L’uomo col panama bianco percorse per intero il corridoio e si accomodò nell’ultimo posto sulla destra. Non c’era nessun altro lì, fatta eccezione per un signore in abito scuro, seduto sempre nel fondo del vagone, sull’altro lato.
La carrozza era sporca e puzzava di fumo e alcool.
Il tizio col cappello lo fissò, poi guardò fuori dal finestrino. Il convoglio sferragliava paurosamente a svariati metri d’altezza, i tralicci del ponte che vibravano senza sosta, unici baluardi tra loro, il burrone e la morte.
All’esterno il vapore emesso dalla locomotiva si addensò in morbidi pennacchi, sbuffi biancastri che andarono a confondersi con le nuvole.
L’uomo col vestito scuro si accese una sigaretta e ruppe il silenzio.
«Mi fa piacere che abbia accettato il mio invito, capitano.»
«Potevo forse rifiutare, dottore?» Un sorriso gelido gli increspò le labbra sottili. «Il telegramma parlava di cose importanti di cui discutere. Vedo che hai preso a fumare.»
Il dottore sorrise e scrollò la cenere per terra. «Quando non si ha nulla d’interessante da fare, bisogna ingegnarsi per ingannare il tempo.» Fece un gesto con le mani e indicò il finestrino. «La Cordigliera delle Ande! Che spettacolo imponente.»
Il capitano annuì, perplesso. «Già, gran bello spettacolo, anche se io preferisco le Alpi.» Si guardò attorno con sospetto, come se qualcuno potesse sgusciare fuori da un sedile da un momento all’altro e mettergli un paio di manette ai polsi. «Ti stanno bene i baffi.»
«Anche a te, Erich.»
Il capitano sgranò gli occhi e si portò l’indice alla bocca.
«Tranquillo, di che hai paura? Nessuno sa che siamo fuggiti in Sud America.»
Erich non riuscì a nascondere un gesto d’insofferenza. «Ho fatto più di duemila chilometri per raggiungerti. Cosa devi dirmi di tanto importante?» Si sentiva a disagio: quell’uomo, il suo viso, la sua espressione, avevano il potere di renderlo inquieto.
«Rilassati Erich, c’è tempo. Il tragitto è lungo. Goditi il panorama.»
L’uomo si alzò e andò a sedersi vicino al capitano. «Guarda, ti sembra di toccare il cielo, di poter ancora dominare il mondo. Questo viaggio dà una sensazione di potenza indescrivibile.»
Erich guardò fuori, poi gli occhi del dottore: brillavano di una sorta di lucida follia.
All’improvviso il dottore scoppiò a ridere e tornò ad accomodarsi al vecchio posto.
«Ascolta questa storiella, Erich, è davvero spassosa. Allora, una signora è incinta e si reca in ospedale per partorire. Inizia il travaglio, spinge ed esce il bambino. Il dottore gli dà uno schiaffo sul culetto e il bimbo si mette a piangere. La donna però non ha ancora finito: urla, spinge e dopo un po' esce fuori un altro neonato. Il dottore lo prende, gli dà il solito schiaffetto e anche quello comincia a piangere. La donna però sta ancora male, sbuffa, spinge, ma non riesce più a liberarsi. Viene portata in una stanza per accertamenti e una volta che viene lasciata da sola il terzo gemello esce fuori, dà un’occhiata in giro e dice: mamma, se n’è andato il mostro che ha preso a schiaffi i miei fratelli?»
Il dottore rise ancora ed Erich si unì a lui. Sì, la storiella era divertente, pensò il capitano. Le cose che invece amava fare lo erano un po' meno.
«Sei ancora ossessionato dai gemelli?»
Il dottore accese un’altra sigaretta e fece un gesto che Erich non riuscì a interpretare.
«Vado a pisciare, Josef. Quando torno mi dici cos’è che ti passa per la testa.»
A San Carlos de Bariloche si trovava bene. Cominciare una nuova vita in una città sconosciuta ai piedi delle Ande, all’inizio gli era sembrato piuttosto complicato. Sì, c’era stato il problema della lingua e anche reinventarsi in una nuova occupazione alla soglia dei quarant’anni non era risultato affatto semplice. Eppure, col passare delle settimane e dei mesi, era riuscito a trovare una propria dimensione. Gestire un piccolo negozio di alimentari non era lo stesso che comandare una compagnia di soldati, ma se la vita gli aveva insegnato una cosa era che l’essere umano possedeva grandi capacità di resistenza e adattamento.
