Un corvo volava nel cielo della sera.
Il giovane uomo era in piedi al limitare del precipizio.
La luce del tramonto rendeva tutto acceso e caldo: le nubi sfilacciate, le rocce dall’altra parte dello strapiombo.
Bellissimo.
Mosse un passo avanti. Il corvo virò rapido e gli passò vicino gracchiando, poi scomparve.
L’uomo arretrò. Non ancora. Il tramonto era splendido e voleva goderselo tutto. Fino in fondo. Fino al buio.
O forse no. Era uno spettacolo, e spettacolare doveva essere guardarlo precipitando nel vuoto.
‒ La cena è in tavola. Vieni.
La frase era stata pronunciata in tono basso e pacato, ma la voce, giunta all’improvviso alle sue spalle, l’aveva colto di sorpresa.
Si voltò. Un uomo anziano era fermo ad alcuni metri di distanza, un corvo sulla spalla.
‒ Vieni. La cena è pronta. Si raffredda.
Un filo sottile, lanciato verso il baratro. Fragile. Pronto a spezzarsi.
‒ Aspetto il buio…
‒ Il tramonto ci sarà anche domani. E oggi tu hai fame.
Un brontolio arrivò dallo stomaco del giovane, a conferma di un’affermazione che poteva essere un azzardo, anche se non più di tanto. Parlavano gli occhi stanchi e già lontani, la barba di diversi giorni, la divisa sporca e logora, una delle tante divise delle tante guerre.
Il giovane rimase immobile.
‒ Vieni.
A volte è un attimo, a fare la differenza.
Il giovane raggiunse lo sconosciuto, che si avviò a passo tranquillo.
Camminarono in silenzio fino a una radura, un po’ discosto dalla strada.
Per prime si videro le luci, disposte tutte attorno ad avvolgere lo spazio creato in mezzo agli alberi. Poi si sentirono le voci, un cicaleccio alternato a silenzi. I silenzi erano dovuti alle pause necessarie per masticare. Attorno a una lunga tavola imbandita sedevano alcune persone.
Insieme alle voci arrivavano i profumi del cibo.
‒ Oh, Manuèl! Dove eri finito?
‒ Roa ha trovato un nuovo ospite.
Per alcuni istanti gli sguardi si distolsero dalla cena. Cenni di benvenuto, lievi sorrisi.
Una sedia fu spostata, un piatto e delle posate sistemati nel posto preparato: ‒ Vieni. Siedi, ragazzo.
Il giovane rimase per un attimo sospeso in quello spazio di luce e profumi, di gesti una volta quotidiani e ora quasi dimenticati. Infine si decise e si sedette.
Con due battiti d’ala, il corvo volò a posarsi in fondo al tavolo.
Manuèl si rimise il grembiule, abbandonato in fretta quando Roa era arrivata a chiamarlo. Davanti ai fornelli, accese il fuoco sotto un paio di pentole.
Fornelli. E piani di lavoro. Scansie, cassetti, pentole, mestoli e coltelli.
Un furgone trasformato in una vera e propria cucina mobile, realizzò il giovane. Un lato aperto, due scalini a scendere verso il tendone che partiva dal tetto. Sotto il tendone, il tavolo.
Attorno al tavolo, le persone.
Manuèl gli riempì il piatto poi sedette anche lui.
Il buio scese, ma all’interno del cerchio di luce ci furono chiacchiere, calore e fame saziata. Nessuna domanda. Nessuno gli chiese di parlare e lui non lo fece. Rimase in silenzio, sospeso in quello strano tempo in cui si era ritrovato.
Un po’ alla volta il tavolo si vuotò. Qualcuno aiutò a sparecchiare, qualcuno ringraziò, qualcuno sparì rapido nella notte.
Rimasero infine solo Manuèl e il giovane, che non ebbe bisogno di dire che non sapeva né cosa fare né dove andare. Sentiva gli occhi chiudersi.
‒ Ho una brandina in più. Va’ a dormire.
‒ Non capisco… Non sai chi sono. Non sai nulla di me.
‒ Nemmeno delle altre persone che erano a cena.
‒ Non li conoscevi?
‒ Un paio erano già passati. Gli altri, mai visti prima. Vieni.
Manuèl si alzò e lo guidò verso il letto.
Il giovane si abbandonò sotto la coperta e si addormentò cullato dal suono di Manuèl che sistemava la cucina.
‒ Come mi hai trovato? ‒ chiese il giovane tra un morso e l’altro dato alla colazione.
‒ Mi ha chiamato Roa. Lei mi ha portato da te.
