Mi è passata la voglia di vivere.
Finalmente, l’ho detto.
Questa confidenza, però, tenetela per voi. Non voglio che arrivi alle orecchie dei miei cari. Loro non vorrebbero che ne parlassi con degli sconosciuti, ma con uno bravo, professionalmente parlando. Si illuderebbero che sia una forma iniziale e lieve di depressione. Qualche pillola, due chiacchera con quello bravo di cui sopra, e tutto passa e tutto torna normale.
Ma tutto è già passato e la normalità non ha mai avuto fascino per me. Ho sempre cercato l’eccezionale, lo straordinario, il mai visto prima. Senza mai trovarlo. E ora che le probabilità di infrangere uno qualsiasi dei muri della normalità tende inesorabilmente a zero, cosa ci rimango a fare qui in mezzo a voi?
Non è depressione, è male di vivere.
E non banalizzate tutto con la retorica delle cose belle che la vita riserva. Non sperate di sorprendermi facendo finta di essere angeli vestiti da passanti. Non scambiatemi per un sangiorgi qualunque che canta la poesia di un corregionale. Ma non allarmatevi più di tanto. Non frequento ponti deserti guardando l’acqua scura. E non intendo farlo.
Ho solamente perso l’entusiasmo per la vita. Continuerò a vivere come un annoiato travet continua ad andare in ufficio. Lui aspettando la pensione, io la promozione definitiva.
Per quanto mi riguarda, in pensione ci sono già ed è un peccato perché il lavoro mi piaceva. Insegnavo chimica al liceo scientifico. A qualcuno la materia può apparire noiosa, a me sembrava eccitante. E il rapporto con gli studenti mi faceva sentire vivo e utile.
Alessandro Chiavacci me lo ricordo bene. Molto intelligente, appassionatissimo della materia, ma con un carattere particolare, forse perché aveva perso il suo papà giovanissimo. Chiuso, introverso, tendenzialmente misogino, faceva allora parte di un gruppo cattolico fondamentalista. Forse adesso lo capisco meglio, era infelice e non sapeva perché. Come me adesso.
Per un po’ siamo rimasti in contatto dopo la maturità. Si iscrisse a chimica laureandosi con il massimo dei voti. Lessi poi che aveva fondato una start-up che scoprì una molecola nuova, rivoluzionaria nel settore del tessile. Si è riempito di soldi, ma tanti, vendendo la start-up a una multinazionale. Era diventato famoso, almeno sulle riviste di business o su quelle specializzate di chimica.
La sua telefonata mi stupii; ma visto la totale noia piatta sulla quale la mia vita navigava, apprezzai molto il suo strano e inatteso invito a pranzo. Dopo la vendita della sua azienda aveva comprato un intero palazzo in una zona centrale della nostra città. Abitava da solo perché poco prima dei suoi successi imprenditoriali anche sua mamma era morta.
“Professore, non sa che piacere mi ha fatto accettando il mio invito. La trovo benissimo. Il tempo non è passato per lei”
“Chiavacci, non dire minchiate e non fare finta di essere Minoli.”
Giovanni Minoli era un suo compagno di classe che faceva dell’adulazione dei professori una professione. Non a caso ha fatto una brillante carriera.
“L’unico vantaggio nell’essere rotondetto è che le rughe si vedono meno. Ma non chiamarmi più professore; io ti dovrei chiamare dottore. Dai diamoci entrambi del tu”.
“Non si dispiaccia, ma questo non è possibile. Lei non è un professore, lei è il professore e per me lo sarà sempre. Tutto questo è in fondo anche merito suo. Pensi se mi fosse piaciuta la Villani e il suo latino, come me lo compravo questo palazzo?”
Cominciammo a chiacchierare, seduti su uno scomodissimo divano di design. Aprì una bottiglia di spumante italiano di gran marca. Apprezzai il fatto che non si fosse corrotto con lo champagne. Mi sembrò in parte migliorato: maggiore capacità comunicativa e un comportamento molto più spigliato. Ma aveva messo su un cipiglio arrogante che quindici anni fa non aveva. Probabilmente, un sottoprodotto del successo. Il suo sguardo aveva un retrogusto triste che il sorriso di cortesia non riusciva a nascondere.
Chiesi – non è quello che deve fare un insegnante con un ex alunno? – notizie degli altri, oltre a Minoli, compagni di classe, almeno di quelli di cui mi ricordavo. Mi sorpresero le parole sprezzanti che usò.
“Se la ricorda la Mingardi, professore?”
