«Fate con comodo, amici. Lasciate che lo spirito di questa terra possente vi tocchi come tocca la mia gente»
Il serpente arcobaleno. Canberra 1988
Oodgeroo Noonuccal
Ciao, Amber.
Spero che la mia lettera ti sorprenda ma non ti infastidisca. Per molto tempo ho provato a mettermi in contatto con te. Anche dopo la morte di tuo padre ho cercato di farlo, ma le sue disposizioni erano così severe che non sapevo neanche il vostro nuovo indirizzo.
Solo questa mattina, per puro caso, ho scoperto dove alloggi e che studi legge. Un tuo compagno di università, sentendo il tuo cognome, mi ha chiesto se fossimo parenti.
Ho esitato a rispondere, perché so che sei mia nipote ma, di certo, non posso dire di conoscerti. Questo semplice episodio mi ha così colpito che ho deciso di prendere in mano la situazione e scriverti.
Ciò che voglio fare è raccontarti la storia di come il destino, e la mia testardaggine, mi abbiano spinto a intraprendere una strada solitaria così tortuosa e dolorosa. Di certo ti avranno parlato di me definendomi un ingrato o addirittura un traditore; ora è giunto il momento che tu conosca la realtà.
Tutto ebbe inizio quando, come te, stavo studiando legge.
Quella mattina del lontano 1934 avevo deciso di mettermi a studiare in salotto, perché nello studio faceva un caldo infernale. Per prima cosa posai il libro di diritto civile sul tavolino basso da caffè, poi presi il mio blocco degli appunti e mi sedetti sul divano. Sprofondai immediatamente tra i cuscini. Non era una posizione comoda, quindi decisi di sedermi sul tappeto di fronte al tavolino. Se mi avesse visto tua nonna sarebbe andata su tutte le furie, ma almeno avevo la schiena dritta.
Avevo appena aperto il libro quando la porta che dava sul corridoio si spalancò, e apparve una donna delle pulizie molto giovane e dall’aspetto fiero e gioviale. Aveva in mano un piumino e scivolava un po’ ricurva su due panni per non rovinare il pavimento, per cui avanzava molto lentamente. Mi girai a osservarla nel suo interminabile procedere; aveva i capelli corvini corti e ribelli e cantilenava in una lingua che non avevo udito mai. I domestici aborigeni spesso parlavano nei loro idiomi anche se il nonno lo aveva vietato categoricamente. Tutti in casa avevano paura di lui; invece lei sembrava divertirsi molto a infrangere quel divieto. La osservai rapito per un minuto o due finché non arrivò e mi vide seduto tra il divano e il tavolino; ebbe un sussulto, poi si portò la mano alla bocca per soffocare un’esclamazione, o forse per ricacciare indietro il canto che stava eseguendo, affrettò per quanto le fu possibile il passo e scomparve attraverso la porta che dava sulla sala da pranzo.
Per diversi minuti non riuscii a pensare ad altro che a quell’apparizione. La ragazza e la sua voce avevano smosso dentro di me qualcosa di misterioso che mi avrebbe cambiato per sempre la vita.
Incuriosito, nei giorni successivi, non feci altro che trovarmi dove lei era impegnata. Se era in cucina a sbucciare patate, facevo una pausa dallo studio e andavo a fare uno spuntino. Nel caso in cui rifacesse i letti, mi attardavo nella scelta dei vestiti. Quando passava per il giardino, diretta in lavanderia, le sbarravo la strada riempiendola di domande. Rispondeva sempre con cortesia ma senza mai sbilanciarsi. Fu solo quando le chiesi cosa stesse cantando quel giorno in salotto che il suo viso si distese e il suo sguardo si illuminò.
Aveva capito che non l’avrei sgridata, quindi mi disse la verità: stava portando a memoria un racconto che le era stato affidato dalla nonna prima di morire.
Ed è così che venni a conoscenza dell’esistenza dei racconti del Dreamtime. È un insieme di racconti e leggende che si tramandano oralmente di generazione in generazione. Narrano di esseri ancestrali dalla forma di animali che in tempi remoti vissero sulla terra; per esempio il Serpente Arcobaleno, che risalendo dalla terra ha modellato il paesaggio creando montagne e corsi d’acqua.
Quel mondo fantastico mi incuriosì a tal punto che non la smettevo mai di chiederle nuove storie. Era felice di narrarmele, ma dopo qualche mese i racconti terminarono. Ne aveva menzionati molti altri, ma alcuni non li conosceva neanche lei perché erano tramandati solo da uomo a uomo, mentre altri non poteva rivelarmeli perché solo le donne li potevano apprendere. Addirittura nei casi più estremi c’erano anche leggende che ogni singola tribù manteneva segrete alle altre.
