Ero troppo piccolo per rendermene conto, ma i suoi capelli azzurrini di signora attempata mi impressionavano sempre; seduta su quella specie di trono chiuso in una sorta di cilindro, alto rispetto al pavimento, mi sembrava una regina misteriosa e mi faceva un po’ paura.
Tutte le volte che entravamo nel locale, mi stupiva la famigliarità con cui mia nonna e la signora Jole chiacchieravano tanto a lungo e mi chiedevo di cosa parlassero; cercavo di ascoltare ma poi, annoiato, lasciavo perdere.
Ogni poco, qualcuno si avvicinava e parlava con la signora Jole, obbligandola ad interrompere la fitta conversazione con la nonna per premere dei misteriosi bottoni e consegnare un bigliettino di carta che poi, il cliente, dava al cameriere al bancone ricevendone in cambio un caffè o una bevanda.
Entrare nel bar Frontini, all’angolo fra via Plinio e via Eustachi, era sempre una festa; mentre la nonna in piedi nei pressi della cassa chiacchierava con la signora Jole, io potevo andarmene a zonzo nel bar, entrando nella sala da tè e provando ogni sedia, accedendo alla sala bigliardi con qui bellissimi tappeti verdi pieni di palline, fingendo di conversare utilizzando il telefono pubblico a gettoni.
E ogni volta, il signor Raffaele al banco apriva dei misteriosi coperchi rotondi e mi consegnava un piccolo cono gelato; prima di accettare il regalo, gettavo un rapido sguardo alla nonna che, sempre, assentiva.
All’incrocio fra via Plinio e via Eustachi non c’era solo il bar Frontini: il fornaio Pastori aveva il forno nel retrobottega che dava sul cortile interno del palazzo dove abitavo con la mia famiglia; la mattina il nostro appartamento era invaso dal profumo del pane in cottura.
Sull’angolo opposto, le tende delle numerose vetrine del droghiere De Ponti aggettavano sul marciapiede; all’interno, una meraviglia di bancone in vetro con dei divisori interni, sempre in vetro, consentiva di ammirare gli articoli di maggior consumo, fra i quali i “ginevrini” ed i “ginevroni”, sorta di pastiglie piatte di zucchero colorato che mi piacevano tanto.
Percorrendo via Eustachi in direzione sud, si incrociava sulla destra via Redi, a metà della quale c’era l’oratorio San Giuseppe; a causa della curiosa forma costruttiva dell’intero isolato, il cortile interno dell’oratorio, con il suo spoglio campetto da calcio, risultava immediatamente alle spalle del forno in cui il sig. Pastori cuoceva il pane e, di fatto, quasi sotto il balcone del nostro appartamento; quando mia madre voleva che tornassi a casa, semplicemente mi chiamava dal balcone della cucina.
La direzione nord di via Eustachi conduceva invece in piazzale Bacone, all’epoca sede di semplici giardinetti ricavati al centro, fra i binari dei tram posti lungo la periferia della piazza; i primi approcci con le ragazzine ci vedevano muti e vergognosi seduti sulle panchine in attesa di chissà quale bacio o toccamento.
Percorrendo invece via Plinio in direzione sud-est si arrivava all’incrocio con viale Abruzzi; oggi l’incrocio è stato trasformato in una rotonda ma, esattamente come allora, il bar Basso, costituisce ancora oggi meta di VIP alla ricerca di emozioni alcoliche; naturalmente il locale, per noi ragazzini, era assolutamente off-limits.
Con il passare degli anni, il nostro raggio d’azione di bambini si allargò sempre di più fino a sconfinare in via Noè, dove un grissinificio artigianale invadeva la via con profumi di cottura, in via Petrella, dove una sede della GBC mi vedeva accanito, ma purtroppo squattrinato, compratore di componenti elettronici, in corso Buenos Aires dove la libreria Puccini vendeva libri remainders al 50%, in via Vitruvio, dove numerose signorine dallo sguardo intenso, e per noi un po’ misteriose, stazionavano tutto il giorno sui marciapiedi, in corso XXII marzo dove l’enorme, per allora, negozio Marcucci esponeva in vetrina apparecchiature radio e strumentazione da laboratorio meta di nostri pellegrinaggi quasi giornalieri.
Link al mio commento al racconto "Due barboni" di
@Andrea Bernardi:
https://www.differentales.org/t2347-due-barboni#32973