Certo che la ricordavo: una bellissima ragazza, molto religiosa, tutta casa e chiesa si sarebbe detto ai miei tempi. Se mi ricordo bene, frequentava lo stesso gruppo religioso di Chiavacci.
Al mio cenno di assenso, chiosò con uno sguardo cattivo: “Adesso la trova su OnlyFans.”
Non so benissimo cosa OnlyFans sia, ma temo abbia a che fare con la pornografia.
Non ne seppi molto di più perché in quel momento entrò una signora non più giovanissima, ma ancora avvenente e con lo sguardo vivace e intelligente.
“Dottor Chiavacci, il pranzo è pronto”
“Grazie Nunzia, questo è il mio ex-professore di chimica, te ne ho parlato. Lascia stare i formalismi”
Poi rivolto a me: “Nunzia era la cameriera dei miei genitori, mi ha fatto anche da tata. Ora lavora con me. È una di famiglia.”
Il pranzo fu squisito. Cucina tradizionale di ottimo livello. L’amarone della Valpolicella si sposava soavemente con il ragù di cinghiale e con le costolette di agnello. Una cosa era certa, il successo non l’aveva fatto diventare vegetariano.
Durante il pranzo parlammo tanto. Mi chiese della mia vita, delle mie figlie, di mia moglie, morta l’anno scorso, di come era l’esistenza da vedovo e pensionato. Mi raccontò delle trattative con i rappresentanti della multinazionale cui aveva venduto la sua azienda e il suo brevetto. Li disprezzava. Tutte le volte che cercai di portare il discorso su di lui e sulla sua vita personale, fu sfuggente e restio. L’unica cosa personale che mi confidò, fu il desiderio di fare il giro del mondo su un aereo privato. Se lo sarebbe potuto permettere, mi disse.
Mentre indossavo il cappotto per andare via, fui sorpreso da una duplice sensazione, vaga, imprecisa ma forte. Chiavacci era solo, infelice e arrabbiato col mondo. Quando si dice che i soldi e il successo non fanno la felicita, lui sembrava il caso da manuale. Non disprezzava solo i manager della multinazionale: odiava tutto il genere umano. La seconda sensazione era anche più indefinita e non riuscivo a metterla a fuoco: inquietudine? compassione? paura?
Vi devo confessare che mentre nel salutarci avevamo manifestato entrambi il classico e spesso ipocrita, augurio di rivederci quanto prima, io speravo proprio di non incontrarlo più. Già avevo i problemi miei, caricarmi anche quelli di Chiavacci, mi sembrava troppo. Semplicemente, la sua inquietudine destabilizzava ulteriormente la mia.
Fuori pioveva e mi avviai a passo svelto verso casa. Contavo di mettermi seduto tranquillo in poltrona a smaltire sonnecchiando l’amarone.
“Professore”, mi sentii chiamare. Mi volsi ed era Nunzia.
“Professore, mi permette una parola?”
“Certo Nunzia, mi dica”.
“Come ha trovato Alessandro?”
La domanda mi spiazzò. Non era la domanda di una dipendente, era la più la domanda di una mamma ansiosa. Ed era anche una di quelle domande difficili. Sapresti in teoria cosa rispondere, ma non sai se abbia senso essere completamente sinceri. L’esperienza mi consigliò di rispondere con un’altra domanda.
“Perché Nunzia, c’è qualcosa che non va?”.
“Si, professore”.
Entrammo in una sala da tè, di quelle eleganti e fighette del centro.
“Sono molto preoccupata, per lui e per tutti” mi disse, appena il cameriere si dileguò con le nostre ordinazioni.
Mi raccontò una storia che definire incredibile è poco.
Il primo problema che mi posi fu se crederle. Sembrava una storia scritta da un soggettista ubriaco di un fumettone di serie B. Ma lo risolsi subito: Nunzia mi sembrava sincera e non vedevo ragioni per inventarsi una storia così estrema. Inoltre la storia era certamente incredibile, ma dopo due ore con Chiavacci non mi sembrava del tutto implausibile.
Il secondo problema era parecchio più complicato da risolvere: cosa dovessi (e potessi) fare. Ci dovevo pensare con attenzione.
Poteva un anziano professore di una città di provincia salvare il mondo? E poi lo voleva fare? Non avessi due figlie, avrei fatto finta di niente: mi era stato appena consegnato un biglietto per assistere al più potente spettacolo possibile: la fine del mondo. L’ultima promozione era nell’aria e io l’avrei attesa divertendomi e sapendo cose che nessuno al momento sapeva.