‒ Un corvo poco prima mi aveva fatto arretrare dal ciglio del burrone…
‒ Forse le sei sembrato un piccolo in pericolo, non ancora pronto per volare. I corvi sono intelligenti e Roa credo lo sia molto. A volte mi sembra che capisca quello che dico. Alcune cose certamente.
Un altro morso alla colazione, un sorso di caffè.
‒ Non vuoi sapere chi sono? Cosa sono? Cosa ho fatto?
‒ Be’, conoscere il tuo nome mi farebbe piacere e comodo, ma per il resto, dipende da te.
‒ Alejandro. Mi chiamo Alejandro.
Manuèl annuì.
‒ Sono… ero… un soldato. Un soldato di fanteria. E ho…
La gola gli si chiuse. Riprese: ‒ Ho fatto molte cose.
Silenzio.
‒ A me il resto non importa.
‒ Sono stanco. Molto stanco.
‒ Puoi viaggiare con me per un po’, se ti va.
Alejandro finì la colazione e il caffè, infine annuì.
‒ Pensi che la divisa ti servirà ancora?
‒ No, credo di no.
‒ Allora la buttiamo. Ho degli abiti che ti possono andare.
Quando trovava un posto che gli sembrava adatto, Manuèl fermava il furgone.
Lui e Alejandro allestivano la cucina, aprivano il tendone, sistemavano il tavolo e accendevano le luci. Manuèl iniziava a cucinare. I profumi riempivano l’aria.
Dopo poco, arrivava sempre qualcuno.
Manuèl sorrideva, spostava una seggiola.
‒ Siediti, ‒ diceva ‒ è quasi pronto.
Non chiedeva mai nulla. Erano gli altri, a volte, a raccontare. Non sempre. Alcuni mangiavano e se ne andavano senza dire una parola.
Ma attorno alla tavola, a volte si incrociavano gioia e dolore, storie tragiche e assurde. Memorie di piccoli, antichi attimi di felicità, risvegliati dai sapori della cucina di Manuèl.
Una sera una donna, al primo profumo della vaniglia e del latte, chiese di poter preparare lei la crema. Mescolò i tuorli, la farina, lo zucchero, versò il latte. Si mise a girare lentamente la crema sul fuoco basso, e mentre mescolava piangeva, lacrime silenziose, ma insieme sorrideva, di un ricordo dolce e triste insieme. Dopo raccontò di sua mamma e di lei bambina, che aveva imparato guardandola e aiutandola.
Una vita era trascorsa, dal tempo di quel ricordo, una vita che le era passata sopra, disse. Ma qualcosa le si era acceso in fondo agli occhi.
Un’altra volta giunse un uomo. Aveva fame e si vedeva, ma Manuèl ci mise un po’ per riuscire a farlo sedere a tavola. C’era una vergogna che gli faceva trattenere le mani davanti al piatto.
Mani quasi deformate, ma in cui ancora risuonava un’antica eleganza.
Manuèl aprì un ripostiglio, come a riordinarlo. Alcuni oggetti finirono sul tavolo.
Gli occhi dell’uomo si aggrapparono a un violino. Le mani lo sfiorarono.
‒ Una volta ero un musicista ‒ mormorò quasi scusandosi.
‒ Puoi suonare per noi, se ti va.
Un lieve sorriso incerto, le mani timide, l’uomo si alzò e iniziò a suonare. Un pezzo, poi due poi tre, come se una fame diversa fosse più potente di quella per il cibo.
Solo quando ebbe finito si sedette e mangiò, senza più vergogna.
Quando fece per andarsene, Manuèl gli allungò il violino: ‒ Prendilo. Sarà più felice con te che nel ripostiglio.
Guardare l’uomo allontanarsi con il violino e le spalle dritte fece d’un tratto vedere ad Alejandro qualcosa.
Ci mise altri giorni di viaggio a rendersene conto, anche perché gli sembrava assurdo, tanto che finì col chiedere.
‒ Non ti fai pagare?
Manuèl fece un gesto noncurante con le spalle: ‒ A volte qualcuno lascia qui qualcosa. Oggetti. Il violino, ad esempio. A volte trovano una nuova vita. Alcuni li tengo fuori, in cucina, altri qui dentro.
Aprì il ripostiglio. Lo sguardo di Alejandro vagò fino a posarsi su un lungo fodero nero appeso alla parete.
Manuèl lo staccò e glielo mise tra le mani.
‒ Una spada? ‒ chiese Alejandro sfilandola.
Ne contemplò la lama anch’essa nera, a contrasto con la linea di tempra bianca, con decorazioni che riprendevano quelle sul fodero e sulla guardia.
Manuèl annuì: ‒ L’uomo che me l’ha lasciata disse che era una katana, in una lingua che non conosco. Sembra quasi venire da un altro tempo, addirittura da un altro mondo. Anche lei ha un nome e una storia.
