L’unico suono che poteva udire era il ritmo del proprio respiro che sibilava nei polmoni per poi disperdersi nell’aria secca del mattino. Aria che entrava, aria che usciva.
Tutto intorno silenzio.
Con ogni fibra del corpo cercava di restare concentrato su questo meccanismo apparentemente semplice, ma vitale: un passo - respiro, un altro passo - respiro.
Nessuna distrazione, nessuna concessione alla mente o anche solo alle emozioni. Ogni energia doveva essere conservata per mettere avanti un passo dopo l’altro, per collezionare un respiro dietro l’altro.
Il sole si era appena affacciato all’orizzonte, abbagliante nel cielo impietosamente terso, e già i suoi raggi gli ferivano lo sguardo. L’aria rovente permeava lo spazio intorno a lui tra misteriose forme plasmate dal vento, in un gioco suggestivo di luci e di ombre.
I suoi passi affondavano pesanti nella sabbia finissima sollevando sbuffi di polvere. Ad ogni affondo l’uomo si sentiva sprofondare e ogni volta riemergere gli costava sempre più fatica. La sabbia scricchiolava sotto i piedi e quel crepitio, accompagnato dal ritmo del respiro, gli rimbombava nelle orecchie, esplodendogli nella testa in fitte lancinanti.
Non sapeva dire da quanto tempo fosse in marcia, da quante ore, o forse erano giorni? Da quando la tempesta di sabbia lo aveva distaccato dalla carovana, portandolo alla deriva in quel mare di dune dorate, non era più stato in grado di ritrovare la pista, cancellata da altra sabbia che era calata come una coltre a coprire le tracce e i sentieri, se mai ve ne erano stati.
E ora si ritrovava in balia del deserto, faccia a faccia col proprio destino, senza sapere se la direzione che aveva preso lo stesse portando da qualche parte o se, invece, stesse semplicemente girando in tondo.
Credeva di conoscerlo a fondo il deserto, ma ora se ne sentiva completamente soggiogato. Da sempre aveva subíto il suo fascino e negli anni in cui vi aveva trovato rifugio era arrivato perfino ad amarlo. Un essere palpitante, che dietro a un’apparente immobilità nascondeva uno spirito indomito, capace di permeare di vita anche il più piccolo granello di sabbia. Poteva rivelarsi un amico fedele, un compagno di viaggio, ma bisognava guardarsi dal sottovalutarlo o dal credere di poterlo dominare. Da placida distesa di sabbia era in grado di trasformarsi in un vendicatore implacabile, pronto a fagocitare ogni anelito vitale. Una confidenza mal riposta avrebbe potuto rappresentare un errore fatale, l’uomo lo sapeva.
Sospirando, si passò una mano sul viso ispido e decise di affidare la propria speranza all’otre che portava in spalla: finché vi fosse stata acqua, avrebbe potuto concedersi il lusso di illudersi. Poi ci sarebbe stato solo il deserto e, infine, l’oblio.
Un improvviso bagliore all’orizzonte catturò la sua attenzione e per la prima volta da ore il ritmo passo-respiro si arrestò. Schermò gli occhi con la mano cercando di scrutare lontano, dove cielo e terra si fondevano nella calura, ma la luce che riverberava dalla sabbia gli ferì lo sguardo e la vista gli si annebbiò. Si passò la lingua sulle labbra aride e la pelle spaccata gli restituì una sensazione ruvida e sconosciuta.
Riprese a camminare con rinnovato vigore: possibile che in fondo all’ultima duna avesse visto qualcosa?
Cercò di mettere un freno alle gambe che affondavano con una cadenza rinata, sollevando spruzzi di sabbia: non poteva permettersi di sprecare energie, tuttavia quella nuova speranza gli trasmetteva una frenesia inarrestabile.
Il sole ormai era alto nel cielo e gli mordeva la pelle, ma lui continuava per la sua strada, convinto che quel bagliore non fosse solo frutto della fantasia. Istintivamente portò l’imboccatura dell’otre alle labbra riarse e un sorso d’acqua scese rapido in gola, poi ne seguì un altro e un altro ancora. Non si curò più di bere con parsimonia, perché di lì a poco sarebbe stato in salvo, se lo sentiva.