Vaffanculo a tutti, o come suolsi dire oggigiorno, vaffanculo a tutte e a tutti. Il miglior modo per lasciare in compagnia questo mondo!
A che ora è la fine del Mondo, che rete è?
Io lo sapevo con precisione.
Ma due figlie il destino me le aveva regalate e le amavo più della mia vita. Mia moglie prima di andarsene me le aveva affidate. Volevo vederle vivere, non dico felici – in questo mondo la felicità appare sempre più un lusso per pochi - ma tranquille senza lottare e soccombere contro un nemico terribile.
La scelta più facile era rivolgersi alle autorità. Mi avrebbero creduto? Temo di no. Avrebbero avuto la stessa reazione che state avendo voi.
“Guarda le palle che racconta questo vecchio!”
E’ quello che avrei pensato anche io. Due protagonisti quando mai inverosimili: un mediocre professore attempato che accusa un imprenditore famoso.
Anche perché Nunzia era stata perentoria e chiara: lei dalla polizia non ci sarebbe andata e se l’avessi tirata in ballo avrebbe negato tutto.
Tornai il giorno dopo da Chiavacci. Prima di bussare mi vennero mille dubbi.
Vecchio professore, cosa vai cercando in quel portone?
Apparve sinceramente contento di vedermi e pranzammo di nuovo insieme. Mentre il giorno prima avevo tentato di smorzare i suoi toni rancorosi e apocalittici, questa volta seppur cautamente lo assecondai. Anche per me il mondo era corrotto irrimediabilmente e il genere umano destinato all’estinzione per via delle sue stesse scelte dissennate. Cominciò una frequentazione costante fra due persone sole e solitarie, per scelta lui, per le vicende della vita, io.
Nei libri di testo sui serial killer si sostiene la tesi che almeno alcuni facciano il tifo per chi dà loro la caccia. Vorrebbero porre fine alle loro azioni ma non sono capaci di farlo; inconsciamente sperano che la polizia lo faccia. Magari anche Chiavacci apparteneva a questo gruppo.
Non mi aiutarono, tuttavia, manuali o bignami di psicologia, quanto quello che lo zio Angelo mi aveva insegnato. Con il fratello di mio padre andavo spesso a pesca.
“Quando senti il pesce abboccare, tu dagli lenza.”
“Lui si sentirà tranquillo, abbasserà le difese e ingoierà l’esca e l’amo. E in quel momento è tuo e puoi tirarlo in barca.”
Benché si assomigliassero molto fisicamente, mio padre e suo fratello erano agli antipodi in quanto a modo di vivere. Il primo aveva adottato l’etica del lavoro, mio zio l’etica della vita.
“Si lavora per vivere, non si vive per lavorare. La felicità te la danno solo le cose che non puoi comprare:”
Dove staranno adesso, avranno raggiunto un compromesso: in quel posto non si lavora e non si pesca.
Destinazione paradiso, paradiso città.
Una ventina di giorni e tante ore di colloquio dopo, ero riuscito a tirare il mio tonno in barca. Era stata dura, una battaglia continua a dare lenza e a raccoglierla: una danza estenuante fra pescatore e preda. Zio Angelo sarebbe stato orgoglioso di me.
Mi spiegò il suo piano: erano riusciti, grazie a sofisticate tecniche di ingegneria genetica, a creare un batterio con due particolarità. Una quasi perfetta resistenza agli antibiotici esistenti e una elevatissima capacità di contagio, attraverso il respiro, da una persona all’altra. L’incubazione era relativamente rapida, meno di una settimana, mentre le probabilità di sopravvivenza, data la forte aggressività del batterio, molto basse. Siccome il batterio era una loro creazione, avevano individuato in contemporanea anche un antibiotico in grado di fermarlo. La sua idea era di diffondere capillarmente il batterio durante il suo viaggio in giro intorno al mondo. Aspettare che si diffondesse. Alcune decine di milioni di morti dopo, quando il mondo era nel mezzo di una straordinaria pandemia, il grande Chiavacci e la sua impresa avrebbe annunciato la scoperta del batterio e l’avrebbero reso pubblicamente disponibile senza chiedere alcuna royalty per la loro produzione. Sognava di diventare il salvatore della patria o meglio del mondo intero.
Un sogno, direste voi, un po’ infantile; condivido. Ma il personaggio aveva di queste contraddizioni: una mente geniale nella psiche di un ragazzino complessato in cerca di una rivincita nei confronti del mondo.
