La guerra è di tutti, ma non è per tutti.
A volte avrei voluto voltare la faccia e dirmi che no, questa guerra non mi riguardava. Ma invece ci sono entrata, di slancio, perché la guerra non è per tutti, ma qualcuno se ne deve occupare. Qualcuno deve resistere.
Fa freddo, qui. E io torno all’interno, dentro. Mi rifugio dentro di me, abbraccio i miei ricordi perché mi scaldino, perché leniscano le ferite, gli squarci. Perché mi diano forza.
Il tocco dei fascisti sulla pelle mi fa venire il vomito. Ma non parlo. Sto zitta, perché qualcuno deve resistere, sì. E io resisto.
Mi sento sporca, macchie di unto e disgusto impregnano la mia pelle, mi sento lurida e strisciante, come un verme. Emergo dal sonno e sono uno straccio buttato via. Sono solo uno straccio troppo debole per riuscire a morire. Semplicemente arranco, odiandomi ogni momento di più, odiandoli ogni giorno di più. Ogni giorno sperando in un miracolo. Vorrei solo tornare indietro e non averla fatta, quella maledetta strada. E quella maledetta promessa per salvare la mia gente.
Le promesse si mantengono, e io ci provo.
Anche se questo vuol dire morire, io ci provo.
Mi tengono sdraiata qui dentro da non so quanto, sembrano millenni e il tempo si è dilatato, le ferite pulsano ma non ho paura. Sento i rumori e le ombre che mi montano, fameliche. Ma non ho paura.
Non li vedo, ma li percepisco. Ma non ho paura, no. So che non uscirò viva da qui. Lo sento, dentro. Nel buio nel quale mi hanno fatta precipitare, è tutto più chiaro. E tutto l’orrore che mi stanno facendo vivere mi rende più forte. Morire ormai è il mio destino. Ma non tradirò.
Qualcuno deve resistere. E io lo faccio, sì, io resisto.
Non rivedrò i bambini. Questo mi fa male. Potrebbe farmi cedere, lo so. L’amore potrebbe distruggere la mia resistenza. Ma a loro io sto regalando un futuro. La guerra è di tutti, ma non deve essere loro. Devono passarle attraverso e ricostruire, domani. Ricostruire questo paese. Salvare la loro memoria. Saranno puliti, loro. Saranno liberi. Saranno in pace.
«Vieni fuori, puttanella. Dai. Fai schifo. Muoviti, andiamo». Sento i loro sputi che segnano la mia pelle. Mi trascinano, sono carponi e le ginocchia strisciano sulla strada, bruciano.
“Non ho paura” mi ripeto come una nenia “Non ho paura”. È come se la mia pelle non mi appartenesse più. Solo una parte di me che non vuole cedere all’idea della morte si rifugia nella paura. Ma il resto del corpo è in pace. Finalmente.
Mi trascinano ancora fino a pochi metri dalla mia casa. Alzo gli occhi e la vedo. Ci sono i fiori un po’ appassiti, come al solito si sono dimenticati di bagnarli. Mi chiedo come faranno senza di me, a ricordarsi di ciò che è il quotidiano. Saranno confusi, all’inizio, certo. Forse disperati. Ma poi si ricorderanno dei fiori, del becchime alle galline, di sbattere i tappeti. Sorrido.
«Lì ci sono i tuoi» mi urlano «non li rivedrai più, se non parli».
Sento la risata sgorgare spontanea. Li ferisce più di un fucile. Li vedo scostarsi, spaventati, stupiti. Questi sporchi bastardi non sanno cosa voglia dire avere un ideale, avere una missione.
Mi trascinano ancora, e ancora. Si fermano solo per riposare e per torturarmi. Ma non sento nulla, ormai. Anche se non credo in dio, un senso di serenità mi cala addosso come una carezza, come un abbraccio. Mi ci aggrappo e non ho più dolore. Non sento più la paura. La stilettata negli occhi, però, quella la sento. Dolorosa come un parto. Brucia, continua a bruciare. Il sangue mi scivola dagli occhi e sento il suo sapore in bocca.
«Basta» mormoro senza più forze.
Uno di loro si avvicina e si china su di me, lo sento ma non lo vedo. Riesco a immaginare la scena da fuori, a vedermi come sono, un ammasso di carne e sangue e polvere e sporcizia accanto a lui, perfetto nella sua splendente uniforme. Splendente, crudele e misero.
«Allora, hai qualcosa da dirci?».
«Vaffanculo». La voce esce chiaramente.
Sento la sagoma rialzarsi.
«Andiamo sulla collina, su. Facciamola finita. Questa scema mi ha stufato. Stiamo solo perdendo tempo».
Mi trascinano ancora, e so che questi sono gli ultimi momenti. Sono fiera di me.
Mi sistemano, sembrano cercare di comporre il mio corpo come un bersaglio. I passi si allontano. Caricano i mitra, uno per uno. Lentamente.
«Irma, sei ancora in tempo, su. Dicci i nomi dei tuoi compagni».
La guerra è di tutti, sì, ma non è per tutti. Eppure te la puoi prendere a cuore, sperare che finisca e fare in modo che finisca. Non solo aspettando nel calduccio della tua ipocrisia, ma resistendo, ogni giorno. Resistendo. Io resisto, sì, anche ora che la morte è a meno di un passo. Io resisto. Il silenzio è la mia forza, il silenzio salverà i miei compagni. Salverà i miei figli. Salverà il mio paese.
Le raffiche mi colpiscono senza dolore.
Posso smettere di resistere, adesso.
*Irma Bandiera fu staffetta nella 7a G.A.P; divenne presto un’audace combattente, pronta alle azioni più rischiose. Catturata dai nazifascisti, venne seviziata per sei giorni senza rivelare mai i nomi dei suoi compagni di lotta. Infine venne accecata e fucilata.