Ma perché ogni volta che vado in missione devo stare sempre dalla parte buoni? Non potrei anch’io ogni tanto entrare in una banda di ribelli, violenti, disumani, brutali e partecipare a queste stupide guerre senza regole, senza freni, concedendomi le peggiori malefatte? Almeno una volta!
E invece sono qui, con il coltello in mano, a incidere questi due pezzi di legno, io che per i lavori manuali sono negato. La battaglia inizierà a breve e io dovrò essere pronto.
Jan e Judita non si sono ancora visti. Staranno intagliando le loro croci nascosti tra le spighe, o forse saranno ancora in giro a cercare qualche ramo di betulla o di abete.
Non è facile trovarne di adatti, in questa zona. Di alberi ce ne sono ben pochi; questa maledetta collina si trova nel mezzo del nulla, tra campi di grano e di barbabietole. Eppure, costruire una croce, una bella, una grossa, e piantarla tra le altre centinaia sulla Kryžių Kalnas è la prima prova da superare, il primo passo necessario per avere in dotazione un’arma degna di tale nome. Non posso accontentarmi di questo coltello e di un’accetta: sarei spacciato al primo scontro.
Mi volto di scatto, balzando in piedi con il coltello stretto nella mano destra, pronto a difendermi, o magari ad attaccare.
«Judita, mi hai fatto prendere un colpo.»
È vestita come Lara Croft: svestita, dovrei dire. Non me la ricordavo così carina.
«Guarda qua» mi dice orgogliosa. In effetti, la grossa radice che trascina dietro di sé sembra perfetta per trasformarsi in un Cristo crocefisso. «Non ci devo fare neanche troppo lavoro».
«Con una scultura così, di sicuro Aksel ti assegna un bel fucile da assalto, e magari ti aggiunge qualche altro pezzo.»
«Oh sì! Quattro o cinque granate ci sarebbero utili.»
L’occhio le cade sulla mia croce, solamente abbozzata, e nasconde il disgusto.
«Posso anche impegnarmi, ma con questi due legnetti non riuscirò ad avere più di una Glock 17. Odio quel cazzo di pistola austriaca; potessi almeno avere una Beretta.»
Ci rimettiamo a lavorare, ognuno ai suoi legni, ognuno cercando di trasformare il proprio lavoro in un capolavoro.
Dopotutto il tempo inizia a scarseggiare.
È andata come doveva andare. Quando abbiamo piantato i nostri crocifissi, in mezzo a migliaia di altri, tutti lavorati a mano, è comparso Aksel, quasi dal nulla, e ci ha consegnato le armi.
Mi tocca la Glock. Sono deluso e lui se ne accorge.
«Jona, cosa puoi pretendere di più?» mi dice volgendosi verso la mia croce, infilzata nel terreno, come fosse in un puntaspilli. «Comunque vi ho lasciato munizioni a volontà: almeno per quelle non avrete problemi».
Impietosito, mi allunga anche una fionda da caccia.
«Mi prendi anche per il culo? Quando avevo dodici anni centravo una lattina a più di cento metri… ma qui non stiamo facendo la guerra con i fucili ad elastico.»
Gliel’ho strappata di mano, comunque non si sa mai.
«Questo è quello che posso fare: le regole sono regole.»
Judita sorride, per stemperare la tensione: «Hai visto Jan?»
«Quella è la sua croce.»
Invidia, ammirazione: è degna di una scultura moderna! L’ha costruita con il telaio di una bici: chissà dov’è riuscito a recuperarla. Le maglie della catena trasformate in una corona di spine, una ruota al centro gira pigra mossa dal vento.
«Vi aspetta al filare di alberi lungo la strada, prima di entrare in città.»
«Diamoci una mossa. Ci aspetta camminando nervosamente avanti e indietro, come una tigre in gabbia. Dallo zaino spuntano due Heckler & Koch G36, segno che la croce è stata apprezzata. Se almeno potesse prestarmene uno! Ma le regole non lo consentono.
«Non possiamo difendere qui la collina: il terreno è troppo pianeggiante, non ci sono protezioni. Dobbiamo anticipare il nemico e spostare lo scontro sul loro terreno, tra alberi e rocce. Là possiamo nasconderci e sorvegliarli, e cercare noi di conquistare la loro Collina della Streghe. Dobbiamo tenerli lontani dal nostro sacrario: se cadesse in mano loro sarebbe la fine dei nostri valori, dei nostri ideali.»
«Jan, tranquillo! Siamo d’accordo anche noi, ma dobbiamo stare uniti e ragionare. Altrimenti siamo spacciati.»
«Non sono tranquillo». Guarda Judita con occhi spiritati: «Tu non eri qui nell’’85 quando i russi sono venuti, con le ruspe, a spianare tutto e a bruciare quello che ancora spuntava dal terreno. Così, solo per mortificare il nostro nazionalismo, la nostra religione, le nostre tradizioni. Cosa facevi? Le elementari? Ma io c’ero, e non era la prima volta».