Aveva comportamentalizzato la sua azienda in modo così ferreo – adducendo motivi di sicurezza – che nessuna sapeva bene quel che gli altri dipartimenti facevano e nessuno in azienda era al corrente delle vere finalità della ricerca e della produzione.
Il suo piano presentava una fallacia scientifica di un certo peso. Una volta rilasciato in natura e passato da soggetto a soggetto, esisteva il rischio fortissimo che il batterio si modificasse geneticamente. Se le varianti fossero state tante e molto diverse dal ceppo originario, vi sarebbe stato il rischio concreto che l’antibiotico già sviluppato si rivelasse inefficace. In quel caso il mostro creato a tavolino sarebbe divenuto ingovernabile. Un classico, almeno nella letteratura, dal Frankenstein di Mary Shelley in poi.
Se avevo individuato io la falla teorica del suo folle progetto, l’aveva capita sicuramente anche lui, molto più bravo di me. Probabilmente era il suo piano B, e tanto peggio per tutti. O magari era il suo piano A e il racconto sulla produzione dell’antibiotico era solo una pezza per convincere il vecchio professore.
Ora conoscevo molte più cose e andare alla polizia sarebbe stato più semplice. Ma mi ero affezionato a Chiavacci e io quando voglio bene divento fin troppo indulgente. Non volevo darlo in pasto alla stampa. Avrebbero intinto il biscotto nella storia del grande e geniale imprenditore che si rivelava un pazzo criminale. Tanti invidiosi imprenditori mediocri avrebbero stappato bottiglie di costoso champagne alla notizia! Non lo potevo permettere.
Affronterò la vita a muso duro, un guerriero senza patria e senza spada, con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
Fosse così semplice.
Fortunatamente la salute di Chiavacci peggiorò repentinamente. Probabilmente l’avvicinarsi della data prevista per l’inizio delle operazioni aveva aumentato lo stress, facendo franare l’ultima diga di buon senso che la sua psiche potesse usare. Un giorno mi confidò, seriamente preoccupato, che sentiva delle voci, sempre più invadenti e frequenti. La cosa lo aveva spaventato e parecchio. Le voci non solo lo impaurivano ma lo umiliavano facendolo sentire un burattino telecomandato.
Decisi di giocare il tutto per tutto. Gli consigliai di consultare un medico, con la scusa che, visto che la data dell’entrata in azione si avvicinava, lui doveva essere perfettamente lucido. E qui entrò in campo il dottor Panzera, uno psichiatra di ottima esperienza e molto capace. Il fatto che fosse anche mio cognato non guastava. Lo avevo informato parzialmente della situazione.
Dopo una settimana di trattamento intensivo, Panzera lo convinse a farsi ricoverare in una clinica svizzera – dove se no! Qui i ricconi vanno a trattare, nella massima discrezione, le loro dipendenze e i loro problemi psichiatrici.
Il mondo era salvo.
Sorridi ancora amore che il peggio è passato.
Cinque mesi dopo
Dalla Svizzera dove pare che stia molto meglio o comunque molto più tranquillo, Chiavacci ha firmato una delega piena a mio favore per gestire i suoi affari. Io formalmente non ho cambiato molto, ho solo completamente smantellato la parte oscura della sua compagnia. Ora non si producono più dosi ingenti di batteri strani, ma si studiano nuovi antibiotici che vincano l’antibiotico-resistenza dei vecchi batteri. E abbiamo anche aperto una nuova linea di ricerca sui vaccini mRNA, sia mai nel futuro possano diventare utili.
Hey hey I saved the world today, everybody’s happy now, the bad things gone away.
La mia vita è cambiata profondamente ma è anche rimasta la stessa di prima. Non ho speso né spenderò un soldo della ricchezza di Chiavacci. Ogni tanto vado a mangiare a casa sua perché la cucina di Nunzia è squisita. Qualche volta rimango anche dopo cena. Ma questi sono affari miei.
In ultimo, l’avrete notato anche voi, mi è tornata la voglia di vivere.
E se continuate a chiedervi se è tutto vero, la cosa a me interessa il giusto. E se ci pensaste con attenzione, non dovrebbe essere così importante neanche per voi. Diciamocelo una volta per tutte: la verità è sopravvalutata.
Io ho salvato il mondo e ne sono orgoglioso. Non ho avuto titoli sui giornali e non me ne frega molto. Non cerco dei grazie, dei bravo o, peggio mi sento, delle pacche sulle spalle.
E se alla fine faceste la spia e un giornalista mi volesse intervistare chiedendomi come e perché abbia salvato il mondo e se proprio valesse la pena farlo, io potrei dire a lui quel che dico a voi:
sono solo canzonette.
