nel reparto perché ogni volta che deve fare un prelievo, il paziente che lo vede arrivare si fa il segno della croce. Magro, calvo, bianco, con naso e orecchie piene di peli.
Ci sono passato anch’io, sotto le sue mani. Riuscì a trovarmi la vena al settimo tentativo, e il mio vicino di letto, mostrandomi orgogliosamente il suo braccio con nove buchi mi sorrise, fiero del suo record.
«Fermo!» urla.
«Che c’è?»
«Non mangiare, mio compare.»
Un poeta.
«Minchia, mi chiami compare e mentre mi dici di non mangiare. Ma che pìgghi po culu?»
«Ha chiamato il primario, ha detto che siccome un paziente è morto forse ti operiamo oggi.»
«Ah. Che vuol dire forse?»
«Che non è sicuro.»
«E grazie. Ma il paziente è morto di sicuro o no?»
«Eccerto.»
«Senti Ciccio, ci conosciamo da anni. Facciamo i seri. Se un paziente è morto di sicuro, sarà sicuro che mi operate, giusto? Perché di sicuro si è liberato un posto, no? Non è che mi lasciate morto di fame e poi non succede niente, come un anno fa? Perché faccio succedere un quarantotto.»
«Minchia come fai. Ma perché te la prendi con me?»
«Perché ci sei solo tu qui.»
«Eh, appunto, l’ambasciata non porta pena.»
«L’ambasciatore, pirla.»
«U stissu è. Non fare il dottore, che qui quello messo peggio c’ha il diploma.»
«E tu allora come sei messo, che hai la quinta elementare?»
«Sono messo benissimo, grazie. Ho andato a scuola per dieci anni.»
«Ma chi, tu?»
«Io, io, che ti credi? Ho preso il Diploma di Scuola Elementare – mi dice quasi sillabando, manco fosse una laurea – e poi sono bocciato cinque volte in prima media.»
«E com’è che ti fanno fare l’infermiere?»
«Perché io sono un autodidattico. Quello che conta è la sostanza, non la carta. E poi fici il corso per infermiere professionale di professione per sei mesi.»
«Sei mesi? Tutti i giorni?»
«Ma quale minchia, una volta alla settimana, un paio di ore. E così mi ho preso il diploma, che ce l’ho appizzato nella parete del soggiorno.»
Entra Monika, infermiera vera, da sala operatoria. Una donna capace di farti amare le iniezioni. Alta due metri, per l’80% composta da cosce, il 15% da due smeraldi al posto degli occhi e il restante 5% da lunghi capelli neri più ipnotici di Circe.
«Ciccio, cosa fai qua tu?»
« Stavo dicendo al paziente che…»
«Vai svuota cateteri, cosa inutile che tu sei. Nemmeno a Polonia uno come te fanno lavorare.» Ciccio se ne va, lei chiude la porta e mi guarda in silenzio. Si avvicina...
«Spogliati…»
Oh, sì...
«…togliti tutto, dai…»
Oh my god...
«…e mettiti questo.»
Mi porge un camice da sala operatoria.
…azz.
Mi fa sdraiare sulla barella, incurante di quel qualcosa di grande fra di noi e mi porta nel blocco operatorio.
«Spetta qui che viene doctore con anecstesista.»
«Comandi.»
Mi sorride e se ne va. Rivaluto istantaneamente le percentuali della sua composizione fisica, aggiungendo un buon 30% di culo a traino allucinogeno.
Aspetto, aspetto, aspetto… niente, né doctore e né anecstesista, porca troia. Passano così due ore, e io penso al pranzo che se ne sta andando. Ere dopo, spunta il chirurgo. Capelli lunghi e biondi, gobba e occhi celesti fuori dalle orbite. Sembra E.T. con i capelli.
«Signor paziente, come sta?»
«Benone. Oggi invece di andare al museo o al mare ho ben pensato di venire a fare un giro in ortopedia.»
Il mostro scoppia a ridere, appoggiando la mano sulla mia spalla. Poi di colpo torna serio.
«Mi dispiace, ma per oggi l’operazione è saltata. Abbiamo avuto delle compli… ehi, ma dove sta andando?»
Esco fuori dal blocco operatorio col solo camice addosso e vado in infermeria, pronto a farmi la galera. C’è Oreste, un infermiere che sembra un incrocio fra Woody Allen e Danny De Vito.
«Unnè Ciccio?»
«Boh, forse è sceso al bar.»
Vado in camera, mi rimetto il pigiama e mi piazzo all’ingresso del corridoio che corrisponde all’uscita dell’ascensore. Dopo dieci minuti, l’ascensore si apre e Ciccio viene fuori. Io devo avere l’espressione di un Unno a cui hanno rubato il cavallo.
«Tu! Io ti spiezz…»
« Nun fare accussì - mi interrompe – tiè, basta ca cià finisci.»
Mi dà un fagotto.
«Dentro c’è la pasta al forno, due cosce di pollo e le polpettine di patate. Allorquando sei finito scendi al bar che c’hai il caffè pagato.»
«Ma come fai a sapere che ti stavo cercando?»
«Il chirurgo chiamò in corsia e ci disse che l’operazione fu annullata. Appena lo sentii, scappai a comprare il mangiare per evitare il quarantotto.»
«E bravo Ciccio. Sveglio e reattivo.»
«Sveglio sta minchia. Certo che quello che disse quella cosa dell’ambasciata doveva essere un gran coglione.»
Va via, il povero Ciccio, il turno è finito e io inizio a mangiare. Mi è andata troppo di lusso.
E pensare che mi sarei accontentato di una birra.