Così si era creato la sua piccola routine: sveglia alle cinque, doccia, colazione con caffè e toast al prosciutto, pedalata di tre chilometri sino alla bottega, contrattazione coi fornitori, accoglienza e servizio clienti sino alle sei della sera. Non che si fosse fatto degli amici, non proprio, però era entrato abbastanza in confidenza con gli avventori abituali come la signora Diaz e Patricio, l’anziano custode del campetto da calcio del quartiere.
Quando la sera rientrava a casa per cena, accolto dalla moglie Alicia, si sedeva a tavola e parlava della sua giornata di lavoro. Raccontava di quanto il prezzo di uova e formaggi fosse aumentato, degli sfoghi della signora Diaz circa l’alcolismo del marito, oppure delle invettive del vecchio Patricio contro l’operato di Peron.
La maggior parte delle volte tutto procedeva serenamente e la serata si concludeva con una birra e l’ascolto della radio, oppure in camera con Alicia a fare l’amore, finché non cadeva stremato in uno stato semi letargico. In quelle occasioni Erich aveva l’illusione di essere riuscito a mettere a tacere per sempre il passato, di averlo cancellato con una passata di straccio. Talvolta invece una strana malinconia, un misto di rimpianto e rimorso, s’impadroniva di lui. In quelle sere “particolari” non scambiava neppure una parola con Alicia, non mangiava neanche e si andava a rifugiare in cantina, affamato di ricordi e solitudine.
Erich bevve mezzo bicchiere di vino, poi scostò il piatto con le costolette d’agnello.
«Che c’è? Non stai bene?» chiese Alicia.
«È solo che non ho fame» rispose Erich, abbandonando il tovagliolo sulla tavola. Poi si alzò e scese le scale che portavano in cantina, seguito dai mugugni della moglie. Chiuse la porta a chiave e s’incamminò verso l’armadietto che occupava la parete in fondo. Si piegò sulle ginocchia e lo spostò in avanti, liberando la nicchia che era stata scavata nel muro.
Prese il baule, lo poggiò a terra e l’aprì.
Cominciò dagli stivali. Vi applicò sopra una punta di lucido nero e iniziò a spalmarlo con l’ausilio di una spazzola dalle setole morbide. Prima lo stivale sinistro, poi quello destro, sempre in quell’ordine. Quando ebbe finito, afferrò uno straccio di lana e lo fece scorrere sulla superficie con movimenti rapidi e decisi.
«Stavo eseguendo gli ordini del colonnello Kappler. Dovevo solo controllare una lista.»
Posizionò gli stivali di fianco al baule e tirò fuori la divisa. Fece scorrere le dita nervose sui bottoni argentei, sulle mostrine, sulla fascia rossa con al centro la svastica nera.
«Ho sparato, dovevo sparare, erano gli ordini. Non potevo dire di no.»
Accarezzò il tessuto dei pantaloni, morbido e fresco al tatto. L’odore stantio della cantina gli riportò alla mente l’olezzo di morte che aveva percepito nelle fosse. Guardò dentro al baule, dove faceva capolino il suo berretto. Fissò la testa di morto in argento che risaltava come una sentenza sulla banda nera sopra la visiera.
Scrollò la testa, provò a resistere, ma si perse nel suo passato di sangue e orrore.
Gli uomini camminano dentro le gallerie a passo lento.
Hanno le mani legate dietro la schiena e hanno paura.
Percepisco il loro terrore e la loro sconfitta.
Le torce elettriche dei soldati fendono il buio, rischiarando quel luogo sporco e desolato.
Io chiedo i nomi e controllo la lista.
Gli uomini vengono fatti inginocchiare, poi gli spari riecheggiano nella galleria. La fiammata del fucile dura l’attimo sufficiente per portarsi via una vita. La scena si ripete, una, due volte.
Poi ancora e ancora.
Dieci uomini per ogni tedesco ucciso nell’agguato.
Così hanno deciso i vertici.
La lista è lunga. Più di trecento nomi.
Trecentotrenta per la precisione.
Carlo, Aldo, Vito, Paolo.
I nomi scorrono nella lista, poi gli spari li trasferiscono nell’oblio.
Ora tocca anche a me sparare. Il colonnello ha dato l’ordine, non mi posso rifiutare. Bisogna dare l’esempio ai soldati, bisogna fare quello che va fatto.
Non ci penso, spingo il dito sul grilletto e lo sparo rimbalza sui muri in pietra della cava.
Giordano, Mario, Gastone, Domenico, Sebastiano, Romolo.
Dieci uomini per ogni tedesco.
I prigionieri stanno impazzendo per la paura, tentano di ribellarsi.
