Il ventisette giugno del 2016, la signora Fernanda era nel salotto della sua bella abitazione di Portici, quando lo squillo del telefono di casa, la distolse dalla visione del suo programma preferito: “Un posto al sole”. Guardò il marito ma il vecchio notaio, sprofondato nella sua poltrona preferita, era già nel mondo ovattato del consueto sonnellino postprandiale e, comunque, lei sapeva benissimo che andare a rispondere al telefono era un suo preciso compito.
Chi può essere a quest’ora e poi sul numero di casa? Da quando Elena lo ha fatto mettere su quel registro, più nessuno chiama lì. Mah, vediamo un po’ pensò. Dopo essersi alzata a fatica, si diresse a passo lento verso quel coso che continuava imperterrito a far risuonare dal lungo corridoio, l’obsoleto “drin, drin”.
«Eccomi, eccomi! Sto arrivando!» gli urlò contro infastidita. Alzò il cordless e premette il tasto con l’icona del telefono verde.
«Pronto» il suo tono era perlomeno annoiato.
«Hello. Sono il console onorario italiano di Darwin e avrei bisogno di parlare con qualcuno della famiglia di Elena Coppola» l’accento era un po’ strano con un sottofondo compassionevole.
«Oh, Dio mio, Elena! Che le è successo?» Senza ascoltare quello che l’uomo le stava dicendo gridò «Gennarìiiii! Gennarìiiii!» svegliando di soprassalto l’uomo che, malgrado l’età avanzata, le fu accanto in pochi secondi.
«Prendi. Parla tu! È successo qualcosa a Elena» passatogli l’apparecchio, la signora Fernanda s’accasciò sulla sedia accanto alla mensola del cordless, guardando verso l’insù all’imponente figura del marito.
Qualcuno stava parlando ma lui interruppe quella voce un po’ strana «Buongiorno. Sono il notaio Gennaro Coppola e mia moglie mi ha detto che è successo qualcosa a nostra figlia Elena.»
«Buongiorno signor notaio. Come ho già detto a sua moglie, sono il Console onorario italiano di Darwin e sì, effettivamente, vostra figlia Elena ha avuto uno spiacevole incidente…»
«Signor Console la prego non cerchi giri di parole. Quell’incidente che conseguenze ha avuto?» lo interruppe ansioso il notaio.
«Sarò franco, signor notaio. Mortali. Il corpo di sua figlia è stato ritrovato a Uluru, ieri mattina, da una guida turistica che…»
«Che posto è quell’Urulo? E non mi interessano i dettagli della guida. Mi dica come è morta e perché non mi avete avvisato subito!» alzò la voce Gennaro. La signora Fernanda, al sentire che la figlia era morta, s’era ancor più accasciata sulla seggiola ed emetteva uno stridulo lamento continuo.
«Signor notaio, le chiedo scusa, la capisco ma se mi lascia terminare…»
«Mi scusi lei signor Console. L’ascolto» e con la mano libera prese quella della moglie come per farsi e farle coraggio.
«Uluru è quella montagna che gli aborigeni considerano sacra mentre, per gli altri, è un sorprendente luogo turistico. Un grande masso rossastro quasi al centro dell’Australia chiamato anche Ayers Rock, dal nome del suo scopritore. Vostra figlia è stata trovata in una delle tante fenditure del masso. Ora debbo darle dettagli dolorosi» non essendoci alcuna interruzione da parte del notaio, continuò. «Alle sette del mattino, ora locale di ieri, credo sia l’una e mezza di notte da voi, però del giorno prima, una guida aborigena, che accompagnava dei turisti sulla piana superiore del monte, ha intravisto, nello spacco di una roccia, un paio di gambe nude. Allontanando i turisti con una scusa ed entrata nella grotta, ha scoperto il corpo nudo di sua figlia, sdraiato supino al suolo. Ripiegata sotto il capo, a farle da cuscino, aveva una corta giacca di lana bianca e nella mano destra, aperta, il germoglio di un fiore.
Dall'esame autoptico è risultato che la morte è stata causata da strangolamento. Inoltre, il patologo ha anche rilevato ecchimosi per tutto il corpo e tracce di una violenza anale commessa prima del decesso.» Il suo telefono gli trasmise un urlo represso, così come un “Maronna”, ma quello molto più chiaro.
«Mi perdoni la reazione signor Console. Penso che io debba venire a Darwin per il riconoscimento.» Lo sforzo per riprendere il controllo era stato immenso e la sua mano era ormai stritolata da quella di Fernanda la quale aveva sentito tutto dal viva voce, messo in funzione dal marito.
