La foresta.
Mia madre sta le ore immobile sul balcone, esplora un lottino libero tra le macchie di gasolio del cortile, utile a coltivare le sue passeggiate, i suoi ultimi sogni. Rifiuta la crema protettiva, è abituata al sole crudo e al suo cappello di paglia. Il cortile, con la sua immobilità, mi trasmette la stessa inquietudine di un quadro di Hopper.
In questo sottoinsieme famigliare siamo rimasti solo io e lei, una ricopiatura fasulla della vita di prima, quando riusciva a scendere tre piani a piedi e a esprimere il suo repertorio conviviale estivo al bar.
Sono tre anni che non esce e non cammina. All’inizio eravamo tutt’e due inconsapevoli di quello che ci aspettava: le sue perdite di equilibrio, le sue dimenticanze, le sue visioni impossibili, ci sembravano buffonate fatte apposta per riderne insieme.
La sollevo dalla sedia a rotelle, è leggera, leggera come il soffione di un tarassaco, che vola sul prato. Il nostro recinto della sabbia va dal balcone alla camera da pranzo e a un pezzo del linoleum del corridoio, l’altra camera e la cucina sono il territorio della badante.
Dopo averla distesa sul letto, osservo le sue gambe sottili, senza muscoli, la pelle del viso, senza rughe. La malattia ha allargato la crepa degli occhi, sembrano assenti. Per non farmi vedere commosso, mi sposto, torno sul balcone opposto, quello della cucina. Il palazzo, dietro, sembra un altro palazzo, pure il colore è diverso. Qualche pazzo deve aver smontato e rimontato male le corolle dei fiori, pure loro sono sofferenti.
Con un salto acrobatico dello sguardo raggiungo una vecchia GS imbellettata e strigliata da un lavaggio recente. Ne avevo pure io una uguale, rossa. Riuscii a deformare la mia giovinezza con lei e le mie scelte azzardate, le mie amicizie azzardate. Sento di dare di me un’immagine sgradevole, sgradevole con ferocia, nemmeno io so cosa ho avuto dentro in quel periodo.
Passo la maggior parte del tempo in questo appartamento, con l’unico hobby di nutrire una colonia di pesci rossi, mentre un paio di ventilatori si alternano alle mie spalle sputando aria calda.
Mamma maneggia delle fotografie ingiallite, quando ne trova qualcuna capovolta si sforza a capovolgere la sua testa, con modestia prova a raggiungerne l’immagine effettiva. Il catalogo delle sue attività sta tutto sul tavolo: kleenex accartocciati e imbevuti di acqua frizzante, un paio di Bic, un quaderno percorso da aste e curve senza senso, uno spremiagrumi di plastica, sbeccato, che conosco bene, reperto della mia infanzia consumata in quell’appartamento. Le do un bacio sulla fronte, in forma anonima, perché a volte si confonde e non mi riconosce.
La Foresta, poco distante, è un piumaggio essenziale e scarno sulla banchina del Tevere in secca, dove vado spesso a passeggiare e dove attraverso tutti i miei tormenti, i miei dubbi. Dove calpesto rovi, dove sfilaccio inquietudini e solitudini. Forse tornerò lì. Senza compagnia.
La badante arriva, con la sua allegria portatile, sistema qualcosa fuori posto, come si fa con i giocattoli dei bambini, il suo è un mondo diverso, il suo è un lavoro. Prima di uscire tolgo bruscamente, di nascosto, le due Bic dal bicchiere, dove hanno corretto l’acqua con il loro inchiostro blu e rosso. Scendo le scale ignorando il passamano di ferro, senza inciampare, che di solito inciampo. Niente Foresta, niente isolamento, almeno oggi, così ho deciso.
Salta fuori l’idea di mangiare qualcosa, anche se non ho proprio fame e non mi va di sedermi alla solita trattoria del quartiere dove fa un caldo bestiale e dove mi fanno mille domande fasulle e dove do mille risposte fasulle. Per tirarmi su di morale proverò a intrattenere fastidiosamente la bella ragazza della pizzeria all’angolo.
Lei, senza rispondere al saluto, taglia la mia porzione di pizza margherita.
- Non è colpa mia se è un po' bruciata, il Napoletano pensa solo a fumare, - dice.
- Per me va bene così, fumare non è una cattiva idea, pure io voglio ricominciare a farlo, campare troppo a lungo, in ottima salute, è solo andare incontro ai guai.
