M. Mark o'Knee ha scritto:Scusami
@Vivonic, ma con quell'accenno a Zero e Zarrillo mi sono sentito chiamato direttamente in causa e non sono d'accorso sul fatto che le mie letture e successivi commenti siano superficiali.
E ti rispondo qui per non ingombrare lo spazio del racconto stesso.
Sugli Sgorbietti blu mi sono soffermato forse anche più di ciò che effettivamente merita e devo dire che tutta questa chiarezza sul fatto che si parli di ebrei e di stelle di David non mi sembra così lampante.
Il testo parte con un'introduzione nella quale il protagonista ammira le stelle - le vere stelle - nel cielo notturno.
Poi, questa ammirazione diventa "fissazione" e il protagonista prima le disegna e poi comincia a portarle sui propri vestiti. Ma, ci dice l'autore, "Io le vedevo blu, non gialle" e, visto che il giallo non lo usa mai, quasi certamente anche quelle sui vestiti sono blu.
Può essere che il protagonista sia ebreo e che l'idiosincrasia per le stelle gialle stia nell'uso discriminatorio che i nazisti ne hanno fatto.
Giustissimo.
Ma allora qual è il senso della frase finale?
Se le stelle sui suoi vestiti sono blu, Michele, che sia ebreo o no, avrà i suoi motivi per non amarle, ma non certo legati al nazismo.
Se le stelle sui suoi abiti invece fossero gialle, allora la contraddizione è doppia: lui il giallo, per le stelle, non lo usa mai. Perché, essendo ebreo, sa qual è il loro significato. Ma, se anche Michele è ebreo, allora al protagonista dovrebbe essere ben chiaro il motivo per cui a Michele le stelle gialle non piacciono.
È in base a questo ragionamento che ho scritto nel commento che "quel finale rovina tutto". Non certo per superficialità.
Grazie
M.
Ciao Mark. Lungi da me parlare di gusto personale o di muovere critiche in questo senso: un racconto può anche fare schifo, e nessuno ha il diritto di dire la propria sul personale e sul soggettivo.
Non voglio neanche parlare di un testo nello specifico. Il mio è un discorso generale. Poi su quel testo in particolare dovremmo essere sinceri: è proprio il discorso in sé di perdere più tempo nell'internet che nella lettura che non mi va. Michele è Michele, un tizio qualsiasi in un racconto, e deve restare questo; altrimenti, come insegnava già Umberto Eco in Lector in fabula del 1979, stiamo rompendo la cooperazione testuale autore-lettore.
Secondo Umberto Eco, un testo prevede il proprio lettore nella misura in cui il primo utilizza delle espressioni capaci di essere attualizzate dal secondo.
Le espressioni testuali devono essere collegate a un contenuto, affinché non restino meramente
flatus vocis: quindi il lettore deve possedere tutta una serie di competenze (grammaticali, semantico-enciclopediche, deve saper disambiguare gli impliciti e avere la capacità di compiere inferenze). Questo perché ogni testo è intessuto di “non-detto” e, di conseguenza, necessita di una cooperazione attiva con il lettore. È per questo motivo che Eco definisce il testo un “meccanismo pigro”.
Allora, il testo immagina un proprio destinatario ideale non solo per quanto concerne l’aspetto comunicativo, ma anche per quanto attiene alla sfera del significato stesso del testo; questo non vuol dire che costui debba esistere empiricamente, né semplicemente che l’autore debba sperare che esista: significa invece costruire il proprio testo in modo tale da costruirlo.
Il testo non può giovarsi delle interpretazioni extralinguistiche, quindi diventa ancora più importante interpretarlo e, per questo, è fondamentale da parte dell’autore calcolare le possibili “aberrazioni” interpretative del proprio testo e tentare di costruire una strategia comunicativa che possa permettere al lettore di usufruire della propria serie di competenze in modo da carpire il contenuto del testo. In questo senso, il Lettore Modello deve essere capace di cooperare alla stessa stregua di come l’autore ha presupposto.
Allora chiedo: ci saremmo posti tutte queste domande se il titolo fosse stato 1938 o se invece di Michele ci fosse stato un nome ebreo meno italiano e più stereotipico? Allora ha sbagliato l'autore in questo senso? Io credo di no, perché l'errore a monte è voler a tutti i costi interpretare Michele e "capire" la storia che c'è dietro al 100. Questo è successo almeno in quattro racconti di questo 100x100, ma succede spessissimo anche in DR.
Se il lettore "usa" a proprio piacimento i testi, allora abbiamo un problema.
Prendiamo
Une désolation della scrittrice francese Yasmina Reza, pubblicato nel 1999. Per interpretare questo testo occorrono empatia, conoscenze culturali e sociali, e contestualizzazione spazio-temporale. Le allusioni e i non-detti sono molteplici in questo saggio e, di conseguenza, per interpretare questo testo (come tutti gli altri della stessa autrice) occorre un’attenta osservazione critica, in modo da individuare un mondo, quello degli esseri umani (tutti!), che diventa sempre più doloroso, sempre più nevrotico, e nel quale lo sforzo di un singolo non viene più visto come un tentativo di opporsi a tutto ciò, bensì come un ridicolo affanno verso qualcosa di inutile. Un uso libero e aberrante dei testi di Reza, e di questo in particolare, porterebbe a vedere una critica alla società francese del ventunesimo secolo, di una mera ridicolizzazione della classe borghese del mondo occidentale, con le frustrazioni e le ansie che le sono tipiche.
Oppure
Ragazzi di vita, il primo romanzo di Pier Paolo Pasolini, pubblicato nel 1955. Un’attenta lettura di questo romanzo porta il lettore a riflettere sull’emarginazione delle classi sociali più povere (in particolare del sottoproletariato urbano), mettendo in risalto la semplicità e la grande umanità dei ragazzi delle borgate della capitale negli anni dell’immediato dopoguerra. Un lettore critico ritrova facilmente la disapprovazione verso la società borghese che si imponeva nel periodo, giudicata inautentica. Invece il testo, subito dopo la pubblicazione, viene accusato di oscenità e censurato in quanto viene ritenuto un’apologia della prostituzione maschile. Il processo che ne seguì esemplifica l’uso distorto e aberrante che si può compiere di un testo letterario: servirono le testimonianze dei più importanti critici contemporanei per far capire ai giudici che il romanzo non aveva contenuti pornografici, ma che trasmetteva invece un sistema axiologico positivo, equiparabile a quello religioso, in quanto proponeva come valore la pietà verso le persone meno fortunate, con meno mezzi sociali e culturali per affrontare i pericoli del mondo.
Detto questo, ritengo che io abbia sufficientemente espresso il mio pensiero, quindi è giusto che io non protragga oltre la discussione.
Un caro abbraccio.