«Sarebbe opportuno, anche se potrebbe essere un nostro tribunale a effettuare la pratica. Hanno ritrovato il suo zainetto con i documenti d’identità, il portafoglio con un’importante somma in contanti e il cellulare, dal quale abbiamo ricavato il vostro numero di casa. Se non desidera fare il lungo viaggio penserò io, dal Consolato, a trasmettervi tutti i suoi averi e anche a tenervi informati dei risultati dell’indagine. Sono veramente molto spiacente dell’orribile accaduto. Non vi ho ancora detto il mio nome. Sono Giovanni Rendine ma qui tutti mi chiamano John e, vi prego, non esitate a chiamarmi così anche voi. Vi porgo le mie più vere e sentite condoglianze e vi prometto di far di tutto affinché trovino il colpevole.»
«Grazie Mr. John. Adesso vorremmo rimanere col nostro dolore. Amavamo moltissimo la nostra Elena che non solo mi aveva sostituito nel mio studio notarile ma era anche sì una grande sportiva e un arbitro di calcio molto apprezzato sui campi del girone femminile di serie A» il notaio si era lasciato andare con le spiegazioni, nell’illusione di poter trattenere le lacrime, che invece erano sgorgate copiose, senza che le sue mani, occupate da telefono e moglie, potessero detergerle. Dopo un «La ringrazio di nuovo e mi tenga informato su tutto» rimise il cordless sulla sua base e aiutò la moglie a raggiungere il divano dove entrambi rimasero per lunghi minuti seduti abbracciati senza dirsi nulla.
Il giorno seguente il quotidiano napoletano “Il Mattino” titolava in prima pagina di cronaca la morte di Bud Spencer, citando una frase dell’attore: “La morte non mi fa paura”. Il cronista, Nicola Cavezzuti, narrava di un’intervista di poco tempo prima con l’attore e, nel farlo, raccontava la vita del barbuto protagonista di oltre 120 film, parecchi dei quali in coppia con Terence Hill.
Mescolata ad altri fatti di cronaca appariva una breve da Sidney: “L’atroce morte di una nostra compaesana a Uluru in Australia” – Il noto arbitro di serie A Femminile, Elena Coppola, cittadina napoletana, è stata ritrovata morta ieri da una guida turistica locale, in una grotta della montagna, chiamata dagli aborigeni Uluru, molto più conosciuta da noi occidentali come Ayers Rock. All’apparenza stuprata e uccisa per strangolamento, il suo cadavere giaceva nudo con un germoglio di Telopea Speciosissima, una pianta che possiede qualità oppiacee, nel palmo della mano destra. La testa della donna riposava su di una corta giacca bianca, tipo bolero, accuratamente ripiegata a farle da cuscino. La Polizia di Darwin, incaricata delle indagini, al momento non ha emesso alcun comunicato. Porgiamo le nostre sentite condoglianze alla famiglia del Dott. Gennaro Coppola, ex titolare dell’antico studio notarile a suo nome, che però da un paio d’anni aveva trasmesso alla figlia. – M.M.
Il notaio telefonava quasi ogni giorno al Console ma le notizie erano veramente scarne. Sembrava che le indagini, causa quello strano germoglio, portassero verso quel mondo un po’ oscuro della sciamanismo nel quale gli aborigeni erano quasi dei maestri. Tra i suoi effetti personali, recuperati al Desert Garden Hotel, dove aveva affittato una camera, era stato trovato un itinerario di viaggio, in cui Mutitjulu, una piccola comunità di meno di trecento abitanti, sarebbe stata oggetto di una sua visita, prima di quella prevista della scalata fino alla sommità della grande roccia. Praticamente tutti gli abitanti erano stati interrogati dagli investigatori ma nessuna delle guide del posto aveva accompagnato Elena nella sua escursione. L’unica altra scoperta era che quella giacca non le apparteneva. La taglia era troppo piccola per il suo corpo ben modellato dallo sport.
«Allora, Mr. John, qualcuno deve averla messa dopo. Non credo proprio a un gesto così gentile dell’assassino!» propose il notaio al suo interlocutore dall’altro lato del mondo.
