Era seduto sulla vecchia poltrona del nonno. Non c’entrava niente con il resto dell’ arredamento, come lui non centrava nulla con il resto della famiglia, ma entrambi continuavano a rimanere lì, indifferenti al tempo che passava.
L’imbrunire aveva invaso il salotto riscaldato solo dal fuoco del camino di pietra rivestito di mattoncini rossi. Una trave lo attraversava carica di oggetti che sua madre spolverava ogni santo giorno. Erano cose di poco valore: alcune orribili bomboniere di parenti ormai dimenticati, piccole cornici in finto argento, e una statuetta in plastica della Madonna di Lourdes.
I ricordi si susseguivano in quel silenzio senza tempo, sfumando come il fumo della sua sigaretta.
Avrà avuto all’incirca undici anni, Paolo e Stefano, i suoi fratelli gemelli di otto, stavano giocando con il pallone proprio al centro della stanza, contravvenendo alla prima regola della casa. Iniziarono a litigare furiosamente, lui cercò di intervenire, fare l’arbitro in quella famiglia era compito suo.
La statuetta raffigurante un cigno che cambiava colore a seconda del tempo ne pagò le conseguenze.
Ricordava il silenzio seguito allo schianto.
Il padre entrò in quel momento.
Il rumore degli stivali da lavoro, il passo stanco, nessuna espressione sul viso.
Senza dire una parola si sfilò con calma la cintura dai passanti, la avvolse per un paio di giri sulla mano destra e fece quello che reputava necessario.
Lui fu il primo, era il più grande, aveva la responsabilità degli altri due, come sempre.
Si chiamava Roberto, ma tutti lo chiamavano Robertone, un bambino in un corpo d’uomo.
Era scappato appena maggiorenne, un amico lo aveva convinto.
"Andiamo in Australia”, aveva detto, “diventeremo ricchi”.
Non aveva nulla da perdere, la periferia di Milano non offriva molto. Aveva risparmiato fino all’ultimo centesimo, fatto due anche tre lavori, spesso al di là della legalità.
Dopo tre mesi, preparò la valigia, uscì di casa senza salutare e partì.
L’Australia si riveló subito un paese difficile. Si ritrovò ben presto di nuovo ai margini della società. Rimanere impigliato nella rete della criminalità organizzata fu naturale. Prima buttafuori in discoteca, poi addetto alla riscossione crediti. Bastava la sua presenza per far desistere le persone, anche se lui le mani non le usava mai, ma questo gli altri non lo sapevano.
Un sabato sera lo chiamarono:
“Stasera alle undici ti aspettano al ponte 14.”
Non gli piacevano le sorprese.
“Perche?”
“Ti spiegherà tutto Tony. Niente cazzate”.
Non aveva scelta lo sapeva.
Arrivò in orario. Una folla, per lo più ubriaca, gridava disposta in cerchio.
“Ciao Big, muoviti ti aspettano sul ring”.
“Non muovo le mani” disse stringendo i pugni. Non gli era mai piaciuto battersi.
“Non sei tu idiota a dover combattere. Tu devi fare l’arbitro”
“Non so le regole”.
L’altro rise.
“Non ci sono regole, chi muore perde, tu devi solo fare in modo che questi ubriaconi non salgano sul ring”. Gli diede una pacca sulla spalla e se ne andò.
Gli riuscì bene.
Da allora divenne Big Ref.
Dopo tre anni in Australia, aveva trovato il suo ritmo. Masticava poco l’inglese, non gli servivano poi molte parole per esprimersi. Di notte lavorava, durante il giorno gironzolava per Sidney, incurante degli sguardi che attirava. Era abituato fin da piccolo ad essere osservato con timore. Quasi due metri di muscoli, un'ombra scura che svettava sugli altri. Camminava con una mano in tasca e una sigaretta perennemente accesa nell’altra. Aspirava avido, risucchiando le guance, poi rigettava il fumo lentamente storcendo la bocca verso destra e ricominciava.
Fu durante una di quelle passeggiate che la vide. Stava dipingendo sulla vetrina di un calzolaio un’enorme scarpa femminile rossa con un tacco vertiginoso, appoggiata su un mocassino da uomo.
Portava una tunica azzurra che riempiva con le sue forme abbondanti. I capelli castani sistemati in una crocchia disordinata che metteva in risalto le orecchie ornate da tanti piccoli cerchi argentati.
Le mani dipingevano veloci. C’era una grazia in ogni suo movimento che lo obbligò a fermarsi.
