Bill Kanoska, da tutti conosciuto come Sequoia Bill, era stato trasferito da un paio di settimane nel braccio della morte dell’Oregon State Penitentiary di Salem. Il suo destino era segnato, a meno di un clamoroso colpo di fortuna che riteneva poco probabile.
La sua gente era stata sterminata senza pietà nel corso del secolo appena concluso e sospettava che anche nel 1903 giocare ad ammazza l’indiano potesse essere un passatempo gradito all’uomo bianco.
Non aveva ucciso lui quegli uomini. Si era proclamato innocente più volte, ma nessuno gli aveva creduto.
Cambiò posizione sulla branda, rivolgendo il viso verso il muro di pietra della cella. Guardò con stupore i segni che ne rigavano la superficie. Fece scorrere la mano sulle pietre: erano fredde.
Immaginò le unghie degli altri condannati prima di lui cercare inutilmente una via di fuga verso la libertà. Si domandò quanti fossero impazziti là dentro, nell’attesa di finire appesi a una forca.
Lui invece era sereno. Non perché non avesse timore della morte, ma perché sapeva cos’era accaduto a quegli uomini. Avrebbe potuto trovarsi al loro posto e invece l’aveva scampata.
C’era modo e modo per morire.
Chiuse gli occhi e sospirò.
Anche se nessuno gli aveva creduto, accusandolo dei delitti, Bill conosceva la verità: la colpa era dello spirito che viveva nella foresta.
Alle soglie dei vent’anni, Sequoia Bill, lasciò il Minnesota, la sua terra d’origine, spingendosi a ovest in cerca di fortuna. Durante il viaggio si adattò a fare ogni tipo di lavoro: lavapiatti, fattorino, facchino, lustrascarpe, minatore. Nelle città in cui approdò, si fermò quel tanto che gli consentisse di guadagnare i soldi necessari per prolungare il tragitto verso ovest. Non sapeva quello che avrebbe trovato alla fine della traversata, ma sin da ragazzo aveva capito che la sua anima irrequieta non era fatta per stare troppo tempo in un posto.
E così, dopo diversi mesi, raggiunse la California. Con gli ultimi soldi rimasti acquistò il biglietto ferroviario che lo condusse fino alla cittadina di Eureka, nel nord dello stato. Là nacque il suo soprannome, dopo che iniziò a lavorare come taglialegna nelle immense foreste di sequoie della zona. Bill superava i due metri di altezza e pesava circa centodieci chili: era immenso, un gigante che sovrastava di parecchio tutti gli altri uomini.
«Hei, Bill, fai impressione» gli disse un tizio a cui mancava un orecchio, «sei grosso e imponente come una sequoia.»
Da quel giorno per tutti il suo nome diventò Sequoia Bill.
La California non era affatto male. Il lavoro era duro, ma la paga buona.
Bill iniziò a pensare di trasferirsi definitivamente a Eureka, sforzandosi di venire a patti con la propria natura inquieta, ma ben presto quel progetto andò in fumo a causa di una rissa. Aveva passato la serata alla taverna, a bere con un paio di amici, quando un altro gruppo di taglialegna iniziò a infastidirlo. Bill cercò di mantenere la calma, fin quando fu costretto a seguire gli attaccabrighe fuori dal locale. Erano tutti visibilmente ubriachi, facevano fatica a stare in piedi, però a un certo punto era spuntato un coltello. La lama aveva colpito di striscio il braccio di Bill, facendolo sanguinare. La vista del sangue fece scattare in Bill l’istinto di sopravvivenza: in men che non si dica atterrò i facinorosi, poi afferrò il coltello. Se lo passò tra le mani alcuni istanti e con un grido animale lo piantò furiosamente nella pancia di quello che lo aveva ferito. Era fuori di sé, ribolliva di rabbia. Forse avrebbe colpito ancora se le urla di dolore del poveretto non l’avessero fatto desistere dal proposito.
«Cazzo, Bill, guardalo. Butta sangue come un maiale» disse uno degli amici. «Devi andartene da qui.»
«Come?» Bill non capiva.
«È una brutta ferita del cazzo. Se questo stronzo ci lascia le penne per te è finita.»
Bill rimase imbambolato a guardare la camicia dell’uomo diventare sempre più scura.
«Diavolo, Bill, te ne vuoi andare?»
