Viktor Bodganov diede un’ultima occhiata febbrile alla stanza. Sprimacciò i cuscini sopra al divano, controllò il perfetto allineamento dei due calici di cristallo sopra al tavolino. Stappò una bottiglia di vino, ne annusò il tappo annuendo soddisfatto. Accese lo stereo regolando il volume in modo che la musica costituisse un delicato sottofondo.
Gli scaffali della libreria ospitavano pochi volumi: i ripiani erano occupati da decine di targhe e trofei. Al centro, in primo piano, faceva bella mostra di sé una cornice d’argento con la foto che lo ritraeva sorridente nell’atto di stringere la mano di Lobanovski, allenatore della nazionale olimpica. Nello svuotatasche sulla mensola vicina alla porta d’ingresso rilucevano le chiavi della sua Trabant 601 S Deluxe.
Il suono del campanello gli fece balzare il cuore in petto. Prima di aprire, Viktor cercò a tastoni la piccola croce smaltata appesa alla sua collanina. Come faceva nello spogliatoio prima di entrare in campo e fischiare l’inizio della partita, la baciò. Quel rituale gli aveva sempre portato fortuna.***
Un alone acre di fumo aleggia sopra le teste dei clienti. Viktor e il suo amico Valentin, nell’attesa delle loro birre, sgranocchiano delle kepta duona, strisce di pane nero di segale all’aglio, fritte.
«Pensi che ti convocheranno a Seul, Viktor?»
«Dovrebbero farlo, ma ancora non so niente di preciso.»
«Sei proprio un gran figlio di puttana, Vik. Se tu non avessi fischiato quel rigore, non saremmo qui, stasera. Gli hai salvato il culo. Non possono tagliarti fuori, vedrai.»
Viktor lo guarda di traverso: «Hai bevuto già troppo, Val. Straparli.»
L’arrivo della cameriera li toglie dall’imbarazzo. Indossa il costume popolare e il sorriso smagliante di un poster per turisti. La testa avvolta da un fazzoletto di lino bianco dal quale spunta una lunga treccia bionda, la camicia immacolata sotto un gilet nero e la lunga gonna a righe multicolori non riescono a celare il fisico prorompente della donna. Nella targhetta spillata all’altezza del seno spicca il nome: Lidija.
Viktor si sbottona con destrezza la camicia fin quasi alla metà del petto. La cameriera arrossisce e abbassa lo sguardo.
La vista della piccola croce smaltata che pende dalla catenina provoca l’ilarità dell’amico: «Ehi Vik! Dici la preghierina prima di mangiare?»
La risata goliardica s’interrompe quando Lidija chiede loro cosa abbiano scelto dal menù.
Viktor non riesce a smettere di fissarla: «Mi hanno detto che a Šiauliai si mangia molto bene ma non mi avevano informato che c’era la donna più bella dei Balcani…»
Alla battuta, il sorriso di Lidija si spegne all’istante. Si schiarisce la gola prima di parlare: «Oggi abbiamo i cepelinai ripieni di carne.»
Era iniziata così, come decine di altre storie durate il tempo di una serata. Coi suoi quarantadue anni Viktor Bodganov, il fisico atletico, i capelli brizzolati, il successo come arbitro internazionale, era il simbolo di chi ce l’aveva fatta. Una vita sorprendente per il figlio di un semplice soldato dell’esercito sovietico.
«Ti accompagno in hotel, Valentin. Hai bevuto troppo stasera. Non preoccuparti per me, farò tardi.»
«Vik, tanto quella non ci sta. Te lo dico io.»
«Quella è un calcio di rigore, Val.»