Esaurite dunque le storie, i nostri incontri si fecero più seri. Kath era fiera di parlarmi delle tradizioni aborigene: mi insegnò qualche parola nella sua lingua, provò a spiegarmi il loro credo, e soprattutto ci teneva a porre l’attenzione sulle condizioni in cui il suo popolo era costretto a vivere.
Ciò che sapevo degli aborigeni lo avevo scoperto all’università, ma in quel caso venivano sempre descritti come un patrimonio da difendere, senza il diritto di essere considerati persone. Per lo stato, erano oggetti che a volte ritenevano anche parecchio ingombranti.
Kath invece mi descrisse un mondo variegato e magnetico. Le tribù erano molte e con forti identità, legate indissolubilmente alla terra che consideravano sacra; la stessa terra che per secoli si erano visti strappare via. Nonostante tutte le angherie subite, lei non parlava mai della sua gente o delle sue tradizioni con malinconia, ma con gioia e voglia di vivere. Si rammaricava solo quando ricordava che alcuni racconti del Dreamtime erano andati perduti perché i loro custodi si erano lasciati traviare dagli uomini bianchi, dimenticandosi di tramandare i racconti a loro affidati.
Secondo la mia famiglia, che aveva già deciso il nostro destino, io dovevo diventare avvocato e tuo padre architetto: non avremmo mai potuto scegliere qualcosa di diverso. Per quello continuai i miei studi, ma dopo l’incontro con Kath il mio interesse si era spostato verso i diritti civili dei nativi australiani: questo creò la prima frattura con la famiglia.
I miei genitori erano sicuri che nel 1941, dopo l’ingresso di Kath nell’Australian Women’s Army, sarei tornato sulla strada segnata.
Ma i racconti del Dreamtime e la questione degli aborigeni erano entrati così tanto in me che, contravvenendo a ogni desiderio della famiglia, divenni uno degli avvocati più agguerriti a battersi per l’abolizione dell’Assimilation Policy che strappava i bambini che avevano almeno uno dei genitori aborigeni dalle loro famiglie ponendoli sotto la tutela dello stato.
Per più di vent’anni ho lavorato a fianco delle tribù per assicurare loro il rispetto che meritavano. Assumevo il ruolo di arbitro nelle loro controversie con lo Stato, ma anche in dispute tra nativi stessi; non solo perché era vantaggioso in senso economico, ma anche perché, con il tempo, avevo acquisito una certa autorevolezza tra loro. Ma ogni volta che vedevo le lacrime di un bambino costretto ad abbandonare la sua famiglia per essere educato alla maniera dei bianchi, il mio cuore si lacerava e la mia coscienza si strappava in due.
Tuo nonno mi definiva troppo sensibile e senza nervo, ma io continuai la mia missione.
Ho avuto l’onore di essere tra i pochi avvocati che nel 1963 si è battuto per il riconoscimento del voto degli aborigeni.
Se stai studiando come si deve questi eventi dovresti ormai conoscerli bene, perché hanno fatto la storia del nostro paese. Ma personalmente furono anche quelli che mi allontanarono dalla famiglia. Il nonno divenne ancor più intollerante dopo quella legge, licenziò tutti i domestici aborigeni e chiuse definitivamente ogni rapporto con me. Solo oggi credo che molte delle colpe che attribuiva loro fossero più personali che politiche. Vedeva in loro la causa del mio allontanamento dalla sua ala protettiva.
Morì a pochi mesi dal referendum popolare del 1967 senza che io lo abbia più visto. Tuo padre divenne il capo famiglia e sembrò ereditare tutto l’odio che provava il nonno, perciò anche lui tagliò i ponti con me. Per anni era stato il mediatore tra noi, ma in quel momento credeva che non mi fossi impegnato abbastanza per la riconciliazione con mio padre, preferendo gli aborigeni alla famiglia.
Quell’anno fu particolarmente duro sul piano personale, perché ormai mi sentivo da solo nel mondo. Soltanto la vittoria schiacciante del referendum, che riconosceva i pieni diritti ai nativi australiani, riuscì a risollevarmi, tanto che decisi di concedermi una meritata vacanza alla ricerca di me stesso. E quale posto più adatto se non il sacro Uluru?