«Lo crede anche la Polizia, Signor Gennaro» oramai erano quasi amici «infatti stanno seguendo quella pista. Sulla giacca hanno ritrovato un capello che non appartiene a sua figlia e la Scientifica ne sta estraendo il DNA. A prima vista, essendo ricciuto e crespo, dovrebbe essere di un locale e siccome qui in Australia abbiamo un database di tutti i DNA degli aborigeni, una volta estrapolato da quel capello, non sarà difficile trovare la proprietaria della giacca.
«Ma com’è possibile che l’assassino sia una donna?» scattò il notaio, pentendosi subito dopo di quella frase ritornandogli in mente, come un orribile rigurgito, le molte ecchimosi e lo stupro rettale. «No, mi scusi John, allora erano in due…»
«Sono più propensi a credere che l’omicida fosse da solo e pensano a un uomo molto possente. Mi perdoni la crudezza: ma le ha spezzato una vertebra del collo. Elena comunque deve essersi difesa fino alla fine. Lo attestano i tanti colpi ricevuti e le unghie spezzate. Chiunque l’abbia assassinata porta sul proprio corpo le prove del delitto.»
«Ha ragione. Allora chi le ha messo la giacca sotto la testa? E quello strano germoglio nella mano?» chiese angosciato Gennaro.
«Pensano sia opera di una seconda persona. Qualcuno, o qualcuna, che ha visto l’assassino e che con quel suo gesto della giacca voleva forse fornire un indizio. Per il germoglio nella mano pensano a un gesto gentile. Niente a che avere con lo sciamanismo. Chiami quando vuole Gennaro. Io se avrò notizie farò lo stesso. Arrivederci.»
«Grazie John e arrivederci anche a lei.»
Tre settimane dopo il corpo di Elena arrivò all’aeroporto di Napoli e dopo i funerali, ai quali aveva partecipato una gran folla, fu tumulato nella cappella di famiglia al Cimitero Monumentale di Poggioreale. Fernanda, sorretta dal marito volle, malgrado lo straziante dolore che l’aveva di nuovo afferrata, partecipare alla messa in requiem nella chiesa di Santa Maria della Libera ma non ce la fece a proseguire fino alla tumulazione. Avendo delegato il marito, con lei rimase solo la sorella Guendalina, appositamente venuta da Londra, dove ormai abitava da oltre cinquant’anni.
«Fernanda, dimmi dove stanno le cose che ci prepariamo un the» la donna aveva perso la bella abitudine al bollente caffè napoletano e, più british di un british, cercò di riconfortare la sorella con la tipica bevanda inglese.
Guendalina però, tentando di distrarla dal suo dolore, chiese, forse col poco tatto appreso nei suoi lunghi anni a contatto con il popolo di Sua Maestà Elisabetta II, informazioni sul caso della nipote.
«Non sono poi molte le cose che quegli Sherlock Aussies hanno scoperto. Però hanno quel DNA che presto o tardi li condurrà da qualche parte» commentò dopo il breve racconto di Elena.
«Hai ragione. Noi aspettiamo solo quel risultato. Quella corta giacchetta bianca ci dirà tutto. Quel germoglio invece sembra essere un depistaggio verso il mondo esoterico degli sciamani» sottolineò la stessa.
«Aspetta un attimo! Credo che chi abbia messo la giacchetta e il germoglio, ci abbia dato nome e cognome dell’assassino. Però è strano. Anzi stranissimo!» La sua voce aveva perso il tono british.
«Guendalina ma che cosa stai dicendo?» era quasi un urlo quella domanda.
«Non comprendo come gli Aussies non l’abbiano capito! L’avevano proprio sotto gli occhi. Scritto chiaro e netto! Certo quelli…»
«Me lo vuoi dire! Per favore fammi capire» chiese la sorella quasi imperativamente, d’altronde lei era la maggiore.
«Mi sembra però una cosa stranissima.»
«Gesù, Giuseppe, Maria, dillo!» era stato un urlo.
«Ok. Germoglio in inglese si dice: Bud e quella specie di giacchetta bianca corta si chiama: Spencer. Bud Spencer è il nome dell’assassino scritto da qualcuno che voleva farlo sapere» mentre lo diceva le sembrava ancor più strano.
«Ma cosa dici! Bud Spencer è il nome di quell’attore che è morto proprio lo stesso giorno in cui hanno ucciso Elena. Cosa c’entra lui, che Dio abbia in pace la sua anima.»
«Non credo che lui possa entrarci ma è probabile che questo sia il nome dell’assassino australiano. Sarebbe opportuno verificare. O no?» Guendalina non mollava l’osso.