«Sei proprio un gran bastardo…»
È l’una di notte quando Lidija esce dalla porta posteriore del ristorante. Viktor, nell’attesa, ha esaurito la sua scorta di gomme da masticare alla menta. La strada è poco illuminata ma la silhouette della cameriera è inconfondibile. La vede camminare a passo svelto, rasente al muro. Sta per avvicinarla quando, all’improvviso, un balordo ubriaco esce dall’ombra dei palazzi. L’uomo cerca d’impedirle il passaggio rivolgendole parole oscene. Viktor interviene giusto un attimo prima che l’aggredisca. Con decisione gli blocca il braccio già pronto a sollevarle la gonna. Quello barcolla e sputa per terra prima di dileguarsi nel buio imprecando.
«Non è prudente andare in giro da sola a quest’ora, Lidija.»
Nel silenzio si possono sentire le pulsazioni del suo cuore. È affannata: «Sì, sì lo so. Grazie per l’aiuto, signor…»
«Mi chiamo Viktor Bodganov. Posso accompagnarla a casa? La mia auto è parcheggiata qui, a due passi.»
«Lei è gentile, ma non importa. Sono quasi arrivata. Abito molto vicino al ristorante.»
«La prego, mi permetta almeno di seguirla a piedi fino al portone.»
Lo sguardo della donna si posa sulla croce che fuoriesce dal colletto aperto della camicia; si stringe nelle spalle: «Va bene» risponde senza entusiasmo.
Proseguono l’uno dietro l’altra senza dirsi una parola. I loro passi rimbombano tra le pareti del vicolo come dentro a una chiesa al mattino presto. A volte Lidija si gira e i loro sguardi s’incontrano, ma non sono che piccoli lampi nel buio.
«Buonanotte, Lidija. Cerchi di stare attenta.»
Gli occhi di lei brillano nella notte. Senza l’abito tradizionale, sembra più giovane. Indossa un vestito semplice a fiori stampati. Un alito di vento le increspa i capelli sciolti sulle spalle facendoli fluttuare come onde in un campo di grano maturo.
«Grazie… buonanotte anche a lei, Viktor.»
I loro sguardi s’incontrano una volta di troppo.
Gli viene naturale abbracciarla, sentire il battito del cuore accelerare, dischiudere le labbra e cercare di baciarla. Il corpo prende il sopravvento sulla ragione, il desiderio sul buon senso. Viktor allunga una mano sul suo seno ma Lidija lo ferma subito, decisa.
«Scusa… scusa… scusa. Non so che mi è preso…» le dice con un filo di voce.
Lei, a testa bassa, rovista nella borsetta alla ricerca frenetica delle chiavi e, trovatele, entra in casa senza voltarsi.
Una volta dentro, appoggia la schiena alla porta e si lascia scivolare piano sul pavimento scossa da un pianto sommesso. Un lamento che proviene dalla camera, la fa riscuotere.
Tira su col naso, si asciuga gli occhi con la manica del vestito e si avvia nella stanza.
«Mamma, sono qui. Stai calma» le dice sottovoce accarezzandole la fronte.
L’anziana le rivolge uno sguardo assente e si rimette a mugolare.
Lidija le parla come se lei potesse comprenderla e le confida sempre tutto. S’infila accanto a lei sotto le lenzuola, così non deve alzarsi ogni volta che la sente agitata.
«Sai, mamma, ho conosciuto un uomo stasera. Un cliente del ristorante. Era bello, aveva qualcosa di speciale. Pensavo fosse diverso dagli altri, ma invece no. Oppure gli uomini si devono comportare tutti nello stesso modo? Forse sono io che sbaglio.»
Lidija continua a parlarle di Viktor anche dopo aver spento la luce e lo fa anche nelle notti seguenti.
Viktor, con lo stomaco chiuso da una morsa, si allontana trascinando i piedi. In auto stringe con forza il volante e parla da solo.
Non riesce a chiudere occhio, continua a rivivere la scena mille volte, ma il finale non cambia. L’ora della partenza lo sorprende ancora sveglio.
I giorni si susseguono convulsi, il calendario di Bodganov è fitto di partite, di camere anonime d’hotel, di Irina, Ludmilla, Ljuba e Galina.
