Gennaio 2026
Nei pressi di Tønder, Danimarca
Piccolo mio. O piccola, non posso saperlo. Come non so che giorno di gennaio sia. Dovrai scusare tutte queste approssimazioni, ma la situazione è quella che è, credo mi perdonerai. Come perdonerai la grafia, sai, non scrivo a mano da tanto tempo. Proverò a mettere giù un diario, una cronaca di viaggio, una confessione, sinceramente ancora non lo so.
Sono stanca e ho fame.
C’è una lunga striscia di fumo nel cielo, come una corona scura sulle colline. Cime basse di cui non conosco il nome, già nere quelle distrutte dagli incendi, gialle quelle che ancora resistono. Tutto qua intorno è morto, secco e ricoperto di cenere finissima, che fiocca lieve, seguendo i vortici dei venti bollenti del sud. Da poco siamo entrati in Danimarca seguendo percorsi secondari, per evitare di incontrare qualcuno.
Abbiamo lasciato Parigi da una quarantina di giorni e siamo scappati nella notte illuminata dai palazzi in fiamme. La gente si gettava nella Senna che ribolliva di corpi, circondati dal vapore e dal fumo acre. Che spettacolo tremendo. Credo non lo scorderò mai.
Fine gennaio 2026
Vamdrup, Danimarca
Ho portato con me questi fogli e delle penne, sinceramente non credevo li avrei usati, ma tant’è. Ho scritto poche righe una decina di giorni fa, poi ho smesso. Eppure mettere in parole ciò che mi ribolle dentro è stata la mia vita, nella mia professione di giornalista e nel quotidiano, e anche ora ne sento il bisogno, una necessità fisica, pungente. Chissà, magari è solo il desiderio di lasciarti una testimonianza, nel caso riuscissimo ad arrivare in Norvegia, nel caso sia vero quello che si dice sulle isole Svalbard, nel caso ci salvassimo. Se dovessi non farcela, be’, qualcuno potrebbe insegnarti a leggere, e se dovessi salvarmi potrei insegnarti io stessa, potrebbe succedere qualsiasi cosa e allora scrivo, tutto qua.
Inizio con delle confessioni. Qualche anno fa ho fatto un viaggio in Portogallo, a Cabo da Roca, la punta più occidentale dell’Europa continentale. Era una serata di fine settembre, di quelle dove i cieli si riempivano di nuvole che galoppavano all’orizzonte e si sfilacciavano. Una serata ventosa. Ne ricordo le onde, immense, che si schiantavano sulle scogliere, quelle sotto al faro. Niente di tutto quello che poi è successo era previsto, la tempesta solare, le bombe di plasma… e insomma, ero là per divertirmi, per vedere il tramonto sull’oceano. C’erano altre persone al belvedere, ci arrivava ogni tanto un po’ di acqua sul viso, avevo le ciglia dure dalla salsedine. E queste altre persone vicine a me, be', loro erano felici. Si tenevano per mano, tutti erano con qualcuno e d’improvviso mi sono accorta di essere l’unica persona sola. Mi sono sentita persa. Poi il sole ha iniziato a tramontare, sai, scompariva dietro le onde altissime dell’oceano e diventava sempre più piccolo mentre calava dietro l’orizzonte e più diventava piccolo più il cielo avvampava e le nuvole prendevano fuoco. All’inizio tutto era arancione, poi è diventato rosso sangue e porpora e infine blu e tutto intorno a me era blu e poi nero e buio e così, senza che lo volessi, i miei occhi si sono riempiti di lacrime. Ho avuto paura. Ho pensato “eccomi qui dove finisce il mondo”, non riuscivo a pensare ad altro che a sparire come il sole al tramonto, ma non volevo morire, no, morire mi terrorizzava, ecco, volevo solo sparire, come se non fossi mai esistita. Perché sì, forse è questo che penso davvero di me, che la mia esistenza sia fasulla. E questa sensazione di essere nulla ancora l’ho addosso… no, l’avevo addosso, almeno fino a quando non ho capito di essere incinta. Ora non sono più sola e quel tramonto alla fine del mondo, mentre tutto brucia, non mi fa più paura.