Tocca a me questa volta stemperare la tensione.
«Beh, vedo che ti sei portato avanti. A chi hai fottuto l’auto?»
«Non ho fottuto niente! Siamo i buoni noi! Non te lo ricordi? L’ho chiesta in prestito, forse non in maniera troppo educata, ma mi sono fatto dare anche il cellulare per dire dove la lasciamo alla fine della missione. Speriamo non lasciargliela tutta bucherellata», ridacchia. È un buon segno, si sta riprendendo.
Saltiamo su e parte sgommando. Il motore della povera Skoda ruggisce, contenendo a fatica i pistoni che vorrebbero sfondare il cofano.
«Mi sa che anche se non la restituiamo bucherellata…»
«Non distrarmi» mi dice Jan prima che possa terminare la frase e schiaccia ancora di più sull’acceleratore.
Abbiamo attraversato Klaipeda senza trovare resistenza; ci aspettano poco avanti, all’inizio della penisola, dove la lingua d’asfalto corre lasciando a destra le spiagge sul Baltico, affiancata sulla sinistra da boschi di abeti e faggi che si estendono fino alla laguna dei Curi.
Jan inchioda e mette la retro, allontanandosi fino a una distanza di sicurezza. Ci hanno visto ma non hanno reagito, non si sono scomposti. È questa la strategia che hanno programmato: ora spetta a noi decidere cosa fare. Da lontano osserviamo i sacchi di sabbia, impilati a ostruire la strada, dal mare fino al bosco. Solo una fenditura al centro, da cui spunta il tubo traforato di una mitragliatrice.
«Sapevo che Kamila era brava con le sculture, ma deve essersi superata per essersi aggiudicata una GPMG» dice Jan sempre nervoso.
«Che figli di puttana!». Judita mi passa il binocolo. Kestutis sta legando due prigionieri davanti alla trincea: «Ma come si fa a usare civili come scudi umani?»
«Loro sono i cattivi, loro possono, noi no!» taglio corto.
«Se a questo aggiungi l’influsso malvagio della collina di Raganų Kalnasuna…» Jan rincara la dose. «È un luogo da brividi quello, popolato da streghe e demoni, non solo dalle statue che li rappresentano».
«Uno di noi potrebbe raggiungere la collina dalla laguna e prenderli alle spalle, senza farsi vedere». Judita è preoccupata; non vuole mettere a repentaglio la vita dei due ostaggi.
«Ma sai che l’oblast' di Kaliningrad è solo a qualche centinaio di metri? Quello è confine russo; se sconfiniamo, di questi tempi rischiamo di dare a Putin l’occasione per invadere anche noi.»
«E sicuramente avranno lasciato Kornelija a proteggergli le spalle. Da qui non si è ancora vista» aggiungo allontanandomi verso il mare.
Devo riflettere, da solo, la tensione mi impedisce di essere lucido.
Le onde, quasi impercettibili, si infrangono a fatica sui ciottoli della riva. Ci venivo da bambino qui, sulla spiaggia di Lida e la močiutė, la nonna, mi raccontava la leggenda di Jūratė, la dea che viveva nelle profondità del mare, in uno splendido castello d'ambra. Un giorno, un giovane pescatore cercava di catturare un enorme pesce e Jūratė si vide costretta ad andare di persona a fermarlo. Fu così che i due si innamorarono a prima vista l'uno dell'altra. Ma Kunas, dio del tuono, non sopportava l'idea che una dea si innamorasse di un mortale e, incollerito, decise di scagliare una tempesta di fulmini sul castello d'ambra, che esplose in mille pezzi.
Mi siedo. Rifletto. Jūratė è buona, come noi, i Tre-J, Kunas malvagio come loro, i Tre-K… ma forse è solo un caso.
Lancio qualche sasso nelle acque scure. Alcuni riesco a farli saltare. Ancora uno poi torno da Jan e Judita. Lo cerco tra gli altri: è l’ultimo, deve essere speciale.
Un sassolino arancione spicca tra gli altri sulla sabbia grigia; è grosso come una noce, è liscio, levigato dal mare e dal vento. Lo raccolgo e lo sollevo verso il cielo: venature marroni compaiono in trasparenza. È ambra, ed è lì che mi viene l’idea.
«Se avessi un fucile di precisione non te lo permetterei», Jan è molto scettico, ma sono ore che ne discutiamo. Eppure gli ho fatto vedere come sono bravo. Cinque colpi, da quasi 200 metri: non ne ho sbagliato uno.
«Dai, potrebbe non essere un’idea malvagia, lasciamolo provare. Se ci avviciniamo sparando all’impazzata quei due poveretti non saranno altro che carne da macello.»
Judita mi si avvicina, prende il vasetto con la crema mimetica e me lo spalma sul viso, sulle braccia, sulle mani. È sexy, stretta in quella maglietta verde militare che le lascia scoperto l’ombelico.