«Pronto, per favore, potrei parlare con la cameriera… sì, Lidija. Ah, sta lavorando… Certo, capisco. Potrebbe riferirle che l’ha cercata Viktor Bodganov?»
Tornare a Šiauliai sembra un desiderio irrealizzabile. Lidija è un tarlo, una goccia che insiste nei suoi pensieri. Una miccia a combustione lenta. Lidija è voglia di casa.
«Valentin, credo di aver fatto il peggior affare della mia vita, oggi.»
«Che hai combinato?»
«Ho comprato un appartamento.»
L’amico sgrana gli occhi. «E dove?»
«A Šiauliai. Non è molto grande: cucina, camera, bagno e salotto.»
«Questa devi proprio spiegarmela. Hai intenzione di mettere radici?»
«E perché no? Prima o poi smetterò di viaggiare come una trottola. Mi fa piacere pensare di avere una casa mia.»
«E dovevi comprarla proprio in Lituania? C’è un gran casino lì. Ti troverai in mezzo a qualche rivolta, lo sai che ci odiano.»
«Per questo me l’hanno fatta pagare a peso d’oro. Che si fottano. Terroristi di merda. Dai, Val, brinda con me! Ho voglia di festeggiare.»
«Vik, non me la racconti giusta. Dimmi la verità. Che ti succede?»
«Ascolta, Valentin. Hai presente quel ristorante di Šiauliai? Ci siamo stati a cena mesi fa.»
«Sì, perché?»
«Ecco… dovresti farmi un grosso favore. Potresti consegnare per me questa busta alla cameriera? Si chiama Lidija, ricordi?»
Valentin si mette le mani nei capelli. «Oh, cazzo… ti sei innamorato...»
«Ti ho già prenotato il volo.»
Ne hanno passate tante insieme lui e Viktor. Non può dirgli di no.
***
Viktor aprì la porta e tese l’orecchio: il rumore lieve dei passi di Lidija risuonava nell’androne del palazzo. L’aspettò sul pianerottolo contando mentalmente il numero degli scalini che lo separavano ancora da lei.
«Ciao, entra.»
Lidija si guardò intorno. Nel salotto, tutto parlava di lui, ma era come se la sua vita precedente non fosse mai esistita: nessuna foto di donna, di qualche familiare o di lui da bambino. Come se Viktor fosse nato già adulto. Solo trofei e ritagli di giornale. Un pallone con decine di firme era il soprammobile più strano.
«Dove abitavi prima?»
«La mia famiglia era di Orël. C’è ancora la vecchia casa, ma ci vado di rado da quando sono morti i miei. Più che altro ho viaggiato molto in questi anni.»
«E come mai hai scelto di venire ad abitare proprio qui a Šiauliai?»
«Perché una bella donna mi ha rubato il cuore…» le sussurrò all’orecchio.
«Non dovrei essere qui, Viktor. La tua lettera mi ha colpita, ma non so ancora se posso fidarmi di te. Non ho capito perché hai mandato il tuo amico da me. Come mai non sei venuto tu?»
«Perché non mi hai mai risposto al telefono. Mi avresti cacciato via, lo so.»
«Può darsi…» Lidija andò verso la libreria e prese in mano la cornice. «Sei famoso, Viktor. Peccato che io non ne capisca niente di calcio.»
Lui riempì i due bicchieri col vino e gliene porse uno: «Assaggialo. È molto buono.»
La musica riempiva gli spazi della loro conversazione punteggiata di sguardi, di respiri, di carezze sperate da tempo.
Fecero l’amore a lungo così, sul divano, lasciando che fossero i loro corpi a parlare in un intreccio di dita e di gambe, di lingue e di gemiti.
Lidija gli arruffò i capelli e si mise a giocherellare con la croce che pendeva dalla sua catenina.
«Certo che sei un uomo strano. Non avrei mai immaginato che tu fossi cattolico. È la prima cosa che mi ha colpito di te. Nessun uomo che indossi una croce può essere tanto cattivo.»