Con le ultime energie che gli derivavano da questa fiducia affrontò l’ultima duna, la più alta, la più friabile, la più ostica. Affondò il passo con insospettabile energia, si inerpicò, barcollò, scivolò e, senza arrendersi, attaccò di nuovo la china finché l’uomo ebbe la meglio sulla natura selvaggia.
Un ultimo passo e fu sulla cresta, così in alto che gli parve di poter intingere un dito nell’azzurro sopra di lui. Sfinito, ma sorretto da una speranza incontrollabile, si erse dritto contro il cielo e finalmente poté ammirare ciò che si apriva davanti ai suoi occhi.
E quello che vide fu altro deserto. Immenso, accecante, infuocato.
Un susseguirsi di dune, che si rincorrevano a perdita d’occhio fino all’orizzonte infinito.
Allora l’uomo, con tutte le forze che gli erano rimaste, lanciò un ultimo grido contro la sorte beffarda, un urlo straziante. Poi si accasciò sulla sabbia rovente e abbandonò il capo in attesa del proprio destino.
Giaceva tra le dune, unica macchia bruna nella distesa dorata, quando intorno a lui si sollevò un mulinello d’aria e un velo di polvere gli infarinò i capelli, incipriandogli la pelle riarsa.
Il deserto, quel gigante all’apparenza inerte, si era rivelato ancora una volta spietato e onda dopo onda aveva finito col ghermirlo, ricoprendolo di sabbia vellutata fino a plasmare un piccolo dosso, una virgola infinitesimale in un oceano di dune.
Poco prima del crepuscolo da ponente apparve un’ombra leggera che si disegnò sulla sabbia, passò sopra il piccolo dosso e lo superò.
Ma l’uomo non se ne avvide.
Non alzò lo sguardo e non scorse l’ala bianca del gabbiano che stava solcando il cielo, salendo dal mare nascosto dietro le dune.
Né poté dare una forma alla propria speranza, perché ora l’uomo e il deserto erano una cosa sola e su di lui il deserto avrebbe vegliato per sempre.
Tutto intorno silenzio.
Con ogni fibra del corpo cercava di restare concentrato su questo meccanismo apparentemente semplice, ma vitale: un passo - respiro, un altro passo - respiro.
Nessuna distrazione, nessuna concessione alla mente o anche solo alle emozioni. Ogni energia doveva essere conservata per mettere avanti un passo dopo l’altro, per collezionare un respiro dietro l’altro.
Il sole si era appena affacciato all’orizzonte, abbagliante nel cielo impietosamente terso, e già i suoi raggi gli ferivano lo sguardo. L’aria rovente permeava lo spazio intorno a lui tra misteriose forme plasmate dal vento, in un gioco suggestivo di luci e di ombre.
I suoi passi affondavano pesanti nella sabbia finissima sollevando sbuffi di polvere. Ad ogni affondo l’uomo si sentiva sprofondare e ogni volta riemergere gli costava sempre più fatica. La sabbia scricchiolava sotto i piedi e quel crepitio, accompagnato dal ritmo del respiro, gli rimbombava nelle orecchie, esplodendogli nella testa in fitte lancinanti.
Non sapeva dire da quanto tempo fosse in marcia, da quante ore, o forse erano giorni? Da quando la tempesta di sabbia lo aveva distaccato dalla carovana, portandolo alla deriva in quel mare di dune dorate, non era più stato in grado di ritrovare la pista, cancellata da altra sabbia che era calata come una coltre a coprire le tracce e i sentieri, se mai ve ne erano stati.
E ora si ritrovava in balia del deserto, faccia a faccia col proprio destino, senza sapere se la direzione che aveva preso lo stesse portando da qualche parte o se, invece, stesse semplicemente girando in tondo.