Nel frattempo dalla taverna erano usciti alcuni curiosi per capire cosa stesse succedendo. Le risse erano all’ordine del giorno e non destavano più alcun interesse. Di solito si risolvevano in un paio di minuti, ma era già passato parecchio tempo da quando i due gruppi di boscaioli erano usciti per regolare i conti.
«Tieni, prendi questi soldi e sparisci. Buona fortuna, Bill» aggiunse ancora l’amico spingendolo via da lì.
Fu allora che Bill comprese davvero la portata di ciò che aveva fatto e scappò via, senza voltarsi indietro, accompagnato dalle voci degli uomini che cercavano di bloccare l’emorragia.
Guardò il cielo, provando a orientarsi con la luna e le stelle.
C’era una sola possibilità: sarebbe andato verso nord, attraversando la foresta. Doveva passare il confine ed entrare in Oregon.
Camminò diversi giorni, fermandosi soltanto qualche minuto per riposare e la notte per dormire. Marciava dall’alba al tramonto, nutrendosi di erbe, frutti e insetti e dissetandosi con l’acqua che si accumulava in abbondanza sopra al muschio. Non era tranquillo.
Sperava di riuscire ad attraversare il confine senza difficoltà.
Si augurava anche che il bifolco potesse salvarsi, non perché gli importasse qualcosa di lui, ma perché se fosse sopravvissuto c’erano maggiori possibilità di passarla liscia.
Ma era la foresta a inquietarlo maggiormente. Era come se ci fosse qualcosa lì con lui, qualcosa di non umano, nascosto tra gli alberi, che lo osservava senza sosta. Una presenza indefinita che gli faceva visita anche nei sogni, facendolo svegliare nel cuore della notte sudato e impaurito sotto un mantello di tenebra.
Quando superò il confine di stato la sua mente visualizzò l’immagine di un cervo col ventre squarciato, le interiora sparse sul terreno che brulicavano di larve e mosche. Si trattava del frammento di un sogno fatto quella notte, forse nelle prime ore del mattino. Non ricordava altro, anche se aveva la certezza che il resto fosse ancora peggio.
No, non era tranquillo. E aveva anche un brutto presentimento.
Proseguì il cammino, alternando boschi e strade sterrate, finché non giunse nella cittadina di Ashland. Coi soldi che aveva in tasca si poté permettere un pasto decente, un letto caldo e un biglietto ferroviario per il nord dello stato. L’obiettivo era quello di frapporre sempre più miglia tra sé e la California. Il fato lo catapultò a Portland, dove trovò lavoro sempre come taglialegna. Si trasferì in un piccolo villaggio formato esclusivamente da boscaioli, situato nelle valli boscose della Catena delle Cascate. In quella zona non c’erano sequoie, bensì pini, larici e abeti, ma il suo nome non mutò. Si presentò come Sequoia Bill e tutti impararono a chiamarlo così. S’integrò in poco tempo nella piccola comunità e divenne buon amico di tutti.
L’inquietudine passò, assieme ai brutti sogni e ai cattivi presentimenti.
«Davvero sono così grosse?»
Bill si stava lavorando con Frederick un grande abete. Impugnavano una sega dal doppio manico, cercando di allargare il solco provocato dall’accetta. Fred era quello con cui aveva legato di più, lui e Sam Holligan. Non a caso loro tre, assieme a un antipatico grassone irlandese, dividevano la stessa baracca di legno.
«Te lo giuro, Fred. In California ho visto delle sequoie che neppure sei uomini erano in grado di abbracciare tenendo le braccia ben tese.»
«Da non crederci, cazzo. Sei uomini.»
Fred si fidava di Bill, non credeva che potesse prendersi gioco di lui. Eppure sei uomini erano davvero tanti.
«Pensa che una volta un tale, prima dell’abbattimento, si è sdraiato nell’incisione e si è fatto fotografare in quella posa. C’è stato tutto, dalle scarpe al cappello.»
«Incredibile, davvero. Scommetto che tu non ci hai mai provato, perché sapevi che il giochetto non ti sarebbe riuscito.»
Sequoia Bill scoppiò a ridere, portandosi dietro anche la risata dell’amico.
«Che avete da ridere, voi due?»
Sam Holligan li raggiunse, un sandwich di carne tra le mani.
Bill e Fred guardarono gli altri; il caposquadra aveva già dato il segnale per il pranzo e loro non si erano accorti di nulla.