Viktor sorrise. «Cattolico? Io? Ma cosa dici… No, no, no. Non è come pensi.»
Lidija gli prese la testa fra le mani e lo guardò dritto negli occhi: «Non prendermi in giro: questa è una croce cristiana» disse indicando il ciondolo.
«Sì. Bella, vero? È il mio portafortuna. Ma la fede e tutte quelle balle non c’entrano.»
La donna ammutolì.
«È un regalo di mio padre. Era un soldato. Io ero ancora un ragazzino quando fu mandato a spianare con la ruspa la Collina delle croci. Rischiò grosso per portarne via una di nascosto, ma ci teneva che io ce l’avessi. Era così orgoglioso... Da allora non me ne sono mai separato e le cose mi sono sempre andate bene» disse schioccando un bacio sonoro sul ciondolo.
Lidija, pallida come un morto, si alzò di scatto cercando di ricacciare le lacrime in gola. Raccolse da terra la biancheria intima, si rivestì in fretta e scappò via sbattendo la porta. Viktor, impietrito, non trovò le parole per fermarla. Infilò veloce i pantaloni e la rincorse fino alla strada.
La raggiunse che era già sul marciapiede «Io… io… io…» le disse ansimando.
Lei si mordeva il labbro inferiore e non riusciva a guardarlo in faccia. Restò ferma per qualche attimo: «Mi spiace, ma io… no» gli rispose glaciale.
«No cosa? Spiegati, per favore.»
«Ascolta Vik, non so chi ti abbia insegnato cos’è giusto e cosa è sbagliato, ma è chiaro che io e te non possiamo stare insieme.»
Lui le asciugò una lacrima col dorso della mano. «Lidija, ti prego, torna indietro. Dimmi cosa ti ho fatto. Parliamone.»
La donna lo seguì come un automa. Salì le scale e, senza emettere un fiato, rientrò in casa.
Si sedette sul divano e iniziò a parlare con lo sguardo perso nel vuoto: «Mio padre era un combattente nei “Fratelli della foresta”. Morì durante una battaglia e fu gettato in una fossa comune, chissà dove. Mio fratello Jonis aveva appena diciannove anni quando i sovietici lo uccisero. Mia madre non riuscì a impedirgli di seguire le orme di papà ed entrare nel gruppo della resistenza armata. Prima che partisse, gli mise al collo una croce per proteggerlo. Fu l’unica cosa che le restituirono di lui. Il suo corpo non fu mai ritrovato.»
Viktor cercò la sua mano, ma lei la ritrasse subito.
«Ero ancora una bambina, allora. Ricordo che mia madre mi chiese di seguirla. Camminammo per ore fino alla Collina delle croci. Pregammo così tanto che non riuscivo più ad alzarmi. Avevo le ginocchia a pezzi e i piedi pieni di vesciche. Prima di tornare a casa lasciammo lì la croce di Jonis.» Lidija cercò lo sguardo di Viktor. «Quando i sovietici spianarono la collina con le ruspe, mia madre non lo sopportò. Era come se avessero ucciso Jonis un’altra volta. Da allora non si è più ripresa. Io non me la sono mai sentita di lasciarla sola. Non ho amato, né avuto figli… Adesso lo capisci perché devi lasciarmi in pace? Non devi cercarmi mai più.» Si alzò e uscì in silenzio.
Viktor si versò da bere, incapace di reagire. Era come paralizzato, non poteva né articolare una parola, né muovere le gambe. Albeggiava quando riuscì ad alzarsi.
Prese una valigia e liberò gli scaffali della libreria da tutti i suoi trofei. Rimase qualche minuto a fissare la stanza vuota poi uscì in strada col pallone sottobraccio e lo regalò al primo ragazzino che incontrò.
Salì in auto e guidò coi finestrini aperti fino alla Collina delle croci. Non c’era mai stato prima. La strada era sconnessa. Dovette parcheggiare e proseguire a piedi.