La vedo perplessa. Rimango pure io un paio di minuti con una faccia strana e l’unto della pizza, incartata a metà, in mano.
- Cosa vuoi farne? – Vuoi aspettare il tramonto per mangiarla?
E a me quella frase appare come una frase molto confidenziale, perché ho bisogno di frasi confidenziali.
- Sì, perdonami, sono schiavo di una situazione frenetica, non ti ci mettere pure tu a togliermi questi quindici minuti di calma.
- Non mi sei mai sembrato un uomo frenetico, ma spesso la parte più importante di noi è quella invisibile.
Le accenno la malattia di mia madre, con molta franchezza, senza alcun cedimento emotivo, almeno in apparenza. Lei si agita e dice che ne parlo come se mia madre non esistesse più, e non è giusto farlo.
- Cara mia, la vecchiaia è un brutto argomento, solo ora me ne rendo conto guardandola da vicino, mette a repentaglio il rifugio che ci siamo costruiti, accade di doverlo condividere con chi ci cura, con una persona non scelta. - Per come la penso io la vecchiaia è una ferita che continuerà a sanguinare fino alla morte e farà sanguinare pure le ferite di chi ti sta vicino. - Che te ne fai di un bell’appartamento confortevole se non hai più la testa, se non hai più le gambe, - che te ne fai se non hai più i gradini dell’infanzia. – E perdere la memoria diventa quasi salvifico, la malattia, terribile, lavora per noi, corregge la nostra cifra espressiva, i tormenti e i ricordi li cancella, ci fa diventare il solo, unico abitante di questo mondo. - E nessuno si dispera, hai mai visto uno succube di malattie senili disperarsi? - Profumi, voci, facce, colori, spariscono sulla superficie asciutta di un mondo nuovo, impossibile da esplorare prima, un mondo fatto di situazioni sovrapposte. - Nessuno te le spiega, sono loro a suggerire il dopo, il colore successivo, a dirti che la meta coinciderà con la fine.
- OH MIO DIO! - urla. Il suo bel viso è paonazzo.
- Mi dispiace, non volevo impressionarti, ma questa è la pura verità.
- Scusami, mi hai lasciata senza respiro.
- Ho imparato a conoscere quella malattia, ora non sono più inconsapevole dei danni che fa e mi sento meglio a raccontarla. Alla mia età non ho più nessuno che mi voglia bene, e più nessuno che mi voglia male, non tocco una donna da anni, eppure quello che devo fare lo faccio, tutti i santi giorni. E mia madre mi guarda, a volte, con rancore. -Ti sembra che io lo meriti?
- Caro mio, ma come cavolo ti chiami, nemmeno me lo hai detto e ti vedo spesso qui, c’è sempre la mamma nei racconti degli uomini che conosco: un’amica, una compagna, una confidente, capace di amore impossibile anche per il più brutto ceffo della terra, basta solo che sia suo figlio.- La tua sta lì, appesa alla sua sedia a rotelle, la odi per quello che ti accade, per quello che ti viene imposto, ma non la puoi abbandonare, e l’odio, per una stravagante rivalsa, si trasforma, si frammenta in incredibili pezzetti di amore. - Parlandomi di lei ti sei spogliato, ti ho visto nudo, ti ho visto commosso, dispiaciuto come nessuno al mondo. Il tuo dolore è così forte che si può toccare, è un masso, un macigno, è un grattacielo, una nave da crociera che ti porterai dietro per il resto della tua vita. Proverai pure a affibbiarti le colpe, le tante colpe. Come se l’avessi generata tu, tua madre. Come se l’avessi fatto tu, il ‘maledetto’. Il male.
- Tutto questo hai visto?
Dopo una pausa infinita mi fissa con gli occhi di un placido celeste e dice: Sei un eroe.
- Ma quale eroe, sono un vigliacco! - Uno che non vede l’ora che arrivi la badante per riuscire a fuggire.
- Ascolta, sono stufa di piangere per gli altri. Ogni tanto passa qualcuno di qui e racconta cose tristissime come la tua, e non riesco a abituarmi. - Mai nessuno che mi faccia fare una risata.- O ci provano, o mi fanno piangere. - E basta, no?
- Ero qui solo per una pizza, non avrei dovuto. -Ti saluto.
- E no, eh. Tu ora non te ne vai così facilmente. - Prima spari e poi fai la vittima?
- Scusami.