‒ Un nome?
‒ Il guerriero la chiamava Akimizu, nella sua lingua. Significa “acqua d’autunno”, nella nostra, mi disse. Un nome che doveva avere un significato all’inizio, nella terra da cui veniva, ma di cui non mi parlò. Mi raccontò invece che non era nata nera, lo era diventata dopo molte battaglie, ed era passata di guerriero in guerriero, fino ad arrivare a lui. E lui, quando ci incontrammo, stava cercando un’altra strada. Una spada potente, mi disse accarezzandola prima di partire, ma forse anche lei ora vuole una storia diversa.
Manuèl trovò gli occhi di Alejandro, nei quali per un attimo si erano affacciati gli incubi notturni da cui spesso lo aveva svegliato. Battaglie e sangue, che affioravano per alcuni istanti di notte ma di cui durante il giorno tacevano.
‒ Come può essere diversa?
‒ Una spada può uccidere, ma può anche tagliare un nodo o spezzare una catena.
Attraversavano città e villaggi, e lungo la strada incontravano ovunque i segni del dolore.
Gli strascichi lasciati dalle guerre, fame, violenza, esseri umani comprati e venduti, persone in cerca di sopravvivenza lontano dalla casa perduta.
Ogni giorno di più ad Alejandro la cucina e i pasti di Manuèl sembravano una goccia in un oceano di miseria e sofferenza.
‒ Ti rendi conto, vero, che tutto quello che fai è inutile? ‒ si decise infine a dirgli una notte.
‒ Io faccio quel poco che so e che posso.
‒ Perché? Non capisco. È inutile. Non cambia niente. Non conta niente.
‒ Sì, è vero, può essere, spesso nulla sposta il peso di una vita, e soprattutto di tutte le vite, prese insieme. Ma può anche capitare che una cosa molto piccola aiuti. Una vita alla volta. Qualcosa a cui noi non diamo importanza, di cui magari nemmeno ci accorgiamo. Una parola, uno sguardo. Il peso di una piuma che cambia un equilibrio.
Posò lo sguardo su Roa, accanto a loro sul tavolo.
‒ L’ho trovata alcuni anni fa. Le avevano tagliato le penne, per gioco. E la stavano per bruciare viva. Non perché avessero fame, ma così, per divertimento. L’ho comprata. È sopravvissuta. Io ho trovato lei, e lei ha trovato te.
Alejandro per un istante rivide il baratro e il corvo che lo faceva arretrare.
‒ Un pasto caldo, per un passo in più. Per affrontare il prossimo tratto di strada, arrivare alla prossima curva. Poi, cosa ci sarà? Io non posso saperlo. E tu?
Arrivarono infine davanti al mare.
Alejandro saltò giù dal furgone.
Camminava sulla sabbia, in silenzio, gli occhi puntati verso la distesa d’azzurro. Mentre camminava si spogliava. Camicia, scarpe, pantaloni, un pezzo dopo l’altro lasciato cadere alle sue spalle.
E così, nudo come un giorno era nato, entrò in acqua, in mezzo al luccichio del sole sulle onde.
Allora rise, e gridò, respirò.
Poi pianse.
Per il dolore e per la bellezza. Entrambi veri, forti e reali.
Pianse per chi non c’era più e per lui che ancora era vivo. Per la colpa e la gioia di sentirsi vivo. Così pieno di vita e di morte.
Insieme, nello stesso momento.
Si tuffò e nuotò. Aveva già nuotato in fiumi e stagni, ma mai dove lo sguardo non trovava confini.
Quando fu stanco, trovò Manuèl ad aspettarlo sulla riva.
Sedette accanto a lui.
‒ I fantasmi non mi lasceranno mai.
‒ Forse sì, forse no. Ma non è detto che tu debba essere loro prigioniero. Non sei il primo che deve viaggiare con questi compagni di strada.
Alejandro si voltò e vide gli occhi di Manuèl persi in una tristezza antica.
Manuèl non gli aveva mai chiesto niente, e così fece Alejandro.
Un mattino Manuèl non trovò più Alejandro. La brandina era stata rifatta. Mancavano uno zaino e qualche provvista.
La porta del ripostiglio era aperta. La katana non c’era più.
Manuèl a sera aprì la cucina e apparecchiò la tavola, scrutando di tanto in tanto nel buio.
Solo dopo diversi giorni, nelle chiacchiere di chi cenava, iniziò a trovare quello che cercava.
Scampoli di notizie.
Una guida nel buio, uno schiavo liberato. Una persona alla volta. Cose piccole.
O forse no.