Non ero da solo ad ammirare la splendida opera che spiccava in mezzo al prato. Uccellini, insetti, un paio di mucche cinguettavano, frinivano e muggivano d’apprezzamento per la mia sublime realizzazione. I fiorellini si aprivano per ammirarla. Le rondini erano arrivate da lontano per vederla. Anche il sole mostrava tutta la sua stima spargendo raggi, caldi ma non troppo, sullo splendido frutto di due anni di mio lavoro intenso e ininterrotto.
Ero estasiato, stanco e appagato. La sciatica mi faceva male e l’artrite mi incurvava le dita. Ma ero soddisfatto.
Due anni. Alla mia età, voglio dire! Ci avevo messo solo due anni e alla fine eccola qui. La splendida casa, proprio come Gianni me l’aveva chiesta. Bizzarra e geometricamente esatta secondo le sue precise indicazioni.
Ah l’amore, cosa ci fa fare. A qualsiasi età. Non vedevo l’ora di entrarci insieme a lui. Pregustavo quanto avrebbe apprezzato il mio lavoro e quanto avrebbe amato quella casa. La nostra casa.
Camminavo tutto tronfio con lo sguardo fisso sul nuovo edificio, girandogli intorno e ammirandolo da ogni lato, quando infine lui arrivò.
“Solo et pensoso i più deserti campi vo percorrendo a passi tardi et lenti” La sua amata voce mi colse da dietro, profonda e intima come la Grotta dell’amore di Taormina, dove ci eravamo conosciuti quaranta anni prima e dove per la prima volta avevamo fatto l’amore (e anche l’ultima). “Ti ho beccato a passeggiare invece che a lavorare”. Quell’accento, quella voce roca. Ogni volta mi faceva rabbrividire.
Mi girai. Gianni mi guardava appoggiato al suo bastone, con il ciuffo di capelli bianchi sugli occhi e la solita sigaretta in bocca.
“I miei passi sono tardi e lenti solo perché ho superato una certa età”, gli risposi con gli occhi a cuore. “Come tu del resto. Anzi, i tuoi sono pure più lenti perché sei sciancato”. Continuai pieno d’amore. “E non fumare, che viene la voce da Janis Joplin”. Poi mi fermai un attimo a pensare. “Ma scusa, non era mesurando”?
Spostò il peso da una gamba all’altra mentre il suo occhio di vetro, quello destro, prese ad ammirare direttamente il sole, in cerca forse di una bellezza che qui non trovava. Il sinistro, quello buono, mi fissava interrogativo. “Mesurando cosa?”
Adoravo quelle sue domande sibilline, che aprivano ogni volta interrogativi esistenziali e intense riflessioni.
“I deserti campi” risposi.
“Qui non ci sono deserti”.
Non dissi nulla. Per un attimo mi immaginai i suoi studenti del liceo, anni prima, estasiati per tanta profondità zen quando rispondeva così durante le sue lezioni di italiano.
Si raddrizzò con due dita l’occhio di vetro e lo puntò, insieme all’altro, verso la casa nuova.
“E questa sarebbe l’opera? Due anni ci hai messo per fare ‘sta roba? Sta a mala pena in piedi,” mi disse.
Le sue modalità di esprimere apprezzamento per me e per le mie realizzazioni non erano mai dirette; trovava forme sempre nuove e originali per far capire quanto una cosa gli piacesse.
“Sono un calzolaio, mica un muratore,” gli dissi. “E pure in pensione. E poi me lo hai chiesto tu di costruirla così.”
“Sì, ma ti avevo chiesto di costruirla bene, non di fare un mucchio di assi tenute insieme con lo sputo. Spesso il male di vivere ho incontrato, lo sai. Era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato, era una casa fatta di merda.”
“In Montale non c’era la merda.”
“Qui sì”. Mi rispose dolcemente con la sua vocina roca carica d’amore.
Il nostro rapporto era un contrappunto di passione e discussioni romantiche.
Ci fermammo ad ammirare insieme l’opera. Gli presi la mano. Lui me la allontanò. Le mie ossa continuavano a dolere ma la mia anima traboccava gioia perché riconoscevo l’apprezzamento del mio amato Gianni.