Era troppo concentrata sul suo lavoro per accorgersi di lui. Notò un neo sotto l’occhio e una leggera peluria chiara sul contorno del viso. La bocca era la più bella che avesse mai visto, morbida scura e ben disegnata. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
“Gradirei una bibita fresca” glielo chiese sorridendo, senza nemmeno voltarsi, con la voce da fumatrice, roca, profonda, graffiata.
Beccato.
Gliela offrì e dopo quella ne seguirono molte altre.
Si era innamorato di lei, perso nei piccoli dettagli che la rendevano unica: la sua bocca, la sua voce, le sue mani, la risata profonda, il suo gesticolare continuo, i movimenti aggraziati che parlavano un linguaggio loro.
Amava rimanere a letto con lei, fare l’amore senza fretta, senza ansie, senza pudore. Lei gli aveva insegnato, gli aveva spiegato cosa le piaceva e come le piaceva. Aveva scoperto che odiava i preliminari, che le piaceva arrivare subito al dunque, che le piaceva prenderlo in bocca, che non aveva inibizioni di nessun genere.
Si perdeva in quel corpo accogliente finalmente in pace.
Quando non ne potevano più di stare a letto, la prendeva in braccio e la portava in bagno, l’aiutava a lavarsi e poi la riprendeva in braccio e la portava in salotto. Lei rideva dicendogli che l’aveva scelto solo per la sua forza, che a sollevare lei ce ne voleva tanta.
Negli ultimi tempi prima di andare a lavorare, le preparava la cena e si assicurava che la sua sedia a rotelle fosse vicina.
Erano stati i due anni più belli della sua vita.
Con lei divenne solo Roberto.
Poi tornò il buio, di nuovo.
L’aggravarsi della malattia, le difficoltà a respirare, non le fecero mai perdere la voglia di vivere.
Abbracciati sul letto, lei gli elencava tutti i posti dove sarebbero andati una volta guarita. Gli passava le mani tra i capelli, lo baciava, sembrava volersi fondere con lui.
Aveva un’ossessione per Il monte Uluru. Gli descriveva la meraviglia dei tramonti immersi nella terra rossa, il profumo dell’aria e la magia di quel luogo.
Se ne andò un giovedì sera, la mano stretta alla sua, gli occhi chiusi, aveva semplicemente smesso di respirare.
Non si presentò al lavoro, per diversi giorni. Nessuno sapeva di lei. Non si vergognava, voleva solo proteggerla da quello schifo di mondo.
Lo chiamarono, gli lasciarono messaggi minatori sul cellulare. Lui non rispose mai.
Fece come le aveva promesso. Prese l'urna, la mise in macchina e iniziò il viaggio. Ci vollero più di quattro giorni per arrivare, si era fermato solo per fare benzina, mangiare bere e pisciare.
Nell’aree di sosta tutti si tenevano alla larga. Aveva gli occhi screziati di rosso per la stanchezza, la barba lunga, i vestiti trasandati, un corpo che non riusciva più a contenere.
Non gli interessava più nulla.
Era l’imbrunire quando si ritrovò sotto quella montagna piatta immerso in quel rosso come sangue cristallizzato. Posizionò il telefono su una roccia, inserì l’autoscatto, prese l’urna e la svuotò urlando tutto il suo dolore. L’ultima foto insieme, lui avvolto dalla polvere di lei.
Rimase lì lo sguardo su quella roccia sacra di cui lei amava raccontare storie e leggende.
Poteva stare ore ad ascoltarla, la sua voce era in grado di trasportarlo in luoghi dove si sentiva finalmente a casa. Non era obbligato a decidere sulla sorte di nessuno, si lasciava cullare dalle parole di lei, libero.
Aveva perso la cognizione del tempo, non sentiva freddo, non sentiva fame, non sentiva sete. Non sentiva più nulla.
Un vecchio aborigeno bussò al suo finestrino.
Lui lo guardò, con la mano gli fece segno di andarsene, non voleva compagnia, neppure quella di un vecchio pazzo che forse era solo frutto della sua immaginazione.
La portiera dell’auto si aprì e lui si ritrovò fuori in piedi. Sovrastava quella figura curva che non mostrava nessun timore nei suoi confronti.
Teneva nella mano destra un bastone e con quello indicava il monolite.
"Uluru" gli disse.
“Vattene vecchio, non voglio nulla.”.
“Non voglio venderti nulla. Voglio aiutarti a ritrovare quello che hai perso”.
“Davvero? Sei in grado di farlo? Sei in grado di resuscitare la mia donna? Davvero vecchio pazzo? Dirai abracadabra e lei tornerà da me?”
Sentiva il cuore pulsare forte, le vene gonfie, i muscoli tesi e doloranti.
