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“Rompeva più finestre lui con un pallone che i serbi con le loro bombe.”
Dipendente dell’Hotel Kolovare
Tra meno di un’ora giocherò la partita di calcio più importante della mia vita. Non penso agli avversari, non mi concentro sugli schemi, non ripercorro la mia carriera con le sue vittorie e le sue sconfitte, non parlo con i compagni.
Nel corridoio sotterraneo degli spogliatoi ripenso al muro sgangherato del parcheggio dell’Hotel Kolovare contro cui a sei anni tiravo il pallone, ripenso alle scarpette rosse con i tacchetti che mio padre e mia madre mi fecero trovare il giorno di Natale del’91 sotto la brandina del campo profughi di Zara, rivedo la mia casa avvolta dal fumo e dal fuoco, la disperazione della nonna, la paura che mi assale togliendomi il respiro.
Ho ancora nelle orecchie il frastuono delle granate e dei colpi di mortaio serbi. Rumori ancora vivi che superano prepotentemente anche le urla dello stadio. Non se ne andranno mai.
Cosa mi importa di una partita di calcio?
Non sarò mai in pace, non sono pronto, non vorrei essere qui, anche se ho fatto di tutto per giocare questa finale. Ho sognato questo momento per più di venticinque anni e adesso che sono a un passo, tutto sembra perdere di significato.
Ma ecco che sento posarsi bonariamente sui miei capelli, non più così biondi, le mani enormi e ruvide di mio nonno. Ho negli occhi il suo sorriso sdentato, le sue rughe scolpite dal vento. Mi rincuoro nei suoi occhi allegri e buoni. Ho nelle narici il suo odore e quello acre delle sue pecore. Sono a casa, sulle colline aspre della mia terra con il pallone tra i piedi, quello che lui mi ha regalato. Sorrido. Lo aspetto fino a sera per ringraziarlo. E’ buio. Non tornerà.
Non so se questa sera vincerò la Coppa del Mondo ma ho preso due impegni. Parlare con i fantasmi e restituire un sorriso.
“Rompeva più finestre lui con un pallone che i serbi con le loro bombe.”
Dipendente dell’Hotel Kolovare
Tra meno di un’ora giocherò la partita di calcio più importante della mia vita. Non penso agli avversari, non mi concentro sugli schemi, non ripercorro la mia carriera con le sue vittorie e le sue sconfitte, non parlo con i compagni.
Nel corridoio sotterraneo degli spogliatoi ripenso al muro sgangherato del parcheggio dell’Hotel Kolovare contro cui a sei anni tiravo il pallone, ripenso alle scarpette rosse con i tacchetti che mio padre e mia madre mi fecero trovare il giorno di Natale del’91 sotto la brandina del campo profughi di Zara, rivedo la mia casa avvolta dal fumo e dal fuoco, la disperazione della nonna, la paura che mi assale togliendomi il respiro.
Ho ancora nelle orecchie il frastuono delle granate e dei colpi di mortaio serbi. Rumori ancora vivi che superano prepotentemente anche le urla dello stadio. Non se ne andranno mai.
Cosa mi importa di una partita di calcio?
Non sarò mai in pace, non sono pronto, non vorrei essere qui, anche se ho fatto di tutto per giocare questa finale. Ho sognato questo momento per più di venticinque anni e adesso che sono a un passo, tutto sembra perdere di significato.
Ma ecco che sento posarsi bonariamente sui miei capelli, non più così biondi, le mani enormi e ruvide di mio nonno. Ho negli occhi il suo sorriso sdentato, le sue rughe scolpite dal vento. Mi rincuoro nei suoi occhi allegri e buoni. Ho nelle narici il suo odore e quello acre delle sue pecore. Sono a casa, sulle colline aspre della mia terra con il pallone tra i piedi, quello che lui mi ha regalato. Sorrido. Lo aspetto fino a sera per ringraziarlo. E’ buio. Non tornerà.
Non so se questa sera vincerò la Coppa del Mondo ma ho preso due impegni. Parlare con i fantasmi e restituire un sorriso.