La costruzione era geometricamente bizzarra, tanto quanto il mio Gianni che così l’aveva voluta: quattro stanze cubiche, tutte uguali, allineate al pian terreno. La penultima stanza (o la terza, contando dal fondo) era senza finestre, completamente circondata da altre stanze: sopra aveva un secondo piano con un altro locale cubico uguale agli altri, sotto una cantina di forma, ça va sans dire, cubica, e di fianco altre due stanze, indovinate? cubiche. In tutto l’opera era formata da otto cubi tutti uguali tra loro di 7 metri di lato. Era come un’enorme croce tridimensionale con due braccia perpendicolari a incrociarsi nella terza stanza. Era lunga in totale 28 metri; in corrispondenza della stanza senza finestre era alta 14 metri, larga 21 metri e andava 7 metri sottoterra. Insomma, un bella casona. E l’avevo fatta tutta io! Col legno, qualche mattone, tanto sudore e un sacco d’amore.
“Entriamo?” gli chiesi. “Mi baci?” osai.
Ci vedevamo raramente, ogni qualche anno. Lui non voleva lasciare la sua famiglia, io non ardivo chiedergli di vederci più spesso.
“Ti trovo nei felici approdi, della notte consorte, ora dissepolta quasi tepore d’una nuova gioia; però, grazie, ma viviam per piacere senza baci né strusciatine,” mi disse ispirato.
“Quasimodo?” chiesi.
“Quasi.”
Capii al volo il suo messaggio: mi voleva, era felice con me.
“Vuol dire: non ci provare,” specificò.
I suoi giri di parole erano incantevoli. Mi voleva, era chiaro, ma voleva aspettare. Avremmo rifatto l’amore nella casa che gli avevo costruito.
L’entrata era in fondo al lato lungo. Aprimmo la porta che cigolò infelice per essere stata mossa. Tutta la casa scricchiolò e traballò per lo sforzo di non crollare.
Prima di entrare disse: “Sai perché ti ho chiesto una casa di questa strana forma?” Senza attendere la mia risposta continuò: “C’è un racconto di fantascienza che amo molto. Ho provato anche a farlo leggere ai miei studenti, quei caproni, per cercare di fargli apprezzare un po’ di letteratura, ma quelli niente. Il racconto si chiama La casa nuova, di tale Robert A. Heinlein. È la storia di un edificio con questa forma, che è lo sviluppo tridimensionale di un ipercubo quadridimensionale, un tesseratto. Per via di un terremoto quella casa collassa nelle quattro dimensioni e i protagonisti si trovano in un ambiente assurdo. Ecco, io volevo una casa come quella. E tu invece mi hai costruito ‘sta roba. Sei più capra dei miei studenti.”
Non risposi.
Lui mi guardò con tanto amore. “Non hai capito nulla della storia dell’ipercubo?” Mi chiese.
Io continuavo a guardarlo.
“È per questo che ti voglio bene.”
Il mio cuore esplose d’amore.
Lui appoggiò il bastone dentro casa ed entrò. Gli partì un peto, forse per lo sforzo, forse di ammirazione per il mio lavoro. “Ed elli avea del cul fatto trombetta,”: disse orgogliosamente per impreziosire la sua emissione corporea.
Entrammo nel corridoio che percorreva tutti i quattro cubi allineati. Si aggiustò l’occhio finto per indirizzarlo insieme all’altro verso il fondo del corridoio, in cui si intravedeva una porta. L’ambiente era scandito da porte laterali che davano sulle stanze, da cui filtrava la luce del giorno.
“L'avvenire era un corridoio tutto nero, che aveva in fondo la sua porta ben chiusa.“ disse.
“Baudelaire?” chiesi io tenero, con l’intento di compiacerlo.
“Non fare come quel politico che qualche giorno fa ha scambiato Baudelaire con Flaubert,
s'il te plaît,” disse. Mi ha dato addirittura del politico, pensai. Quanto mi onorava la sua stima!
s'il te plaît,” disse. Mi ha dato addirittura del politico, pensai. Quanto mi onorava la sua stima!