“Lei non ritornerà lo sai già, ma il suo spirito vivrà qui, dove voleva stare”.
Il vecchio sparì.
Roberto si sedette nella polvere con la schiena appoggiata alla macchina. Era così stanco, così solo, avrebbe fatto di tutto per riavere qualcosa che lo tenesse legato a lei.
Rivolse di nuovo lo sguardo verso questa montagna che si diceva arrivasse fino al centro del mondo e si alzò. Non era più stanco, vibrava di forza e di emozioni nuove.
Si incamminò verso il sentiero che lei gli aveva descritto così tante volte. La notte era rischiarata dalla luna che rendeva la roccia un’entità surreale.
Camminò per due ore, inciampò, cadde, si rialzò. Roberto rivisse la sua vita, ricordi della sua famiglia, della sua terra, ricordi di lei.
Albeggiava quando si risvegliò seduto con la schiena appoggiata alla macchina. Era esausto. Con la mente invasa dalle immagini di lei, si rimise alla guida e ritornò a casa.
Servirono ventitré giorni per le pratiche e il biglietto, al venticinquesimo rivide Milano dall’alto dell’aereo.
Non aveva avvertito nessuno. Dalla morte di lei non aveva più parlato.
Salì le scale del vecchio palazzo di periferia, i muri ancora più scrostati di quanto ricordasse, scritte oscene sull’inquilina del quinto piano, l’eco di urla e risate ad accompagnare ogni suo passo.
Posò lo zaino sul tappettino consunto che recitava "Welcome". Gli venne da ridere, oltre quella porta nessuno era benvenuto. Si massaggiò le tempie, poi la fronte e la nuca. Era nervoso, erano passati cinque anni da quando si era chiuso quella porta alle spalle.
Suonò il campanello.
Una volta, poi un’altra.
Una voce vecchia e stanca rispose urlando “Sto arrivando, e che cazzo!”.
Suo padre, l’ultimo che avrebbe voluto affrontare, il primo che il destino gli aveva piazzato davanti.
Era invecchiato e lo aveva fatto nel peggiore dei modi. Dimagrito, la pelle flaccida, i capelli solo un lontano ricordo. Rimaneva però lo sguardo, quegli occhi cattivi che tante volte avevano riso di lui.
“Toh guarda chi c’è, il figliol prodigo! Cosa c’è, ti hanno cacciato anche i canguri?” l’ultima parola la intuì tra i colpi di tosse e i rantoli.
“Ciao papà”.
Per tutta risposta l’altro gli aprì la porta e si avviò verso il salotto.
L’appartamento cadeva a pezzi. Il puzzo di fumo, di sudore e di vecchio era insopportabile.
“Mamma c’é?”
“La vecchia è uscita, accomodati pure, fai come fossi a casa tua”. Insistette suo padre accasciandosi sulla poltrona del nonno. Era ancora lì, più lisa di come la ricordava. Lo infastidiva vedere suo padre invaderla, ma fece finta di niente.
Non sembrava se la passassero troppo bene. Dall’odore di alcool scadente che impregnava il salotto, suo padre non aveva perso il vizio.
La porta d’ingresso si chiuse accompagnata da lamenti e improperi.
“Vecchio ubriacone, alza il culo da quella sedia e vieni ad aiutarmi”. Anche la voce di sua madre era stanca, non era cambiato niente in tutti quegli anni.
“Ciao mamma”.
Negli occhi gli parve di scorgere un lampo, subito spento, sembrava molto più vecchia dei suoi cinquantasei anni. I capelli ingrigiti, gli occhi incavati, la bocca truccata che la faceva assomigliare a un triste clown.
“Bene, un’altra bocca da sfamare”.
Evidentemente si era sbagliato, sbagliava sempre con le persone. Tutto questo viaggio, tutti i pensieri fatti, tutto inutile.
“Vecchia, non rompere, due paia di braccia robuste ci servono in casa. E ci servono soldi. Hai già sentito i tuoi vecchi amici?”
“Non voglio gentaglia in casa! Mi basti tu, maledetta quella volta che ti ho sposato”.
La discussione si animò, volarono bestemmie, insulti.
Sua padre lanciò il posacenere stracolmo di cicche contro la parete.
“Tua madre dice a tutti che sei diventato un signore, che fai bei viaggi, idiota. Uno senza cervello come te non potrà mai diventare qualcuno.”
“Almeno lui ogni tanto mi manda dei soldi. Mica se li beve tutti come te!”
“Mi farai fare la bella vita vero figliolo?” Si rivolse a lui con occhi supplichevoli e falsi.