Finalmente, l’ho detto.
Questa confidenza, però, tenetela per voi. Non voglio che arrivi alle orecchie dei miei cari. Loro non vorrebbero che ne parlassi con degli sconosciuti, ma con uno bravo, professionalmente parlando. Si illuderebbero che sia una forma iniziale e lieve di depressione. Qualche pillola, due chiacchera con quello bravo di cui sopra, e tutto passa e tutto torna normale.
Ma tutto è già passato e la normalità non ha mai avuto fascino per me. Ho sempre cercato l’eccezionale, lo straordinario, il mai visto prima. Senza mai trovarlo. E ora che le probabilità di infrangere uno qualsiasi dei muri della normalità tende inesorabilmente a zero, cosa ci rimango a fare qui in mezzo a voi?
Non è depressione, è male di vivere.
E non banalizzate tutto con la retorica delle cose belle che la vita riserva. Non sperate di sorprendermi facendo finta di essere angeli vestiti da passanti. Non scambiatemi per un sangiorgi qualunque che canta la poesia di un corregionale. Ma non allarmatevi più di tanto. Non frequento ponti deserti guardando l’acqua scura. E non intendo farlo.
Ho solamente perso l’entusiasmo per la vita. Continuerò a vivere come un annoiato travet continua ad andare in ufficio. Lui aspettando la pensione, io la promozione definitiva.
Per quanto mi riguarda, in pensione ci sono già ed è un peccato perché il lavoro mi piaceva. Insegnavo chimica al liceo scientifico. A qualcuno la materia può apparire noiosa, a me sembrava eccitante. E il rapporto con gli studenti mi faceva sentire vivo e utile.
Alessandro Chiavacci me lo ricordo bene. Molto intelligente, appassionatissimo della materia, ma con un carattere particolare, forse perché aveva perso il suo papà giovanissimo. Chiuso, introverso, tendenzialmente misogino, faceva allora parte di un gruppo cattolico fondamentalista. Forse adesso lo capisco meglio, era infelice e non sapeva perché. Come me adesso.
Per un po’ siamo rimasti in contatto dopo la maturità. Si iscrisse a chimica laureandosi con il massimo dei voti. Lessi poi che aveva fondato una start-up che scoprì una molecola nuova, rivoluzionaria nel settore del tessile. Si è riempito di soldi, ma tanti, vendendo la start-up a una multinazionale. Era diventato famoso, almeno sulle riviste di business o su quelle specializzate di chimica.
La sua telefonata mi stupii; ma visto la totale noia piatta sulla quale la mia vita navigava, apprezzai molto il suo strano e inatteso invito a pranzo. Dopo la vendita della sua azienda aveva comprato un intero palazzo in una zona centrale della nostra città. Abitava da solo perché poco prima dei suoi successi imprenditoriali anche sua mamma era morta.
“Professore, non sa che piacere mi ha fatto accettando il mio invito. La trovo benissimo. Il tempo non è passato per lei”
“Chiavacci, non dire minchiate e non fare finta di essere Minoli.”
Giovanni Minoli era un suo compagno di classe che faceva dell’adulazione dei professori una professione. Non a caso ha fatto una brillante carriera.
“L’unico vantaggio nell’essere rotondetto è che le rughe si vedono meno. Ma non chiamarmi più professore; io ti dovrei chiamare dottore. Dai diamoci entrambi del tu”.
“Non si dispiaccia, ma questo non è possibile. Lei non è un professore, lei è il professore e per me lo sarà sempre. Tutto questo è in fondo anche merito suo. Pensi se mi fosse piaciuta la Villani e il suo latino, come me lo compravo questo palazzo?”
Cominciammo a chiacchierare, seduti su uno scomodissimo divano di design. Aprì una bottiglia di spumante italiano di gran marca. Apprezzai il fatto che non si fosse corrotto con lo champagne. Mi sembrò in parte migliorato: maggiore capacità comunicativa e un comportamento molto più spigliato. Ma aveva messo su un cipiglio arrogante che quindici anni fa non aveva. Probabilmente, un sottoprodotto del successo. Il suo sguardo aveva un retrogusto triste che il sorriso di cortesia non riusciva a nascondere.
Chiesi – non è quello che deve fare un insegnante con un ex alunno? – notizie degli altri, oltre a Minoli, compagni di classe, almeno di quelli di cui mi ricordavo. Mi sorpresero le parole sprezzanti che usò.
“Se la ricorda la Mingardi, professore?”