Eravamo dentro la casa. Io mi girai e chiusi la porta alle mie spalle con una certa irruenza, impaziente di stare nell’intimità con lui. Il mio gesto energico fu però fatale per la precarietà dell’instabile edificio. Una serie di crepe si diffusero dallo stipite e percorsero inesorabili, con sinistri scricchiolii, tutto il corridoio, metro dopo metro, come dita maligne che artigliavano l’edificio. Un rumore spaventoso ci avvolse e una vertigine improvvisa ci colse mentre intorno a noi la casa crollava su se stessa. Più che crollare, l’edificio si accartocciò, si contorse e si attorcigliò in un groviglio di sensazioni confuse.
Io e Gianni ci appoggiammo l’uno sull’altro (sommo giubilo quel contatto fisico!) per non cadere e le nostre bocche per un attimo si sfiorarono.
Poi tutto ritornò in silenzio e barcollando, mio malgrado, ci separammo.
Nell’aria aleggiava ancora l’odore del peto di Gianni misto a calcinacci e legno. Quando la polvere si diradò, tutto intorno a noi era mutato. Gianni si aggiustò l’occhio che intanto aveva iniziato a guardare insistentemente il pavimento.
Era come stare dentro un prisma olografico, o in un caleidoscopio, o nello sguardo di un ubriaco. Il soffitto e le pareti si confondevano. Il corridoio correva ancora dritto, ma era come se si incurvasse su se stesso.
I nostri sensi erano in subbuglio e la testa girava. Gianni mi prese la mano: quel contatto mi diede stabilità e smosse anche un’altra parte del mio corpo. Mi sorpresi per quella reazione fisica che, vista l’età, non era più così frequente. Il potere di Gianni! Mi faceva emozionare anche nei momenti più improbabili.
Ancora senza osare parlare facemmo qualche passo, mano nella mano.
“Cosa succede?” chiesi piano. Lui non rispose ma mi fece entrare in una delle stanze. Dalla finestra si vedeva il cielo, dove in realtà doveva trovarsi il prato. Per un attimo ebbi la nausea, come su un ottovolante. Tornammo nel corridoio. Sempre per mano, ci avventurammo in un’altra stanza. Dalla finestra si vedeva assurdamente l’interno dell’edificio, invece che l’esterno.
“Deve essere successo l’impossibile,” disse Gianni guardandomi con l’occhio buono.
“Siamo stati realisti, abbiamo chiesto l’impossibile,” risposi io, giusto per fare un po’ il figo e impressionarlo.
Lui mi guardò male e poi proseguì: “Lo sviluppo del cubo tridimensionale si è chiuso nel tesseratto come nel racconto di Heinlein. La tua botta alla porta ha fatto collassare la casa che già era traballante. Tesoro, siamo finiti in un impossibile ipercubo a quattro dimensioni!”
Io lo guardavo esterrefatto. Mi aveva chiamato tesoro! Una cosa impossibile! Mai sentita prima. Ero al settimo cielo. Tesoro, aveva detto!
“Che cosa impossibile…”, insistette lui, mentre io annuivo.
“Dai, cerchiamo di uscire di qui,” disse poi. “E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un super lupo di mare.”
“Superstite,” corressi io, con la voce che mi tremava per l’emozione dell’evento impossibile appena accaduto. Tesoro aveva detto!
“Speriamo,” annuì lui.
“Nella poesia… non super, ma superstite” insistetti, ma lui mi ignorò.
Andammo dritti per il corridoio, cercandone l’uscita. Ma dopo una camminata di circa 28 metri, un po’ claudicantI per gli acciacchi vari che ci tormentavano, varcammo la porta d’entrata e ci ritrovammo… nello stesso punto di prima.“L’ipercubo si è chiuso, i volumi opposti ora combaciano e noi se camminiamo nel corridoio continueremo a girare senza uscita. Dobbiamo trovare quale finestra delle stanze dà sull’esterno.” Immaginai che questo fosse il tono che usava con i suoi studenti più talentuosi, e ne fui lusingato.