Bisogna fare presto.
Bisogna finire il lavoro.
Il pavimento è pieno di cadaveri.
I soldati li accatastano in modo disordinato.
Pile e pile di corpi inanimati.
I più inesperti non riescono a giustiziare i prigionieri al primo colpo. Per alcuni è necessario un secondo o un terzo proiettile.
Tocca ancora a me sparare.
Sono gli ufficiali che devono dare il buon esempio ai soldati.
Sparo e spunto nomi sulla lista.
Spunto e sparo.
Sparo e spunto.
Edoardo, Giuseppe, Mariano, Renzo, Cosimo, Luigi, Cesare, Filippo, Bruno, Alfredo.
Dieci italiani per ogni tedesco.
È già buio quando gli ultimi prigionieri vengono giustiziati.
La galleria è piena di cadaveri.
Un massacro.
Trecentotrentacinque nomi sulla lista, trecentotrentacinque corpi ammassati a terra.
Le cataste dei morti, ammassati uno sull’altro, superano di molto il metro di altezza.
Nella lista c’erano cinque nomi in più. Cinque sfortunati.
È stato un errore. Dovevamo ucciderne solo trecentotrenta.
Il colonnello ha detto di uccidere anche quei cinque, non si potevano lasciare vivere dei testimoni.
Mentre guardo il terreno imbevuto di sangue mi dico che ho fatto quello che andava fatto.
Sono un soldato e ho solo eseguito gli ordini.
Non ho mai tentennato, neppure un istante.
Non ho avuto dubbi. Mai.
Un soldato non può averne.
Erich Priebke ritornò da quel viaggio della memoria col solito carico di nostalgia. Erano passati già più di cinque anni dal massacro, eppure lui ricordava tutto nei minimi dettagli: il tanfo della cava, l’afrore di paura che emanava la pelle dei prigionieri, l’odore pungente e metallico del sangue misto al piscio.
E poi i nomi della lista.
Tanti nomi.
In una parte nascosta dentro di lui, quasi irraggiungibile, sapeva che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutta quella faccenda.
Eppure giocare a fare Dio, potere disporre a proprio piacimento della vita di altri esseri umani, era stimolante. Anzi, eccitante.
Di certo molto più che passare tutto il giorno ad affettare formaggi e salumi dietro il bancone di una botteguccia di periferia.
Diede un’occhiata all’orologio e lasciò andare un sospiro.
Decise che per quel giorno la giostra dei ricordi poteva essere fermata.
Ripose il baule nella nicchia, spinse il piccolo armadio davanti all’apertura e raggiunse Alicia in camera da letto.
Passò la notte in bianco.
Gli occhi spalancati a puntare il soffitto, a scrutare le tenebre, il respiro regolare della moglie al suo fianco a tenerlo vigile, invece di accompagnarlo dolcemente nei meandri del sogno.
All’inizio ipotizzò fosse colpa della rievocazione del massacro avvenuto a Roma nel 1943, ma non poteva essere quello.
Non solo, almeno.
Si ritrovò a pensare alle parole che Josef aveva proferito un paio di mesi prima, dentro il vagone di quello strano treno che sferragliava nel cielo, accarezzando i rilievi andini. Erano stati discorsi strani, strampalati, che ancora non era riuscito a metabolizzare del tutto. Pensandoci però aveva capito perché il dottore avesse voluto incontrarlo proprio lì: non sul tetto del mondo, non sull’Himalaya, troppo lontana, ma in un luogo che ci poteva andare vicino.
“Le grandi altezze spingono gli uomini a grandi imprese” aveva affermato Josef con un’espressione tremendamente seria.
Forse era vero, perché in quel contesto, in quella sorta di folle ubriacatura che faceva sembrare possibile toccare il cielo con un dito, anche il delirio più assurdo assumeva contorni verosimili.
Priebke tornò dal bagno, la vescia rilassata e l’animo inquieto.
Sapeva che se Josef Mengele lo aveva fatto venire lì era per discutere di qualcosa di assurdo. Si sistemò sul sedile e guardò fuori. Un grosso condor volteggiava nel blu, solitario, in cerca di prede. O di pace.
In quell’istante rimpianse di non essere un uccello, un rapace libero di librarsi in aria per toccare le vette delle montagne. Un predatore alato, un semidio intoccabile, padrone incontrastato del cielo e dello spazio.
«Allora, Josef, di cosa volevi parlarmi?» disse Priebke dopo aver perso di vista il condor.
Mengele si accese un’altra sigaretta e sorrise, poi raccattò dal pavimento una bottiglia di brandy e la porse al capitano.