Certo che la ricordavo: una bellissima ragazza, molto religiosa, tutta casa e chiesa si sarebbe detto ai miei tempi. Se mi ricordo bene, frequentava lo stesso gruppo religioso di Chiavacci.
Al mio cenno di assenso, chiosò con uno sguardo cattivo: “Adesso la trova su OnlyFans.”
Non so benissimo cosa OnlyFans sia, ma temo abbia a che fare con la pornografia.
Non ne seppi molto di più perché in quel momento entrò una signora non più giovanissima, ma ancora avvenente e con lo sguardo vivace e intelligente.
“Dottor Chiavacci, il pranzo è pronto”
“Grazie Nunzia, questo è il mio ex-professore di chimica, te ne ho parlato. Lascia stare i formalismi”
Poi rivolto a me: “Nunzia era la cameriera dei miei genitori, mi ha fatto anche da tata. Ora lavora con me. È una di famiglia.”
Il pranzo fu squisito. Cucina tradizionale di ottimo livello. L’amarone della Valpolicella si sposava soavemente con il ragù di cinghiale e con le costolette di agnello. Una cosa era certa, il successo non l’aveva fatto diventare vegetariano.
Durante il pranzo parlammo tanto. Mi chiese della mia vita, delle mie figlie, di mia moglie, morta l’anno scorso, di come era l’esistenza da vedovo e pensionato. Mi raccontò delle trattative con i rappresentanti della multinazionale cui aveva venduto la sua azienda e il suo brevetto. Li disprezzava. Tutte le volte che cercai di portare il discorso su di lui e sulla sua vita personale, fu sfuggente e restio. L’unica cosa personale che mi confidò, fu il desiderio di fare il giro del mondo su un aereo privato. Se lo sarebbe potuto permettere, mi disse.
Mentre indossavo il cappotto per andare via, fui sorpreso da una duplice sensazione, vaga, imprecisa ma forte. Chiavacci era solo, infelice e arrabbiato col mondo. Quando si dice che i soldi e il successo non fanno la felicita, lui sembrava il caso da manuale. Non disprezzava solo i manager della multinazionale: odiava tutto il genere umano. La seconda sensazione era anche più indefinita e non riuscivo a metterla a fuoco: inquietudine? compassione? paura?
Vi devo confessare che mentre nel salutarci avevamo manifestato entrambi il classico e spesso ipocrita, augurio di rivederci quanto prima, io speravo proprio di non incontrarlo più. Già avevo i problemi miei, caricarmi anche quelli di Chiavacci, mi sembrava troppo. Semplicemente, la sua inquietudine destabilizzava ulteriormente la mia.
Fuori pioveva e mi avviai a passo svelto verso casa. Contavo di mettermi seduto tranquillo in poltrona a smaltire sonnecchiando l’amarone.
“Professore”, mi sentii chiamare. Mi volsi ed era Nunzia.
“Professore, mi permette una parola?”
“Certo Nunzia, mi dica”.
“Come ha trovato Alessandro?”
La domanda mi spiazzò. Non era la domanda di una dipendente, era la più la domanda di una mamma ansiosa. Ed era anche una di quelle domande difficili. Sapresti in teoria cosa rispondere, ma non sai se abbia senso essere completamente sinceri. L’esperienza mi consigliò di rispondere con un’altra domanda.
“Perché Nunzia, c’è qualcosa che non va?”.
“Si, professore”.
Entrammo in una sala da tè, di quelle eleganti e fighette del centro.
“Sono molto preoccupata, per lui e per tutti” mi disse, appena il cameriere si dileguò con le nostre ordinazioni.
Mi raccontò una storia che definire incredibile è poco.
Il primo problema che mi posi fu se crederle. Sembrava una storia scritta da un soggettista ubriaco di un fumettone di serie B. Ma lo risolsi subito: Nunzia mi sembrava sincera e non vedevo ragioni per inventarsi una storia così estrema. Inoltre la storia era certamente incredibile, ma dopo due ore con Chiavacci non mi sembrava del tutto implausibile.
Il secondo problema era parecchio più complicato da risolvere: cosa dovessi (e potessi) fare. Ci dovevo pensare con attenzione.
Poteva un anziano professore di una città di provincia salvare il mondo? E poi lo voleva fare? Non avessi due figlie, avrei fatto finta di niente: mi era stato appena consegnato un biglietto per assistere al più potente spettacolo possibile: la fine del mondo. L’ultima promozione era nell’aria e io l’avrei attesa divertendomi e sapendo cose che nessuno al momento sapeva.