Entrammo in ogni stanza e guardammo fuori da ogni finestra. Da alcune vedevamo noi stessi da dietro guardare fuori da altre finestre, da altre vedevamo tutto nero, oppure il cielo.
Un certo panico ci stava prendendo, devo ammetterlo.
Finalmente da una finestra si intravide un prato e un sole brillante. Ci avvicinammo. Davanti a noi si estendeva una grande distesa d’erba in fondo alla quale una foresta vergine si alzava come un muro vegetale, verde e nero. Di lato, in mezzo alla piana, un’enorme costruzione piramidale attirava la vista e infrangeva le nostre illusioni di normalità. Non eravamo dove avevo costruito la casa, evidentemente.
“Chichén Itzá” disse Gianni. “Gran bel posto. È da anni che volevo visitarlo”
“E sei qui con me!” dissi, cercando di trovare qualcosa di buono in tutte quelle turbolenze emotive multidimensionali.
“Si vede che l’ipercubo congiunge punti che nello spazio a tre dimensioni sono molto lontani tra loro. Affascinante!”
“Gianni, tesoro. Ma oltre che Italiano, insegnavi anche matematica o fisica?” chiesi sempre più ammirato e innamorato.
Lui mi ignorò e fece un’altra trombettata dantesca.
“Andiamo,” disse. “Vediamo se una delle finestre rimaste dà verso il nostro prato”.
“Aspetta!” lo trattenni. “Guarda.”
In fondo, sotto la piramide, si vedevano numerose tende, bandiere e automobili che non avevamo notato prima. Le auto erano modelli vecchissimi, probabilmente anni quaranta, e le bandiere erano rosse con una croce uncinata in mezzo.
C’era un bel movimento di persone in divise da seconda guerra mondiale che ogni tanto alzavano il braccio destro teso per salutarsi.
“Fornicata mater illorum”, esclamò Gianni. “Un accampamento neonazi! Eos stercorem pro cerebro habent.”
Anche il latino sapeva! Che fascino…
Una persona si stava allontanando dall’accampamento nazi. Non era in divisa: indossava un abito cachi, un cappello e un cravattino. Sembrava un po’ Indiana Jones e un po’ Charlie Chaplin. Si stava avvicinando velocemente alla nostra finestra.
Non pareva fosse seguito, ma il passo veloce e lo sguardo circospetto suggerivano che stesse in qualche modo scappando.
“Andiamo via” dissi, cercando di trascinare Gianni verso un’altra stanza, tirandogli la mano.
“Aspetta, ormai ci ha visto.”
Indiana Chaplin arrivò davanti alla nostra finestra e bussò vigorosamente. Chissà come appariva il nostro accogliente ipercubo visto da fuori.
Aprimmo, e una infuocata aria tropicale ci avvolse, con tutti gli odori esotici della foresta che provvidenzialmente cacciarono via le puzze dantesche di Gianni.
L’uomo si buttò dentro e si nascose sotto il livello dello stipite. Ansimava e si guardava intorno ansioso.
“Chi sei?” gli chiesi.
Lui rispose concitato qualcosa in inglese che lì per lì non capimmo. Sia io che Gianni un po’ di inglese lo masticavamo, ma il tizio aveva un forte accento americano e non ci aspettavamo certo di dover conversare in quella lingua. Come se non ne avessimo già abbastanza a cui pensare, ora ci toccava pure il fuggiasco americano.
Lui incominciò a respirare meno affannosamente e noi incominciammo a capire qualcosa di più dei suoi discorsi.
“Nascondetemi,” diceva. “I nazi non mi cercheranno, ma devo stare nascosto per un’oretta, poi i miei mi verranno a prendere. Se i crucchi mi trovano in giro, rischio di essere fermato e non potrò rispettare l’appuntamento per il ritorno”.
“Cosa ci fanno dei neo-nazisti a Chichén Itzá, e perché siete tutti vestiti come Gli eroi di Hogan? Cos’è, il set di un film?” gli chiese Gianni.