«Chiamo subito Gennaro e lo faccio tornare a casa. A quest’ora dovrebbe essere qui.» Fernanda non fece in tempo a ritrovare il suo cellulare che sentì una chiave girare nella serratura e poco dopo suo marito andava ad accomodarsi nel salotto insieme alle due sorelle.
Gli fu offerto del the. Era un po’ freddino. La scusa buona per rifiutarlo. Lui non avrebbe comunque mai tradito il suo caffè bollente per quella bevanda dei figli di Albione.
Le due donne gli permisero la pausa preparativa e la successiva degustazione, con un piccolo schiocco inelegante della lingua, poi Guendalina lo mise al corrente di quello che le sembrava la risoluzione del caso.
Mancava poco alle undici e a Darwin dovevano essere le otto e mezzo di sera. Il notaio non si fece scrupoli e chiamò John.
«No problem I was… scusi Gennaro l’abitudine. No non mi disturba affatto. Abbiamo appena terminato di cenare. Mi dica pure…» e per quasi cinque minuti ascoltò quella strana considerazione «Può essere. I film di Bud Spencer sono stati molto seguiti qui da noi e non è detto che a qualche bambino aborigeno abbiano affibbiato quel nome oppure potrebbe essere il soprannome di uno di loro grosso e molto forte. Quest’ultimo farebbe proprio al caso nostro. L’idea di sua cognata a prima vista sembra pazzesca ma senz’altro da investigare. Chiamo subito il detective che segue il caso, poi appena ho notizie l’avverto. Arrivederci Gennaro e i miei omaggi alle signore.»
C’era solo d’aspettare.
«L’hanno arrestato!»
Era passata quasi una settimana quando quella frase senza preamboli di cortesia era scaturita dal telefono di casa Coppola.
«Gennaro c’è? Mi scusi la brutalità e l’orario antelucano ma volevo darle la notizia che ho appena ricevuta dalla Polizia di Darwin.»
«Non fa nulla. Dica pure. Oramai sono sveglio e mia moglie è qui con me» il cordless, in viva voce, era appoggiato sul tavolino in cristallo, di fronte al divano del salotto, sul quale i due si erano seduti ancora vestiti di pigiama e vestaglia.
«Sua cognata Guendalina aveva ragione. Bud Spencer era il soprannome di un ragazzo aborigeno molto robusto, che si offriva da guida abusiva ai clienti del Desert Garden Hotel. Era un conosciuto attaccabrighe. La Polizia l’ha preso in consegna circa tre ore fa e ha già confessato il delitto. Non è riuscito a spiegare quale sia stato il movente. Dice che è stato un raptus improvviso, forse causato dall’assunzione di droghe e alcol, di cui era un consumatore abitudinario. Il suo vero nome è John Martin ma ciò non interessa. Il curioso è che sia stata la sua compagna a denunciarlo con quei suoi criptici messaggi. Avendo saputo che lui avrebbe portato quella bella signora bianca, da sola, in cima all’Uluru, si era ingelosita e l’aveva seguito. L’aveva perso quando lui era sparito tra le rocce con lei. Poi quando era riapparso da solo, l’aveva lasciato scendere la montagna ed era andata a vedere. È lei che ci ha raccontato tutto, una volta assicurata che non avrebbe dovuto temere nulla dal suo violento compagno che trovava piacere solo nel sodomizzarla. Ha detto di aver trovato Elena piegata quasi in due, col collo spezzato. Già morta. Allora le era venuta quell’idea per denunciare il compagno. Messo il corpo supino, le aveva posto sotto la testa il suo spencer bianco arrotolato. Aveva poi raccolto un germoglio di quella pianta dai grandi fiori rossi e glielo aveva messo in mano. Sapeva, o meglio sperava, che qualcuno comprendesse il messaggio. Inoltre il DNA è proprio il suo. C’è voluta però la signora Guendalina a capire. Fernanda, Gennaro, è tutto finito. Spero che un giorno il vostro dolore si attenui. Ve lo auguro di cuore. Noi non abbiamo più la pena di morte ma, vi posso assicurare che l’assassino passerà gran parte della sua vita in prigione e questo per lui sarà senz’altro peggio che morire. Un grande abbraccio a entrambi e magari ci vedremo un giorno al mio rientro in Italia.»
«Grazie della sua gentilezza John e magari sì… forse un giorno ci vedremo. La saluta anche Fernanda.»
Non c’era più niente da dire ma tanto da ricordare.
La telefonata a Guendalina poteva aspettare.