- E che scusami, troppo facile dire scusami.
- Cosa posso fare?
Ci pensa un attimo e con tono più gradevole e normale, dice:
Va bene, salutami, ma da lontano, non voglio sporcarti di farina.
L’abbraccio, come fosse una nuvola, come se avesse gli abiti conficcati nel corpo, e il corpo scomparso.
- Che farai adesso? Andrai a casa?
- Proverò a andare al cinema di fronte, ho voglia di starmene al fresco per un po’.
- Allora buon film, anche se sull’aria condizionata non ci giurerei, è un cinema d’essai senza pretese. Una volta i cinema così li chiamavamo pidocchietti e ci andavano studenti e operai, ora sono la culla della cultura, a parer loro, pure se proiettano i film di Franco e Ciccio.
- Grazie, sono ben informato sul film, sull’aria condizionata, e sulla piccola libreria aperta fino a tardi
che sta li dentro, e se il film farà schifo comprerò un ‘libro mattone’ per addormentarmi.
- Sono curiosa più del mattone che del film.
Il suo profilo, mentre serve gli altri, diventa impenetrabile e distante.
Esco, frenando la chiusura della porta a vetri, un modo di fare eccessivamente protettivo, che stupisce pure me. Il cinema Farnese è dall’altra parte della piazza, non dovrò faticare molto per raggiungerlo.
Senza il fardello degli scrupoli mi è apparso il volto vero della ragazza, ed è incomprensibile il rifiuto ambosesso di presentarci, sarà la differenza d’età, a remare contro.
Sono in anticipo per il film, faccio una pausa sotto il monumento di Giordano Bruno, su un gradino sporco di bevute serali, la piazza è stranamente spopolata, pure la cornice dei ristorantini è vuota, mi sento circondato dagli spiriti inquieti del passato. Una luce smorta prende il sopravvento su mucchietti di cicche. Per me, che sono appassionato di riposo, è comunque il posto ideale. Dopo un bel po' che ho smesso di fumare questo è uno dei momenti in cui mi chiedo se ho fatto bene o ho fatto male.
Non ci andrò più a bruciare in quel forno, mi sento come se avessi , come se avesse, esagerato in qualcosa.
Il film sta per cominciare, pago il biglietto al materiale scheletrico di una signora in professionale tailleur verde. La sala è piccola, c’è solo la platea. Le luci sono ancora accese. Rimbomba la pubblicità di un dentifricio. L’acustica non è male. Saremo in dieci, quasi tutti uomini. Sento un rumore di tacchi femminili alle mie spalle.
- Non è ancora cominciato?
Mi giro lentamente, massaggiandomi il collo, riconosco il suo sorriso. Non me l’aspettavo il suo arrivo.
Si siede con stile accanto a me, accavalla le gambe.
- Sei riuscito a inghiottire qualcosa?
- Non mi è permesso amare la pizza così tanto perché sono grasso, ma la tua l’ho amata.
- Grazie, e poi non sei grasso affatto, sei robusto, ti vesti solo male.
Si spengono le luci, non c’è colonna sonora migliore del buio e del silenzio per il mio imbarazzo. Abbiamo un unico grande bracciolo di velluto rosso per poggiare i gomiti. Sento il rumore delle nostre stoffe sintetiche che si sfiorano. Mette la sua mano sopra la mia. Il film non è comico, ma lei ride spesso.
Penso, la vicinanza di uomini tristi mette allegria?
Per un difetto di circolazione sento la mano formicolarmi, non la toglierò da quella posizione senza un buon motivo. Posso giocarmi la carta di darle un bacio e nel trambusto che ne consegue cambiare posizione.
La bacio. Lei schiude le labbra con dolcezza. Non c’è trambusto.
La mia mano sinistra resta sotto la sua stretta.
Mentre scorre il film, penso: Cosa posso offrirle? Io ho finito. Io ho finito di vivere. Sono solo un affinato interprete di malattie senili. Sarebbe impensabile, impossibile, ricominciare.
Mi sento una recluta, la sua vicinanza mi intimidisce, e comunque crea uno spazio incantevole intorno a me. Gli scarti, gli inassimilabili residui, l’inutilità di tutto quello che circonda la Foresta, lo lascerò là. Domani mi metterò al sicuro tutto il giorno accanto a lei.
Abbatterò la natura impervia e ostile della mia esistenza.
Se resettare tutta una vita, non sarà proprio facile.
Ci proverò.