Il viaggio a tappe mi portò a vagare per una settimana alla scoperta del deserto. Per un cinquantenne come me divenne ben presto faticoso, ma ogni affanno venne ricompensato nel momento esatto in cui gli occhi si posarono su quella roccia rossa. Se non ci sei mai andata ti invito caldamente a visitarla, perché la sua stessa presenza sembra raccontare una storia mistica e misteriosa.
Capii all’istante perché fosse ritenuta divina. Il suo colore che cambia a seconda della luce, la sua superficie ruvida e porosa, le sue voragini inaspettate: ogni dettaglio raccontava una storia diversa, e il senso di sacralità non faceva che aumentare a ogni passo. Le storie che mi erano state raccontate non bastavano a colmare la grandezza di quel posto.
Dopo ore di esplorazioni, sedevo accaldato con le ginocchia strette al petto al riparo dal sole poggiato a una roccia quando apparve una donna anziana dall’aspetto risoluto e fiero. Aveva in mano un lungo bastone da passeggio e camminava un po’ ricurva, stando attenta a non inciampare. Mi girai a osservarla, ma mi dava le spalle, quindi potei vedere bene solo i capelli sale e pepe corti e ribelli. Parlava concitata in una lingua che riconoscevo a stento. Non era sola, perché apparve un uomo ancora più anziano, sicuramente un nativo australiano, che le intimava di fare silenzio scuotendo la testa. Quando lei fu arrivata alla mia altezza, l’anziano la prese per un braccio e le disse qualcosa sottovoce mentre indicava verso di me. La donna ebbe un sussulto, mi guardò, si portò la mano alla bocca per soffocare un’esclamazione, ma questa volta non fuggì via. Non avevo riconosciuto Kath, ma lei aveva riconosciuto me all’istante.
Come era successo molti anni prima, non mi considerò subito; anzi, riprese a parlare concitata. Dopo qualche minuto, quando l’uomo se ne fu andato, lei sembrava sfinita e sconsolata. Fu allora che si mise a sedere al mio fianco, e la sua presenza mi spinse a parlare nonostante il caldo avesse spossato entrambi.
Restammo a raccontarci le nostre vite per quasi due ore, poi mi invitò in una tenda che aveva allestito non lontana da Uluru.
L’idea di immergermi totalmente nella cultura di quei luoghi era la degna conclusione di un viaggio che aveva come unico scopo il connettersi con la parte più ancestrale di qui luoghi e per un attimo dimenticare il mio mondo fatto di leggi e regole. Questo era quello che credevo, ma non sapevo che Kath avesse in serbo per me un altro destino.
Mi aveva invitato a rimanere con lei solo perché mi voleva come arbitro in una disputa con l’anziano capo tribù.
Mai avrei pensato che la contesa potesse essere di quella natura. Dopo anni passati come attivista per i diritti civili degli aborigeni, Kath era diventata feroce e inarrestabile. Pur non usando mai un tono cupo, insisteva sulla vitalità delle voci aborigene e sulla natura politica del linguaggio poetico. Per questo era diventata anche poetessa e scrittrice portando sul foglio la sua identità aborigena e il profondo legame con la natura. Infatti la sua disputa era prettamente letteraria.
Si era messa in testa di raccogliere tutti i racconti del Dreamtime e farne una raccolta fonte d’ispirazione positiva e che guardasse a un futuro ricco di promesse. I custodi dei racconti erano stati per lo più favorevoli al suo progetto e il libro era a buon punto ma il capotribù Mutitjulu si era rifiutato categoricamente di tramandare a una donna un racconto su Baiame.
Devi sapere che questo eroe leggendario, sceso dal cielo per aiutare l’umanità, è spesso paragonato a Gesù, quindi per lei era fondamentale scoprire ogni storia che lo riguardasse per avvicinare con il suo libro i bianchi agli aborigeni.
Anche se ero in vacanza, l’idea di aiutarla era per me elettrizzante: quindi acconsentii all’istante. Mentre ragionavo su una sentenza che accontentasse entrambi, lei inaspettatamente non trovò nessuna reticenza da parte dell’anziano. L’unica sua richiesta era che la discussione si svolgesse in una capanna rituale fatta di bastoni e ricoperta di foglie di melaleuca.
Quel luogo atto alla conversazione emanava un odore inebriante, e le foglie accatastate come soffici sofà erano così comode che ero sul punto di chiedere se, dopo aver lavorato, potessi riposare lì. Ma nessuno sembrava in vena di scherzi: l’uomo mi teneva gli occhi puntati addosso mentre Kath aveva già iniziato la sua arringa con voce alta e graffiata.