Credeva di conoscerlo a fondo il deserto, ma ora se ne sentiva completamente soggiogato. Da sempre aveva subíto il suo fascino e negli anni in cui vi aveva trovato rifugio era arrivato perfino ad amarlo. Un essere palpitante, che dietro a un’apparente immobilità nascondeva uno spirito indomito, capace di permeare di vita anche il più piccolo granello di sabbia. Poteva rivelarsi un amico fedele, un compagno di viaggio, ma bisognava guardarsi dal sottovalutarlo o dal credere di poterlo dominare. Da placida distesa di sabbia era in grado di trasformarsi in un vendicatore implacabile, pronto a fagocitare ogni anelito vitale. Una confidenza mal riposta avrebbe potuto rappresentare un errore fatale, l’uomo lo sapeva.
Sospirando, si passò una mano sul viso ispido e decise di affidare la propria speranza all’otre che portava in spalla: finché vi fosse stata acqua, avrebbe potuto concedersi il lusso di illudersi. Poi ci sarebbe stato solo il deserto e, infine, l’oblio.
Un improvviso bagliore all’orizzonte catturò la sua attenzione e per la prima volta da ore il ritmo passo-respiro si arrestò. Schermò gli occhi con la mano cercando di scrutare lontano, dove cielo e terra si fondevano nella calura, ma la luce che riverberava dalla sabbia gli ferì lo sguardo e la vista gli si annebbiò. Si passò la lingua sulle labbra aride e la pelle spaccata gli restituì una sensazione ruvida e sconosciuta.
Riprese a camminare con rinnovato vigore: possibile che in fondo all’ultima duna avesse visto qualcosa?
Cercò di mettere un freno alle gambe che affondavano con una cadenza rinata, sollevando spruzzi di sabbia: non poteva permettersi di sprecare energie, tuttavia quella nuova speranza gli trasmetteva una frenesia inarrestabile.
Il sole ormai era alto nel cielo e gli mordeva la pelle, ma lui continuava per la sua strada, convinto che quel bagliore non fosse solo frutto della fantasia. Istintivamente portò l’imboccatura dell’otre alle labbra riarse e un sorso d’acqua scese rapido in gola, poi ne seguì un altro e un altro ancora. Non si curò più di bere con parsimonia, perché di lì a poco sarebbe stato in salvo, se lo sentiva.
Con le ultime energie che gli derivavano da questa fiducia affrontò l’ultima duna, la più alta, la più friabile, la più ostica. Affondò il passo con insospettabile energia, si inerpicò, barcollò, scivolò e, senza arrendersi, attaccò di nuovo la china finché l’uomo ebbe la meglio sulla natura selvaggia.
Un ultimo passo e fu sulla cresta, così in alto che gli parve di poter intingere un dito nell’azzurro sopra di lui. Sfinito, ma sorretto da una speranza incontrollabile, si erse dritto contro il cielo e finalmente poté ammirare ciò che si apriva davanti ai suoi occhi.
E quello che vide fu altro deserto. Immenso, accecante, infuocato.
Un susseguirsi di dune, che si rincorrevano a perdita d’occhio fino all’orizzonte infinito.
Allora l’uomo, con tutte le forze che gli erano rimaste, lanciò un ultimo grido contro la sorte beffarda, un urlo straziante. Poi si accasciò sulla sabbia rovente e abbandonò il capo in attesa del proprio destino.
Giaceva tra le dune, unica macchia bruna nella distesa dorata, quando intorno a lui si sollevò un mulinello d’aria e un velo di polvere gli infarinò i capelli, incipriandogli la pelle riarsa.
Il deserto, quel gigante all’apparenza inerte, si era rivelato ancora una volta spietato e onda dopo onda aveva finito col ghermirlo, ricoprendolo di sabbia vellutata fino a plasmare un piccolo dosso, una virgola infinitesimale in un oceano di dune.
Poco prima del crepuscolo da ponente apparve un’ombra leggera che si disegnò sulla sabbia, passò sopra il piccolo dosso e lo superò.
Ma l’uomo non se ne avvide.
Non alzò lo sguardo e non scorse l’ala bianca del gabbiano che stava solcando il cielo, salendo dal mare nascosto dietro le dune.
Né poté dare una forma alla propria speranza, perché ora l’uomo e il deserto erano una cosa sola e su di lui il deserto avrebbe vegliato per sempre.