Vaffanculo a tutti, o come suolsi dire oggigiorno, vaffanculo a tutte e a tutti. Il miglior modo per lasciare in compagnia questo mondo!
A che ora è la fine del Mondo, che rete è?
Io lo sapevo con precisione.
Ma due figlie il destino me le aveva regalate e le amavo più della mia vita. Mia moglie prima di andarsene me le aveva affidate. Volevo vederle vivere, non dico felici – in questo mondo la felicità appare sempre più un lusso per pochi - ma tranquille senza lottare e soccombere contro un nemico terribile.
La scelta più facile era rivolgersi alle autorità. Mi avrebbero creduto? Temo di no. Avrebbero avuto la stessa reazione che state avendo voi.
“Guarda le palle che racconta questo vecchio!”
E’ quello che avrei pensato anche io. Due protagonisti quando mai inverosimili: un mediocre professore attempato che accusa un imprenditore famoso.
Anche perché Nunzia era stata perentoria e chiara: lei dalla polizia non ci sarebbe andata e se l’avessi tirata in ballo avrebbe negato tutto.
Tornai il giorno dopo da Chiavacci. Prima di bussare mi vennero mille dubbi.
Vecchio professore, cosa vai cercando in quel portone?
Apparve sinceramente contento di vedermi e pranzammo di nuovo insieme. Mentre il giorno prima avevo tentato di smorzare i suoi toni rancorosi e apocalittici, questa volta seppur cautamente lo assecondai. Anche per me il mondo era corrotto irrimediabilmente e il genere umano destinato all’estinzione per via delle sue stesse scelte dissennate. Cominciò una frequentazione costante fra due persone sole e solitarie, per scelta lui, per le vicende della vita, io.
Nei libri di testo sui serial killer si sostiene la tesi che almeno alcuni facciano il tifo per chi dà loro la caccia. Vorrebbero porre fine alle loro azioni ma non sono capaci di farlo; inconsciamente sperano che la polizia lo faccia. Magari anche Chiavacci apparteneva a questo gruppo.
Non mi aiutarono, tuttavia, manuali o bignami di psicologia, quanto quello che lo zio Angelo mi aveva insegnato. Con il fratello di mio padre andavo spesso a pesca.
“Quando senti il pesce abboccare, tu dagli lenza.”
“Lui si sentirà tranquillo, abbasserà le difese e ingoierà l’esca e l’amo. E in quel momento è tuo e puoi tirarlo in barca.”
Benché si assomigliassero molto fisicamente, mio padre e suo fratello erano agli antipodi in quanto a modo di vivere. Il primo aveva adottato l’etica del lavoro, mio zio l’etica della vita.
“Si lavora per vivere, non si vive per lavorare. La felicità te la danno solo le cose che non puoi comprare:”
Dove staranno adesso, avranno raggiunto un compromesso: in quel posto non si lavora e non si pesca.
Destinazione paradiso, paradiso città.
Una ventina di giorni e tante ore di colloquio dopo, ero riuscito a tirare il mio tonno in barca. Era stata dura, una battaglia continua a dare lenza e a raccoglierla: una danza estenuante fra pescatore e preda. Zio Angelo sarebbe stato orgoglioso di me.
Mi spiegò il suo piano: erano riusciti, grazie a sofisticate tecniche di ingegneria genetica, a creare un batterio con due particolarità. Una quasi perfetta resistenza agli antibiotici esistenti e una elevatissima capacità di contagio, attraverso il respiro, da una persona all’altra. L’incubazione era relativamente rapida, meno di una settimana, mentre le probabilità di sopravvivenza, data la forte aggressività del batterio, molto basse. Siccome il batterio era una loro creazione, avevano individuato in contemporanea anche un antibiotico in grado di fermarlo. La sua idea era di diffondere capillarmente il batterio durante il suo viaggio in giro intorno al mondo. Aspettare che si diffondesse. Alcune decine di milioni di morti dopo, quando il mondo era nel mezzo di una straordinaria pandemia, il grande Chiavacci e la sua impresa avrebbe annunciato la scoperta del batterio e l’avrebbero reso pubblicamente disponibile senza chiedere alcuna royalty per la loro produzione. Sognava di diventare il salvatore della patria o meglio del mondo intero.
Un sogno, direste voi, un po’ infantile; condivido. Ma il personaggio aveva di queste contraddizioni: una mente geniale nella psiche di un ragazzino complessato in cerca di una rivincita nei confronti del mondo.
Aveva comportamentalizzato la sua azienda in modo così ferreo – adducendo motivi di sicurezza – che nessuna sapeva bene quel che gli altri dipartimenti facevano e nessuno in azienda era al corrente delle vere finalità della ricerca e della produzione.