Ero sul punto di interromperla, quando l’anziano si avvicinò piano al mio orecchio e iniziò a parlare.
Non riconobbi quella lingua, ma il ritmo e la melodia di quella voce mi fecero riempire gli occhi di lacrime. Le parole mi entrarono dentro e presto iniziai a vedere delle immagini nella mente. Uomini con braccia lunghissime scendere dal cielo, foreste che germogliano al passaggio di giovani fanciulle, scaglie iridescenti smuovere la terra… Poi un calore mi pervase le membra fino a farmi cedere.
Quando rinvenni, Kath era sopra di me e mi osservava con occhi indagatori. L’anziano era andato via e lei sembrava contrariata. Disse che l’uomo mi aveva raccontato la storia perché ero un maschio, ma sopratutto per il bagliore di onestà che aveva intravisto nei miei occhi. Ovviamente non sarei mai stato in grado di ricostruire la storia: tentai di descrivere le sensazioni che avevo provato in quel momento, ma anche quello mi sembrava impossibile. Non credetti neanche per un istante che potesse essere successo qualcosa di magico: sicuramente il caldo e la stanchezza avevano preso il sopravvento, ma questo non modificava in alcun modo l’intensità di quel momento.
Kath rimase in silenzio per molto tempo e vidi il suo furore spegnersi fino a sorridermi come non aveva mai fatto.
Ogni sua supposizione era vera: le storie come quelle avevano una potenza emotiva impressionante. Toccavano le corde dell’animo umano, quindi era suo dovere insegnarle in primo luogo ai nativi stessi che le avevano dimenticate. Ogni aborigeno doveva essere in grado di tramandare quelle storie prima di poterle condividere con i bianchi. Solo in seguito, saldi nelle loro origini, si poteva creare un ponte che avvicinasse le persone.
È con questa nuova convinzione che partii per la conferenza mondiale sul razzismo che si tenne nel 69 a Londra.
L’esperienza nella capanna ai piedi di Uluru era stata talmente intensa che decisi di lasciare la professione e seguire quella donna nella sua nuova missione di educatrice. Mi trasferii anche io sulla Stradbroke Island e continuai la mia vita aiutandola con i ragazzi e facendo consulenze per lei.
Mai come in quegli anni mi sentii vivo: stavo facendo qualcosa che in futuro avrebbe portato i suoi frutti. Non sentivo più il peso delle mie origini. Ero ancora addolorato per quello che era successo: provai a contattare tuo padre in un paio di occasioni ma fu tutto inutile. Ero grato alla famiglia per i mezzi che mi aveva dato, ma non mi sentivo più in colpa per averli usati al servizio di qualcun altro.
A oggi non riesco a contare i giovani, nativi e non, che ho incontrato in questi anni. Nei loro occhi spesso ho visto quella scintilla di speranza che vorrei brillasse anche nei tuoi. Non voglio farti la paternale su quanto i diritti civili di tutti debbano essere rispettati: avrai modo di farti il tuo pensiero. Quello che vorrei costruire è un ponte che ci aiuti a congiungere le nostre vite e provare a ripartire da quello per ritrovare le nostre origini condivise.
Per agevolare questo processo ti ho inviato le tre raccolte di racconti indigeni che Kath ha trascritto in questi anni, nella speranza che facciano risuonare dentro di te quelle emozioni che abbiamo provato noi due quel giorno nella capanna.
Non credere che sia stato l’unico a cambiare dopo quella esperienza; il mutamento maggiore è avvenuto in Kath: una parte di lei è morta quando ha ripreso contatto con le sue origini più ancestrali. Al suo posto, è nata Oodgeroo Noonucaal.
Oodgeroo significa melaleuca: quell’albero indigeno australiano sotto le cui foglie abbiamo visto le nostre anime accendersi. La scelta di quel nome è significativa anche perché la corteccia della melaleuca viene utilizzata dagli aborigeni sia per la pittura sia per la scrittura; questa decisione testimonia quindi non solo l’amore per la sua terra, ma anche il ruolo di scriba che ha scelto di assumere per il suo popolo.
Anche a me è balenato di cambiare nome, ma non vorrei mai appropriarmi della cultura di qualcun altro; piuttosto vorrei che il nome che portiamo entrambi si fortifichi, e con esso la nostra conoscenza.
Resterò in attesa di tue notizie finché avrò fiato.
Con affetto, Zio Timothy.
24 Novembre 1988,
Dunwich,
Stradbroke Island.