Sua madre non era meglio di suo padre.
Le urla aumentarono. La vista gli si annebbiò, sentiva la testa martellare così forte che credette di impazzire.
“Basta!!!” Urlò ancora più forte lui.
Teneva gli occhi serrati.
Nella mente volti che ridevano di lui.
Suo padre.
Sua madre.
I suoi fratelli.
Tony.
Doveva farli smettere, riportare l’ordine.
Ritornò arbitro, e ristabilì l’ordine. Big Ref era tornato.
Fu un attimo, poi arrivò il silenzio.
Pace.
Le fiamme del camino non riuscivano a riscaldare il salotto, la luce giallastra che emanavano non aveva nulla di romantico.
Guardò il tappeto, sembrava che dormissero. Li aveva messi lui così, vicini, la mano della madre in quella del padre. Nessuna discussione.
Nella testa risuonavano ancora le urla di suo padre, i singhiozzi della madre alternati a insulti, bicchieri che si frantumavano, ante che sbattevano. Tutto quel rumore si era insinuato nel suo cervello, in una cacofonia scomposta. Era bastato così poco per far tornare il silenzio.
Pace.
Si guardò le mani, gli piacevano erano mani forti e curate. Avrebbe potuto fare tante cose belle con quelle mani. A scuola gli piaceva modellare la creta. La sua insegnante, la signora Ritterio, era entusiasta delle sue creazioni. Per la festa della mamma aveva fatto un vaso. Lo aveva riposto in una scatola, aveva perfino rubato un nastro rosso nel negozio del signor Marchi. Ricordava l’emozione mentre tornava a casa con quel pacco in cui aveva messo tutto se stesso.
Quando suo padre lo vide rise. “Ci manca solo che mi diventi finocchio”. Sua madre rimase in silenzio.
Aveva ancora la creta sotto le unghie, le dita screpolate, sentiva il cigolio del tornio, la materia che prendeva vita. Sarebbe stato benissimo sulla mensola del camino, o sul comò della nonna in salotto. Invece non lo rivide più. Non chiese. Preferiva non sapere.
Aveva tredici anni non tornò più nemmeno a scuola.
Si risedette sulla poltrona e lì rimase per molto tempo.
Guardò le foto sul cellulare. Si fermo sull’ultima, lo ritraeva davanti al monte Uluru. Il rosso del monolite, il deserto intorno e lui. Anche allora era l’imbrunire, il suo viso era ombra come il suo corpo. Un’ombra che non apparteneva più al mondo di luce.
Per la prima volta pianse, lo fece per lei, per lui bambino, per lui adulto.
Andò in cucina, prese il coltello. Si posizionò sul lavandino. Aveva affrontato tutto quel viaggio sperando di poter ricominciare.
Non serviva allontanarsi fisicamente, lei continuava a mancargli e i ricordi lo perseguitavano ovunque.
Sfiorò il polso sinistro con la lama che tracciava il percorso. Lo fece una volta, due, tre. Senza ferirsi.
Avrebbe voluto portarla in Italia, farle conoscere Milano.
Di nuovo la lama sul suo polso, dall’alto verso il basso, e poi dal basso verso l’alto.
Lei lo chiamava, se strizzava gli occhi la vedeva avvicinarsi. Ritornò in salotto sulla vecchia poltrona del nonno.
Il coltello nella mano destra, una bottiglia di liquore scadente nella sinistra.
Ne beve un sorso, la nausea lo assalì, aveva l’odore di suo padre.
Lo guardò di nuovo, steso a terra inerme.
Non voleva andare in carcere.
Non sarebbe sopravvissuto.
Guardò il coltello con cui aveva giocato. Guardò i polsi.
Non poteva sbagliare, non poteva permetterselo.
Iniziò a sudare, il cervello non più in grado di sorreggerlo.
Quel corpo enorme per la prima volta lo ingombrava.
Immagini invasero di nuovo il suo cervello, voci lo chiamavano, lo schernivano. La voce di lei era sempre più lontana.
Si alzò, andò a sbattere contro le pareti del salotto, tutto si restringeva.
Soffocava.
Con le braccia tese in avanti cercò spazio, inciampò nei cadaveri dei genitori. Si attaccò alla trave del camino, le bomboniere caddero una a una. La bottiglietta della Madonna di Lourdes si rovesciò bagnandolo.
Aprì la finestra in cerca di aria.
Respirò.
Lei lo chiamò.
“Roberto”.
Lui sorrise.
“Roberto, vieni”.
Lei gli porse le mani. Aveva mani gentili.
Lui le afferrò salde.
Aveva mani grandi.