Il suo piano presentava una fallacia scientifica di un certo peso. Una volta rilasciato in natura e passato da soggetto a soggetto, esisteva il rischio fortissimo che il batterio si modificasse geneticamente. Se le varianti fossero state tante e molto diverse dal ceppo originario, vi sarebbe stato il rischio concreto che l’antibiotico già sviluppato si rivelasse inefficace. In quel caso il mostro creato a tavolino sarebbe divenuto ingovernabile. Un classico, almeno nella letteratura, dal Frankenstein di Mary Shelley in poi.
Se avevo individuato io la falla teorica del suo folle progetto, l’aveva capita sicuramente anche lui, molto più bravo di me. Probabilmente era il suo piano B, e tanto peggio per tutti. O magari era il suo piano A e il racconto sulla produzione dell’antibiotico era solo una pezza per convincere il vecchio professore.
Ora conoscevo molte più cose e andare alla polizia sarebbe stato più semplice. Ma mi ero affezionato a Chiavacci e io quando voglio bene divento fin troppo indulgente. Non volevo darlo in pasto alla stampa. Avrebbero intinto il biscotto nella storia del grande e geniale imprenditore che si rivelava un pazzo criminale. Tanti invidiosi imprenditori mediocri avrebbero stappato bottiglie di costoso champagne alla notizia! Non lo potevo permettere.
Affronterò la vita a muso duro, un guerriero senza patria e senza spada, con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
Fosse così semplice.
Fortunatamente la salute di Chiavacci peggiorò repentinamente. Probabilmente l’avvicinarsi della data prevista per l’inizio delle operazioni aveva aumentato lo stress, facendo franare l’ultima diga di buon senso che la sua psiche potesse usare. Un giorno mi confidò, seriamente preoccupato, che sentiva delle voci, sempre più invadenti e frequenti. La cosa lo aveva spaventato e parecchio. Le voci non solo lo impaurivano ma lo umiliavano facendolo sentire un burattino telecomandato.
Decisi di giocare il tutto per tutto. Gli consigliai di consultare un medico, con la scusa che, visto che la data dell’entrata in azione si avvicinava, lui doveva essere perfettamente lucido. E qui entrò in campo il dottor Panzera, uno psichiatra di ottima esperienza e molto capace. Il fatto che fosse anche mio cognato non guastava. Lo avevo informato parzialmente della situazione.
Dopo una settimana di trattamento intensivo, Panzera lo convinse a farsi ricoverare in una clinica svizzera – dove se no! Qui i ricconi vanno a trattare, nella massima discrezione, le loro dipendenze e i loro problemi psichiatrici.
Il mondo era salvo.
Sorridi ancora amore che il peggio è passato.
Cinque mesi dopo
Dalla Svizzera dove pare che stia molto meglio o comunque molto più tranquillo, Chiavacci ha firmato una delega piena a mio favore per gestire i suoi affari. Io formalmente non ho cambiato molto, ho solo completamente smantellato la parte oscura della sua compagnia. Ora non si producono più dosi ingenti di batteri strani, ma si studiano nuovi antibiotici che vincano l’antibiotico-resistenza dei vecchi batteri. E abbiamo anche aperto una nuova linea di ricerca sui vaccini mRNA, sia mai nel futuro possano diventare utili.
Hey hey I saved the world today, everybody’s happy now, the bad things gone away.
La mia vita è cambiata profondamente ma è anche rimasta la stessa di prima. Non ho speso né spenderò un soldo della ricchezza di Chiavacci. Ogni tanto vado a mangiare a casa sua perché la cucina di Nunzia è squisita. Qualche volta rimango anche dopo cena. Ma questi sono affari miei.
In ultimo, l’avrete notato anche voi, mi è tornata la voglia di vivere.
E se continuate a chiedervi se è tutto vero, la cosa a me interessa il giusto. E se ci pensaste con attenzione, non dovrebbe essere così importante neanche per voi. Diciamocelo una volta per tutte: la verità è sopravvalutata.
Io ho salvato il mondo e ne sono orgoglioso. Non ho avuto titoli sui giornali e non me ne frega molto. Non cerco dei grazie, dei bravo o, peggio mi sento, delle pacche sulle spalle.
E se alla fine faceste la spia e un giornalista mi volesse intervistare chiedendomi come e perché abbia salvato il mondo e se proprio valesse la pena farlo, io potrei dire a lui quel che dico a voi:
sono solo canzonette.