L’altra confessione riguarda tuo padre. A Parigi ci sono finita quasi per caso, perché dopo la fuga da Roma andare in Francia era l’unica soluzione, si diceva che là non c’erano tumulti, che una parvenza di stato ci fosse ancora. E per qualche tempo questo è stato vero. Ma nessuno riusciva a ripristinare la rete elettrica e le temperature continuavano a salire, di giorno si arrivava a sfiorare i sessanta gradi. La gente era disperata e affamata e poteva uscire solo la notte, nel buio più fitto. Sto divagando, lo so, dovevo parlarti di tuo padre. Non so chi sia. In una di queste notti malate sono stata violentata. non so da chi, non so perché. La cosa più assurda è che non ci avevo quasi fatto caso, mi era parso, nella follia di quei momenti, una logica conseguenza del male che aveva contagiato tutti, un finale scontato, quasi banale.
La terza confessione riguarda il posto dove siamo diretti. C’erano voci che già giravano prima delle tempeste solari dell’inverno scorso, che parlavano di un piano per provare a salvare il mondo. Un rifugio, a nord, nell’arcipelago delle Svalbard, nel Mar Glaciale Artico, dove le temperature non sarebbero state insostenibili per la vita e dove è già presente un bunker che contiene un deposito globale di semi, un giardino dell’Eden ibernato. Ho ancora le mie fonti nei servizi segreti, o meglio avevo, e mi hanno confermato che queste non sono fantasie popolari. Spostarsi in aereo con le tempeste magnetiche in corso sarebbe stato impossibile, quindi le Svalbard sarebbero state raggiunte con le navi, pronte a fare la spola da una località remota nel nord della Norvegia. Là siamo diretti, ad Hammerfest.
Febbraio 2026
Vissenbjerg, Danimarca
Si viaggia di notte e si dorme di giorno, al riparo dal calore. Ti sento muoverti, anche se non sono certa che siano i tuoi calci, potrebbero benissimo essere i morsi della fame. A volte canto sottovoce, piano, ma spero tu mi senta ugualmente. Sono canzoni inventate.
C’è una foresta intricata da queste parti, rami secchi e neri che si intrecciano sui sentieri, ho fretta di uscirne, dovesse scoppiare un incendio non credo riuscirei a scappare, sono troppo debole per correre e ho delle vesciche enormi sulle piante dei piedi.
Febbraio 2026
Nyborg, Danimarca
È una notte luminosa questa. C’è una luna incredibile e gialla, sorta all’improvviso da una foresta di pale eoliche. E un incendio enorme alle nostre spalle. Sembra inseguirmi. Annoto sempre dove sono, controllo i cartelli stradali, siamo a Nyborg. La cittadina è distrutta, le strade sono ricoperte da fuliggine appiccicosa e la spiaggia è un’immensa distesa di sabbia e cenere. Ci sono orme di gatto, le vedo chiaramente con tutta la luce che c’è. Cammino scalza e sento i piedi affondare nella cenere soffice e umida. Un grido umano. Lontano. Non mi riguarda. Seguo le orme e lo trovo, ansimante, proprio dove inizia il Ponte sul Grande Belt. È una notte luminosa e fortunata e gli occhi del gatto mi fissano, vacui. Chissà per quanto tempo mi seguiranno, questi tristi occhi gialli. Lo ringrazio, mentre lo uccido.
Prima di tentare la traversata del ponte mangio le interiora del gatto, non potrei trasportarle, andrebbero subito a male. Le ho sciacquate in mare, mentre chissà dove, dal cuore della città, qualcuno continua a urlare.
Marzo 2026
Copenaghen, Danimarca
Il Ponte di Øresund è meraviglioso. Sto scrivendo queste righe mentre fa giorno, all’ombra di un hangar nel vicino aeroporto e lo vedo in controluce sul tappeto di stelle. Ho sempre desiderato ammirarlo, da quando da ragazza mi aveva appassionato una serie poliziesca ambientata tra Copenaghen e Malmö. Mi stupisco di come ancora riesca a emozionarmi qualcosa.
Non so se riuscirò ad attraversarlo. C’è sempre movimento all’ingresso della galleria. Persone. Ho una pancia enorme ormai, non riuscirei a scappare.
Marzo 2026
Malmö, Svezia
Sembra impossibile, ma ce l’ho fatta. Ho deciso di attraversare il ponte durante il giorno. L’aria era così calda da non riuscire a entrare nelle narici. Mi sono coperta, non ho lasciato un solo lembo di pelle scoperta, e sono entrata in acqua. Era bollente, non ho visto un solo pesce.