«Niente, Bill mi stava parlando di alcune sue parenti» ridacchiò Fred, armeggiando col cestino.
Sam sorrise, poi si fece serio tutto d’un tratto.
«Avete sentito niente ieri notte?»
La voce di Sam era titubante. Quella mattina non aveva detto niente agli amici perché non voleva sembrare sciocco, ma adesso si era fatto coraggio.
Bill e Fred si guardarono scuotendo la testa.
«Cosa avremmo dovuto sentire?» chiese Sequoia Bill.
«Un rumore. Un lamento agghiacciante che proveniva dalla foresta.»
Gli altri due scossero ancora la testa.
«Sì, un verso lugubre che mi ha gelato il sangue. Ho provato a riaddormentarmi, a fare finta di niente, ma ho continuato a sentire quel lamento.» Sam deglutì a vuoto e abbassò lo sguardo. «Così ho preso la lanterna e sono uscito per vedere. Ho puntato la luce in direzione della foresta, ma non ho visto nulla. Però vi giuro che è vero…l’ho sentito quel lamento, non me lo sono sognato.»
«Hei, amico, calmati» disse Frederick.
Sam rialzò lo sguardo. Tremava.
«Anche O’Sullivan l’ha sentito. Dice che si tratta dell’anima dannata dell’avventuriero che si è perso nella foresta.»
Bill guardò Fred con aria interrogativa.
«Uno che veniva da fuori, un tizio di città, San Francisco mi pare. Si è smarrito nella foresta lo scorso inverno e non è più stato ritrovato.»
Bill pensò alle leggende degli Ojibwa che gli raccontava suo nonno, ma scacciò subito quel pensiero.
«Magari si tratta di suggestione, Sam. Forse è solo il vento che viene da nord che soffia tra gli alberi. Il freddo e l’inverno stanno per arrivare.»
«Già, magari è così» rispose Sam, senza convinzione.
Quella notte Bill fu svegliato dai due amici.
«Ascolta Bill, ascolta bene. Pensi ancora che la mia sia suggestione?»
Squadrò Sam in modo torvo e si tirò su dal letto.
«Che ore sono?» domandò con fare brusco.
«Bill, l’ho sentito anch’io» disse Fred. «Una sorta di ululato, un lamento innaturale. Dobbiamo andare a vedere.»
I due avevano già acceso la lanterna e si stavano vestendo.
«Un ululato hai detto? Magari sono lupi.»
Fred e Sam fecero cenno di no.
«So riconoscere l’ululato di un lupo quando lo sento. No, dobbiamo scoprire di cosa si tratta. Vieni con noi?»
Bill esitò. Le leggende del suo popolo gli vorticavano senza sosta nella mente. Non sapeva che fare; era spaventato, ma non voleva lasciarli da soli.
«Ma di che hai paura?» lo incalzò Fred. «Grande e grosso come sei.»
«D’accordo, andiamo pure. Ma se non troviamo niente ce ne torniamo subito dentro, intesi?»
Mentre si vestiva, Bill osservò O’Sullivan che dormiva beato. Lo invidiò come nessun altro in tutta la sua vita.
I tre boscaioli lasciarono la baracca, le scuri strette nelle mani e le lampade davanti al viso a illuminare l’oscurità. Faceva freddo quella notte d’inizio ottobre. Anzi, si gelava, un gelo che ti entrava dentro sino a stritolarti le ossa. Procedettero uno affianco all’altro verso il limitare della foresta, sin quando un verso inumano li bloccò. Si guardarono in faccia come a chiedersi se aveva senso ciò che stavano facendo, poi Bill ruppe lo stallo e avanzò tra gli alberi. Stringeva l’accetta con forza, pronto a calarla su qualsiasi cosa gli si fosse parata davanti. Fred e Sam lo seguivano a qualche passo di distanza.
Il bubbolio di un gufo bucò l’aria e in quel momento a Bill parve di vedere un’ombra muoversi tra gli alberi. Agì d’istinto e si gettò all’inseguimento. La lanterna dondolava nella sua mano come una nave nel mezzo di un mare in tempesta, creando ombre minacciose dietro ogni tronco. Correva veloce, in modo da dominare la paura, poi un grido agghiacciante gli trapassò il cervello. Lo strillo terrorizzato di un uomo.
«Bill, aiutami, per l’amor di Dio.» Riconobbe la voce di Sam, alla quale si aggiunse subito dopo quella di Fred.