Osservo col binocolo Kamila alla mitragliatrice, la sua mitragliatrice: è l’unica che la può usare, è a lei che è stata assegnata, non può prestarla ai suoi compagni.
«Avvicinati seguendo il bosco. Quando il sole è basso, alle tue spalle, faranno fatica a inquadrarti: quello è il momento giusto.»
E così faccio. A 150 metri, attendo appiattito dietro un tronco. Stringo stretta la fionda, infilo l’altra mano in tasca e prendo la noce d’ambra. Mi volto cercando il sostegno dei miei compagni in lontananza, ma il sole mi abbaglia e non riesco a distinguerli. È ora, è il momento! Corro al centro della strada, tendo l’elastico con tutta la forza: il bracciolo della fionda appoggia sull’avambraccio dandomi una sensazione di solidità e precisione. Poi il colpo parte, silenzioso, preciso; colpisce Kamila in fronte, tra le sopracciglia.
E la testa esplode, come fosse un fuoco d’artificio.
Poi tutto si ferma.
PAUSE – LEVEL ONE
Levo il visore e lo appoggio sul bracciolo della poltrona su cui sono stravaccato. Ci sono affezionato e ci sto comodo, ma a guardarla bene fa abbastanza schifo. Il velluto è liso qua e là: le coste, dove ancora ci sono, sono appiattite e lucide. Il cuscino ha preso la forma del mio culo, la seduta è mezza sfondata. C’è anche un buco bruciacchiato di una sigaretta.
Solo allora mi rendo conto di quanto fumo ci sia in quel salotto.
Aksel ci guarda, uno a uno: «Ragazzi, non ho voluto interrompere il gioco, ma dovrei dare una penalità a tutti per quanto avete fumato.»
«Non io», dice Judita con aria innocente.
La vedo, bruttina e grassottella, com’è veramente e ridacchio tra me pensando che qualche minuto prima ci stavo facendo un pensierino.
Le immagini dei visori sono ancora duplicate sullo schermo 4K da 85”, tre a sinistra le Tre-J e tre a destra, le Tre-K. È su quel megaschermo che Aksel può tenere sotto controllo lo svolgimento della partita, le azioni di ogni giocatore, e intervenire se qualcuno cerca di aggirare le regole.
«Ma come cazzo hai fatto a farmi saltare la testa con una fottutissima fionda?» mi dice Kamila gettando stizzita il joystick sul tappeto, liso da far concorrenza alla mia poltrona. «Secondo me c’è un baco nel programma».
«Beh, poi ci lavoriamo su, forse qualche baco c’è davvero», interviene Kornelija. «Ero ferma a Raganų e non riuscivo più a fare niente, anche se non avrei potuto far molto per cambiare il finale».
«Dopotutto è ancora una versione beta… già tanto che abbia funzionato senza troppi inghippi. Non sono stato neanche troppo impegnato, a parte nella scelta delle armi da dare a ciascuno. Dopotutto non si dice che l’arbitro migliore sia quello di cui non si nota la presenza in campo?»
Poi Aksel mi guarda sornione: «Quando ti ho dato la fionda ho pensato me l’avresti ficcata su per il culo, e invece… è stata l’arma vincente».
«Sono stato tentato… sono stato tentato.»
«Qualcosa da rivedere c’è, però. Non mi è andato giù che i “K” potessero commettere ogni genere di nefandezza e noi dovessimo chiedere per piacere per recuperare un’auto» aggiunge Judita stizzita. Poi, sghignazzando verso Jan: «A proposito, ricordati di chiamare quello sfigato a cui hai sequestrato la Skoda».
Jan attraversa la sala, per aprire la finestra e togliere l’odore di aria viziata e di fumo. Il sole è tramontato da qualche minuto, ma si intravede ancora l’ombra del capannone al di là del prato.
Lo raggiungo a respirare un po’ di fresco. Mi coglie una sensazione di malinconia nel vedere tutto chiuso e spento. Ci sono centinaia di elaboratori là dentro, pronti a macinare trilioni di algoritmi, basta attaccargli la corrente. Da quando è iniziata la guerra, con il prezzo dell’energia alle stelle e dei bitcoin in caduta libera, fare i minatori di criptovalute non rende più. Fortuna ci siamo riciclati a creare videogiochi; sui computer ci sappiamo smanettare bene tutti dopotutto.
Mi volto verso gli altri, stravaccati per terra e sul divano.
«Quanto abbiamo giocato? Un’oretta?»
«Un po' di meno mi sa. Nel mondo virtuale il tempo è come nella Play: una partita di 90 minuti la giochi in 6 minuti per tempo.»
Mi avvicino al mobile bar; ci frugo dentro ed estraggo una vodka, forse l’unica cosa interessante che i russi ci abbiano lasciato.
«Rivincita o accendiamo il camino e ci prendiamo una sbronza?»