Non potevo rischiare di usare la galleria sotterranea e ho dovuto nuotare fino all’isola artificiale di Peberholm. Da lì ho continuato a stare in acqua, a ogni pilone mi fermavo a riposare e poi proseguivo. Ora sono stanchissima, mi sento leggera, come se avessi la testa cava. Inoltre qua a Malmö sembra esserci ancora molta gente per le strade.
Tra due pali della luce hanno teso un cavo d’acciaio e ci sono decine di mani mozzate appese che dondolano. Non capisco perché lo hanno fatto, io le avrei mangiate.
Aprile 2026
Malmö, Svezia
Piccolo mio, adesso lo so che sei un piccolo e non una piccola. Sei nato stanotte. Non so che giorno sia, voglio pensare sia il quindici di aprile, il giorno in cui è nata tua nonna Laura. Ho deciso di chiamarti Andréas, perché così si chiama la persona che ti ha permesso di nascere e che ora ci porterà in Norvegia. Andréas ha una macchina che ancora funziona e ha trovato della benzina. È un brav’uomo, almeno lo spero. Per ora lo è stato, di sicuro.
Dopo la traversata del ponte sono rimasta bloccata a Malmö. La città è una giungla, ogni notte si combatte una guerra tra bande che finirà per distruggere tutti. Rimanere nascosti è difficile. Andarsene senza essere visti ancora di più. Inoltre sentivo che era quasi arrivato il momento in cui avresti insistito per venire al mondo. Non avevo scelta, dovevo cercare aiuto. Avevo una sola merce di scambio da barattare in cambio di aiuto: il segreto delle navi di Hammerfest. Per giorni ho seguito il movimento sulle strade, dalle finestre di palazzi abbandonati o dai tetti delle case. Non potevo sbagliare. Dovevo scegliere un uomo che si muoveva da solo, che non aveva legami con nessuna delle bande che infestavano la città. Ho scelto Andréas. L’ho seguito fino alla sua casa, in periferia. Sono stata fortunata. Lui e sua moglie Agnes hanno ascoltato la mia storia e hanno deciso di aiutarci. Sono rimasta con loro per dieci giorni, fino a quando sei nato. Mi hanno aiutata a partorire e mi hanno assistita con amore, ma non gli ho ancora rivelato il nome del posto in cui siamo diretti, non voglio rischiare che ci abbandonino.
Maggio 2026
Kautokeino, Norvegia
Alla fine ci siamo riusciti davvero, siamo entrati in Norvegia. Andréas mi ha raccontato che nella sua vita precedente era un entomologo. Agnes invece era una maestra elementare. Mi hanno spiegato che in Svezia le cose non erano precipitate subito, anzi, per alcuni giorni, dopo la grande tempesta che aveva mandato fuori uso tutti i sistemi elettronici del mondo, avevano continuato a vivere normalmente. Le cose erano cominciate a precipitare quando le persone si erano accorte che tutti i loro soldi non esistevano più. E che non sarebbero mai più tornati, visto che le più rosee previsioni prevedevano un ritorno alla quasi normalità entro dieci anni. Le bombe al plasma e l’alzarsi delle temperature avevano dato il colpo di grazia alla flebile stabilità svedese. Sì, non erano implosi subito come noi, ma alla fine anche la loro razionalità scandinava non era bastata per salvarli.
Nelle campagne appena fuori il villaggio di Kautokeino c’è ancora la brughiera verde. Andréas ha fermato l’auto al riparo di un capannone e mentre l’alba cominciava a scaldare l’aria siamo rimasti un attimo inginocchiati sull’erba. Qualche insetto da quelle parti era ancora in attività e svolazzava insolente attorno alle nostre teste. Agnes si è inginocchiata e ha raccolto qualche cespo di cicoria selvatica mentre io ti allattavo al seno. Andréas seguiva il volo degli insetti con uno sguardo ebete da innamorato. “Era tanto che non ne vedevo” ha detto, “mi sono mancati.”
“Hammerfest” ho detto, “dobbiamo arrivare ad Hammerfest.”