“Ma che film, e cosa sono i neo-nazisiti? Quelli sono i nazisti puri, quelli del Baffetto e del Terzo Reich.”.
“E cosa fanno qui?” chiesi.
“Stanno cercando non so quale lancia di Longino e non so quali altri tesori esoterici. Io sono qui in missione per cercare di capirne di più, ma pare tutto un po’ folle e così me ne torno a casa in California.”
“Mi viene un dubbio, ma in che anno siamo? Che giorno è oggi?” chiese Gianni.
“Certo che siete strani anche voi due vecchietti. Siamo nel 1939, è il 31 Agosto.”
Gianni si girò per guardarmi con due occhi sgranati a cui risposi io con i miei migliori occhioni a cuore. Se non stava attento, a spalancare gli occhi così tanto il cuore mi sarebbe esploso e l’occhio di vetro gli sarebbe caduto.
“Oltre che lo spazio, il tesseratto distorce anche il tempo!” mi disse.
“Eh già…” risposi, ancora distratto dal suo incredibile sguardo ammaliatore.
“Ma voi chi siete? Questo posto è veramente strano. Da fuori sembra una catapecchia ma dentro pare enorme. E voi siete vestiti in maniera quantomeno bizzarra.”
Avevamo da attendere un’ora prima che i suoi lo venissero a prendere. Così gli raccontammo le stranezze della nostra casa ipercubica e delle nostre ansie quadridimensionali. Notai che aveva anche una scarpa mezza rotta, così tirai fuori i ferri del mestiere (non mi muovevo mai senza ago e filo da calzolaio, oltre a un tubetto di colla Artiglio: se uno è stato calzolaio, lo è per sempre) e nel frattempo gliela aggiustai.
Cercammo anche di metterlo in guardia sulla guerra in arrivo, su Pearl Harbour, la Shoa, le bombe atomiche, il cambiamento climatico, il covid, i social, i reality ma lui sembrava prendere ogni nostro discorso come bizzarrie di due vecchietti stonati.
Passò così il tempo e per fortuna nessun nazista venne a cercarlo.
“Vado. Signori, è stato un piacere,” disse infine. “Spero che troverete presto la strada di casa in mezzo alle vostre fantasie da abuso di peyote. Comunque questa cosa della casa ipercubica mi è piaciuta un sacco, mi sa che ci scriverò sopra un raccontino di fantascienza.” E così dicendo saltò fuori dalla finestra.
Gianni lo bloccò per un attimo, con la bocca spalancata.
“Ma come ti chiami?” Chiese, e si vedeva che aveva un presentimento inquietante che gli ronzava in testa.
“Heinlein. Robert A. Heinlein,” disse. Poi corse via.
Gianni si girò verso di me, e questa volta gli occhi gli si spalancarono così tanto che l’occhio di vetro gli cadde veramente.
Raccolse in fretta la protesi e se la rinfilò nell’orbita mentre diceva: “Il racconto La casa nuova è stato scritto nel giugno 1940, tra meno di un anno! Heinlein non se l’è inventato, glielo abbiamo suggerito noi…”
Richiusi con un colpo la finestra per tener fuori tutte quelle stranezze. Il colpo fu particolarmente forte e un’altra serie di crepe e di rumori inquietanti avvilupparono ancora l’edificio. La nausea ci riprese e i sensi si confusero un’altra volta.
Quando tutto fu finito guardammo di nuovo fuori. Il prato c’era ancora, ma invece della piramide di pietra vedemmo le mie due rassicuranti mucche.
Tornammo nel corridoio e ci avvicinammo verso l’uscita. Aprimmo la porta e un raggio di sole caldo ma non troppo ci colpì.
Respirammo l’aria tiepida pieni di sollievo.
Eravamo quasi fuori quando Gianni mi prese la mano.
“Sì, ti voglio baciare,” mi disse. “Io voglio andare a casa, la casa dov'è?” continuò. ”La casa dove posso stare, con pace con te. Doveva vincerlo Lorenzo il Nobel, mica quell’hippy di Dylan”.
E rientrammo nella nostra nuova casa.