«Aiuto, mio Dio, no, no!»
L’indiano tornò sui propri passi e si precipitò in direzione delle voci.
Avanzò dentro il cuore della foresta, seguendo le suppliche dei suoi compagni di lavoro, finché d’un tratto non sentì più nulla.
Continuò ad avanzare, più lentamente, scrutando dentro ogni ombra.
A terra notò le scuri e le lanterne di Sam e di Fred, poi, vicino all’entrata di una caverna, trovò quello che doveva essere Fred. Gli mancava mezza faccia, la cassa toracica era quasi completamente esposta per via delle carni dilaniate. S’inginocchiò e scosse il corpo, ben sapendo che non c’era più nulla da fare. Fissò l’unico occhio rimasto di Fred e si rialzò, gli abiti appiccicosi del sangue caldo dell’amico.
Avrebbe dovuto scappare, correre il più lontano possibile, ma non ci riuscì. Ora doveva sapere, anche a costo di fare una fine orribile.
Si avvicinò all’imbocco della grotta e lo vide.
Era proprio come narravano le storie e le leggende della sua tribù. La creatura era china sul ventre di Sam e gli stava divorando gli intestini. La pelle appiccicata al corpo scheletrico lasciava vedere le ossa delle scapole e della colonna vertebrale. Le fauci sproporzionate tranciavano grossi brandelli di carne, con gli artigli lunghi e affilati che scavavano nuovi cunicoli sanguinolenti nel corpo martoriato.
Quell’essere demoniaco stava divorando Sam e pareva ingrandirsi a vista d’occhio, boccone dopo boccone: le gambe, le braccia, il teschio di cervo sormontato da palchi infiniti. Rabbrividì, sapendo che quello era soltanto l’inizio, dato che più diventava grosso e maggiore era il suo bisogno di carne umana per placare la fame.
Si ritrasse in silenzio, stordito da quelle immagini di morte, dalla puzza di cadavere che aleggiava su ogni cosa e dal terrore di poter diventare il prossimo pasto del Windigo. Camminò e pregò, voltandosi indietro a ogni passo, aspettandosi ogni volta di vedere la creatura proprio dietro di lui, pronta a divorargli corpo e anima. Solo quando si sentì più sicuro, iniziò a correre come un dannato, senza voltarsi, senza prendere fiato, finché non si ritrovò al villaggio.
Mancava poco all’alba. Appena entrò in casa svegliò O’Sullivan, poi bussò alla porta di ogni baracca per raccontare ciò di cui era stato testimone. Nessuno volle credergli e non li biasimò per questo, visto che lui stesso faceva una fatica immane a concepire ciò che aveva visto.
Venne organizzata velocemente una spedizione alla caverna, ma quando furono sul posto non trovarono nulla: nessun cadavere, nessuna traccia di sangue, neppure un osso o un brandello di carne.
Il Windigo aveva divorato tutto.
Le uniche tracce visibili imbrattavano i vestiti di Bill, nette e inequivocabili tracce di sangue che, anche in assenza dei corpi, furono sufficienti a garantirgli una duplice accusa di omicidio.
Con l’arrivo del freddo e della neve l’attività di taglio si fermò e il villaggio venne abbandonato dai boscaioli in attesa della bella stagione.
Forse fu un bene, perché il Windigo non causò più altre vittime, ma questo sancì per tutti la colpevolezza di Sequoia Bill.
Bill si spostò ancora sulla branda e riaprì gli occhi.
Riusciva a vederlo, là nella penombra, le mani con gli artigli uncinati che stringevano le sbarre. Sentì il rumore della bava che scivolava giù dalla bocca mostruosa della creatura e andava a raccogliersi in una pozza sul pavimento. Percepì anche l’olezzo di morte e carne in decomposizione che scaturiva da quel corpo demoniaco.
Quasi ogni notte sognava Sam e Fred, stesi nella foresta con i corpi martoriati. Non dicevano niente, lo guardavano soltanto con occhi supplichevoli, quasi a volergli chiedere scusa.
Ora la creatura non era più fuori dalla cella, ma dentro. Il puzzo di putrefazione si era fatto insopportabile.
Bill si tappò naso e bocca con l’incavo del braccio e aspettò che tutto finisse. L’allucinazione non durava mai più di qualche minuto, ma era sufficiente a fargli desiderare di essere morto.
Per fortuna molto presto sarebbe stato accontentato.