Priebke fece cenno di no con la testa e Mengele bevve da solo.
«Erich, cosa vuoi fare della tua vita? Vuoi davvero cancellare ogni cosa e marcire dietro il bancone di una squallida botteguccia? Non vuoi tornare a essere un padrone del mondo?»
Erich lo guardò senza dire nulla.
«Possiamo ricostruire ogni cosa, credimi. Tanti di noi stanno trovando rifugio qui in America. Magari non subito, ma con le nostre conoscenze, la nostra intelligenza superiore, in poco tempo potremmo controllare i gangli del potere di Argentina, Cile, Brasile. Di tutta l’America del Sud.
Possiamo tornare a dominare il mondo. È così.»
«L’impero è morto, Josef. Hitler è morto. Quei giorni non torneranno mai più.» Allungò una mano e si fece consegnare la bottiglia. Ingollò un sorso, poi un secondo, più deciso. «Non torneranno più quei giorni» ripeté in tono piatto.
Mengele rise.
«Hitler è morto, ma l’impero non morirà mai. L’ideologia non morirà.
Gli uomini hanno bisogno di essere comandati, necessitano di guide forti che li sappiano condurre per mano dentro le tempeste della storia. E noi sappiamo come fare per aiutarli.»
Erich scrutò gli occhi del dottore: erano brillanti, spiritati.
Mengele sembrava in preda a una follia inestinguibile.
«Lo sai anche tu, Erich. L’ideologia può sbiadire, si può appannare, ma non muore. L’uomo si può nascondere, ma lei è sempre in caccia, pronta a scovarlo e prendere il sopravvento su di lui e noi dobbiamo farci trovare pronti.»
Erich scosse la testa e tornò a guardare fuori dal finestrino. Guardare quell’uomo lo metteva a disagio.
«Non lo so, Josef, vorrei avere le tue certezze. Tu sei sempre stato sicuro di tutto, io mi sono limitato a eseguire gli ordini che mi venivano impartiti. Davvero, non so che dirti.»
«È giusto, pensaci un po' su» rispose il dottor Mengele. «Hai tutto il tempo per riflettere su quanto ti ho detto. Starò in Brasile per qualche mese. Ti ricontatterò al mio ritorno.»
«Brasile?»
«Già, devo prendere contatto con altri fuoriusciti. E poi ci sono anche
ragioni di carattere scientifico. L’Amazzonia è un’ottima riserva di materiale umano per portare avanti i miei studi.»
Alicia si mosse nel sonno, cambiando posizione. Era ancora presto per alzarsi, ma lo fece lo stesso.
Tanto quella notte era scontato che non sarebbe riuscito a dormire.
Rimase qualche minuto sulla porta a osservare sua moglie, un fagotto senza lineamenti nascosto dall’oscurità.
L’ultima frase che aveva detto Josef Mengele continuava ad attorcigliarglisi nella mente con tutte le implicazioni del caso.
“L’Amazzonia è un’ottima riserva di materiale umano per portare avanti i miei studi.” Sapeva in cosa consistevano gli studi, gli esperimenti del dottore.
Un brivido gelato gli corse su per la spina dorsale, sino al centro del cervello. C’era qualcosa di sbagliato nel modo di pensare di quell’uomo, qualcosa d’inconcepibile, al di là del concetto stesso di male. Aveva sempre avuto delle riserve verso il dottor Mengele, ma non aveva mai affrontato il discorso con nessuno. Lui e il dottore avevano lo stesso grado militare, ma non era quello il punto.
Sulla soglia della camera da letto, mentre cercava di mettere a fuoco il viso in bianco e nero della moglie, capì quale era la verità, al di là di qualsiasi dubbio o ipocrisia.
Aveva paura di quell’uomo. Della sua mente.
Di ciò che aveva fatto ed era capace di fare.
Andò in bagno e cominciò a radersi.
Lo specchio gli rimandò l’immagine di un uomo spaventato.
Non per ciò che era stato.
Non per quello che aveva fatto.
Lui aveva solo eseguito degli ordini.
No. Era terrorizzato per quello che sarebbe potuto accadere.
«È da pazzi assecondare un folle» disse alla sua immagine riflessa.
Quante possibilità c’erano per ricostituire così in fretta un nuovo impero germanico?
Poche. Quasi nulle.
Una missione impossibile, se non nella mente di uno squilibrato.
Quando quella mattina uscì di casa per andare a lavorare, gli occhi gonfi e la testa pesante per il non riposo, pensò con assoluta certezza che la sua nuova vita non fosse poi così disprezzabile.