Andréas ha annuito. “L’avevo immaginato” ha detto, “non era poi questo gran segreto.” Agnes ha riso e si è messa a masticare un po’ di cicoria.
Andréas ha preso un bruco tra le dita enormi. Era così delicato mentre lo teneva davanti al viso che mi ha commosso.
Maggio 2026
Hammerfest, Norvegia
Ti scrivo queste ultime righe. Il sole è sorto e mi sta cuocendo il viso. Probabilmente tra poco non ci sarò più. Tutto, intorno a me, brucia.
È stata una notte senza luna, questa appena trascorsa. Siamo entrati ad Hammerfest coscienti del fatto che le navi avrebbero potuto non esserci. Invece erano là, nel porto, protette da un cordone di sicurezza di uomini armati. Ci siamo avvicinati ai soldati con le mani alzate, non ci hanno sparato e questo è stato già un mezzo successo, anche se ci hanno intimato in maniera dura di allontanarci. Nessuno di loro aveva segni identificativi o bandiere sulla divisa. Ti ho alzato sulla testa, “almeno il bambino” ho urlato. C’è stato uno sparo in aria e ci siamo allontanati.
Dalla collina sovrastante il porto abbiamo seguito le operazioni di carico delle navi, che erano illuminate da grandi falò sulle banchine. C’erano imbarcazioni che entravano in porto e altre che partivano. Andréas ha ipotizzato che se quelle manovre duravano da mesi, le cose erano state fatte con tutti i crismi. Sulle isole Svalbard c’era davvero la possibilità di salvare il mondo.
“Ci basterà sopravvivere per dieci anni e aspettare" ha detto.
Poi, d’improvviso, abbiamo sentito degli spari. Vedevamo i lampi di luce, ma non si capiva cosa stesse succedendo. I colpi d’arma da fuoco arrivavano da più direzioni, non solo dai posti di blocco, ma anche dal porto, segno che qualcuno era riuscito a passare e cercava di arrivare alle navi. Andréas ha scosso la testa.
“Probabilmente non è la prima volta che ci provano” ha detto, “illusi.”
È stato allora che ho capito che non avrebbero mai provato a imbarcarsi, che si sarebbero nascosti da qualche parte nella brughiera, a osservare gli insetti e aspettare la fine, invisibili e passivi, come erano vissuti a Malmö fino a pochi giorni prima.
È stato allora che ho scelto. Ti ho stretto in petto e sono corsa giù per la collina, mentre Andréas mi gridava di tornare indietro. Ho superato di corsa uno spiazzo aperto e poi mi sono nascosta dietro un capannone di lamiera, avevo il respiro rotto e singhiozzavo. Una nave stava mollando gli ormeggi in quel momento, a duecento metri da dove mi trovavo. Ho chiuso gli occhi e ho iniziato a correre, tenendoti così stretto che hai iniziato a piangere fortissimo. Ho sentito caldo alla spalla e un dolore atroce si è irradiato dal collo fino all’anca, ho sbandato un poco, ma ho continuato ad andare avanti. Il secondo proiettile mi ha colpita allo stomaco, sfiorandoti, e incredibilmente mi ha fatto meno male del primo, quasi non me ne sono accorta.
Due soldati stavano risalendo la scaletta della nave, che già si muoveva. Mi sono inginocchiata e ti ho tenuto in alto, sulla testa.
“Vi prego!” ho urlato. Non vedevo il viso dei soldati, c’era troppo buio, quindi non saprò mai com’è fatto il viso della persona a cui devi la vita.
Ti ho sentito svanire dalle mie mani, nella stessa maniera improvvisa e violenta con cui avevi deciso di venire da me.
“Si chiama Andrèas” ho detto.
Poi sono svenuta.
Ho ripreso conoscenza poco fa, ho cercato il diario e ho scritto queste ultime righe. Non mi sono messa al riparo dal sole, non ho cercato di tamponare le ferite, sarebbe inutile. Ho voluto mettere per iscritto questi miei ultimi attimi di vita nella speranza che Andréas e Agnes mi trovino e con me trovino questo diario. Nella speranza che entrambi sopravvivano e che riescano a consegnartelo.
Piccolo mio, volevo solo farti sapere che grazie a te la mia vita ha avuto un senso e ora posso sparire, come il sole all’orizzonte, senza nessun rimpianto.