Sentì correre un brivido lungo la schiena nell’attraversare quel luogo. Non furono le croci di ogni formato e materiale a colpirlo, ma la melodia prodotta dal vento che le attraversava. Un suono dolce ma, al contempo, fiero. Si sedette per terra e chiuse gli occhi. Respirò a fondo: tutto era pervaso da un’energia quasi palpabile. Restò lì a lungo, incurante dei pellegrini che, indifferenti, gli passavano accanto. Si avviò verso l’auto che il sole già arrossava il cielo.
Rientrato in città, il giorno successivo cercò il laboratorio di un gioielliere.
«Se desidera una collana d’ambra deve rivolgersi al negozio di mio figlio, qui si fanno solo le riparazioni» disse l’artigiano senza alzare la testa quando lo sentì entrare.
«Veramente… cercavo proprio lei.» Viktor si sfilò la collanina e gli mostrò il ciondolo.
L’uomo lo guardò con aria interrogativa.
«Mi chiedevo se… ehm… Ecco. Mi chiedevo se lei potesse incidere un nome sul retro di questa croce.»
L’artigiano prelevò dal cassetto una lente d’ingrandimento. «Non è oro» disse «e poi la superficie non è regolare.» Scosse la testa e sollevò lo sguardo verso di lui: «Mi spiace, non credo che verrebbe un buon lavoro.»
Viktor estrasse dal portafoglio quattro banconote da venticinque rubli ciascuna e gliele mise sopra il bancone. «Possono bastare?»
Il gioielliere annuì. «Che nome devo incidere?» chiese solerte.
«Jonis.»
Non era certo di riuscire a ritrovare l’abitazione di Lidija. Era trascorso troppo tempo e le strade gli sembravano tutte uguali. Cercò il ristorante e ripercorse con la mente gli eventi della sera del loro primo incontro. Si rese conto in quel momento di conoscere soltanto il suo nome.
Aveva già perso le speranze di trovare il portone giusto, quando la vide uscire da un vecchio palazzo. Camminava a testa bassa, gli passò accanto senza vederlo.
«Lidija!»
Sentendosi chiamare, lei s’irrigidì. Attese qualche istante prima di voltarsi. Aveva gli occhi gonfi. «Non dovresti essere qui» gli disse senza abbassare lo sguardo.
«Stai tranquilla, sto per partire. Non credo che ci rivedremo» frugò nella tasca della giacca e tirò fuori una piccola scatola. «Volevo solo darti questa.»
«Non voglio niente da te.»
Viktor sospirò. «Almeno aprila.»
Le tremavano le mani e Viktor dovette aiutarla. Nel vedere il contenuto, Lidija avvampò.
«È giusto che l’abbia la tua famiglia. Portala a tua madre. Ci ho fatto incidere sul retro il nome di tuo fratello.»
Lei spostò lo sguardo da Vik alla scatola una, due, tre volte: «Sali insieme a me. Vorrei che gliela consegnassi tu.»
La camera era in penombra. Lidija aprì le tendine per far entrare un po’ di luce. Si chinò sulla donna e la chiamò sottovoce scuotendola con dolcezza. «Mamma…» Sollevò la coperta, tirò fuori il braccio e le prese la mano. Era fragile e leggera come un uccellino. Viktor si avvicinò e le pose sul palmo la piccola croce.
L’anziana girò lentamente la testa verso di lui. «Jonis…» disse con un filo di voce. Una lacrima le rigò il viso.
«Ieri sono stato alla Collina. Ti chiedo scusa per tutto, Lidija.»
La donna non riuscì a dire una parola. I suoi occhi parlavano per lei.
«Forse da domani in quel luogo ci sarà una croce in più. Che ne pensi di rimetterla al suo posto? Potrei accompagnarti io, se me lo permetti.»
Lidija gli rispose abbracciandolo stretto stretto.