- Sono mutaforma navajo, cattivi e spietati. Sono qui per me, forse per uccidermi. Ma la verità è che non lo so. So davvero poco di tutta questa storia, so solo che mi riguarda, essendo io stessa della stirpe navajo.
Giulia guarda a lungo l'amica. Sembra più forte, sembra essersi trasformata in un’amazzone in pochi minuti, e questa cosa la spaventa ancora di più.
- Quindi li conosci?
- In un certo senso. I navajo sono una gigantesca famiglia, e loro ne sono le pecore nere. Gli Skinwalkers hanno stretto un patto con il demonio, e la nostra tradizione narra che per unirti a loro devi compiere un sacrificio di sangue.
- Niente corsi di Bon Ton?
- Temo di no. Mia nonna mi ha sempre detto di fare attenzione a loro e, se mai li avessi incontrati, di usare questo amuleto. Non mi ha mai voluto dire cosa ci fosse dentro, polveri sacre le definiva lei. So che posso affrontarli, con questo amuleto. Lui mi guiderà. Sono arrivati fin qui per me, l'unico modo per sfuggirgli è uccidere quella piccola. Lei è il capo.
- Ti preferivo quando ti facevi di coca, a conti fatti. Andiamo dai, vengo anche io.
- Meglio di no. Non vorrei trovarmi costretta a fare qualcosa contro di te. Devo andare sola. Al Café de Paris. Tu aspettami a casa, Giulia. E se non torno, brucia tutto, ok?
Mentre pensa: ma tutto cosa?, Giulia guarda l'amica allontanarsi a passo svelto, e prende una decisione: se ne fotte dei navajo, degli skinwalkers e di tutte quelle cose spaventose. Non può lasciare Bea da sola.
La vede entrare nel locale e la segue, riparandosi nella penombra che sembra avvolgere ogni cosa. Se la sente scivolare addosso come un mantello, pesante e scuro.
Sono loro, pensa, sono già qui.
L’odore fortissimo di urina conferma il suo pensiero
Bea è al centro della sala, le braccia verso l’alto, i capelli smossi da un vento innaturale che sembra arrivare dal pavimento. Canta. Una nenia che sembra partire dal centro del suo corpo, che fende la penombra e mostra il piccolo esercito di mutaforma seduti sopra il bancone, la bambina al centro. Ride, tra gli specchi crepati, facendo oscillare il volto tra forma animale e forma umana, in una smorfia grottesca.
Bea è altrove, e il suo canto piano piano fa breccia nella risata della bambina che si spegne, congelando il suo volto nella forma umana di un piccolo viso innocente inondato di lacrime.
- Abbiamo bisogno di te.
Dice la bambina, con una voce da bambina.
- Si è aperta la crepa, per chiuderla serve sangue. Un sangue prezioso, come il tuo, ultima della tua stirpe. La tua discendenza ti rende la prescelta. Se tu vieni con noi, noi viviamo. Se tu muori, noi viviamo. È semplice, non credi?
Ma Bea non sente o non ascolta, continua a cantare come in una trance antica che non può controllare, e il suo canto agisce come un anestetico su quelli che adesso sembrano solo uomini e donne seduti sul bancone, a circondare una bambina che piange.
Senza fermare la sua nenia, Bea si avventa con un balzo inaspettato verso il bancone, afferra la bambina al collo e le caccia in gola l’amuleto, spingendolo con forza.
Il piccolo corpo sussulta ma cede subito, con un gemito animale.
I corpi degli altri, nel momento in cui la bambina esala l’ultimo respiro, si accasciano come mucchi di stracci, alcuni scivolando giù dal bancone con uno scrocchio.
La voce di Bea è l’unico rumore che si sente nel locale; Giulia esce dalla penombra, che ora è leggera come un velo, e prende sottobraccio l’amica, aiutandola a indietreggiare. Un sentore di Mojave Ghost le avvolge come un abbraccio.
Bea smette di cantare, guarda Giulia negli occhi, e fa un sorriso che sembra quello di una vendicatrice: - E adesso, bruciamo tutto.
Beatrice e Giulia un locale come il Cafè de Paris non lo avevano trovato più. Quell’atmosfera retrò, quel servizio cortese, quella discrezione d’altri tempi, quei deliziosi dettagli liberty.
Un vero peccato.