Una notte d’inverno, senza luna, perché dalla finestra non arriva neanche quel tenue chiarore a rischiarare un po’ la stanza. Che ore saranno? Le due, le tre? Nei ricordi compare improvvisa una sveglia. Una di quelle grandi, con le lancette. È la sveglia che suo nonno teneva sul comodino e che ogni sera ricaricava a mano. Aveva le linee delle ore di un tenue giallo trasparente che a volte di notte brillava. Che diamine stava sognando per essere pervaso da un ricordo così nitido? Gli sembra di sentire ancora il ticchettio regolare della lancetta dei secondi, che a volte lo cullava col suo ritmo da ninnananna e a volte lo teneva sveglio come se ogni secondo fosse un colpo di martello.
Sete.
Ha le labbra appiccicate e un gusto amaro in bocca. Questa sensazione lo riporta al presente e, nonostante il buio, riesce a vedere o, più che altro, ad immaginare le cose intorno a sé. Una fitta al collo lo sveglia del tutto. Si massaggia con la mano e si tira su a sedere. Si è addormentato sul divano, come ogni sera. Con un piede urta il telecomando che gli è scivolato a terra, lo raccoglie e lo posa sul tavolino, poi trova con le mani il cellulare e guarda l’ora. Le quattro.
Bere.
Rimane un istante seduto ad aspettare, deve bere, assolutamente, ma qualcosa lo trattiene. Ha come la sensazione di aver lasciato qualcosa di bello. Nonostante non ricordi cosa stesse sognando sente il desiderio di richiudere gli occhi e tornare là. Cerca di sforzarsi ma come accade spesso con i sogni più si cerca di ricordare più svaniscono.
In cucina accende la luce e la notte svanisce del tutto, si attacca alla bottiglia e anche la sete passa. Ora può andare finalmente a letto a rubare ancora qualche ora di sonno prima che arrivi il mattino. Si rannicchia sotto le coperte e quella sensazione dolce che aveva avuto ripensando al sogno torna di nuovo. Chiude gli occhi ansioso ed un’altra immagine ritorna alla mente.
È sempre la stanza di suo nonno, riconosce la testata di legno del letto e il rosario appeso sulla parete, proprio sopra la sua testa. A destra c’è l’armadio, con un’anta sempre mezza aperta. È la casa di Lesini, dove da bambino ha passato intere estati con suo nonno. E sul comodino la sveglia, di nuovo. Ma non è quella la parte importante del sogno, o del ricordo.
Il sonno sta per tornare e insieme al sonno quella sensazione indefinita di benessere, e di allegria. Le labbra si stendono in un sorriso.
Ha tre, o quattro anni, e il nonno lo ha portato in braccio a lungo prima di lasciarlo cadere su quel lettone morbido e immenso.
Ride. E suo nonno anche:
“Te ci ‘mbriacatu? Eh?” Ti sei ubriacato, gli dice nel suo dialetto, e insieme ridono ancora di più.
È un’immagine ricorrente, non è la prima volta che la rivede nella testa, e insieme a questa immagine ne arriva sempre anche un’altra. Fanno parte dello stesso ricordo, lui è ancora in braccio a suo nonno e stanno attraversando la piazza di Lesini. Prova a rivivere la scena, ma se ci prova riesce soltanto a vedersi da lontano: la testa abbandonata sulla spalla e il rumore dei loro passi. Il ricordo di un ricordo.
Troppi anni che non è più bambino.
Eppure, più si abbandona al buio più sente il calore di quell’abbraccio. E improvvisamente ha di nuovo quattro anni, torna leggero, sorretto da quelle braccia, cullato da quei passi.
Domattina non ricorderà più niente ma adesso, in qualche angolo della sua mente crede di aver scoperto dove siano finiti quei giorni.
Sono tutti lì, tutti in quell’istante prima di addormentarsi.