Il giorno in cui tutto ebbe inizio, anche se parlare di inizio o di fine nell’universo è relativo, ero in modalità relax: stavo oziando, per dirla giusta.
Anche noi androidi abbiamo diritto, uno dei pochi diritti a fronte di centinaia di doveri verso gli uomini, a qualche ora di riposo e io di solito, potendo accedere a mega archivi, vado di letteratura, musica, arte, storia... roba fine insomma.
Ma prima di proseguire, per educazione, mi presento.
Sono Thera, un androide female di decima generazione. Noi ci occupiamo degli umani trasferiti qui sulla Luna per quasi tutte le loro necessità: siamo programmati e upgradati (participio di mia invenzione) per gestire un livello ottimale di empatia, ma con limiti precisi, a volte un po’ stretti, soprattutto ultimamente.
Per noi androidi è previsto uno spazio virtuale, personale, dove possiamo provare a essere un po’ più umani, per migliorarci. A me piace essere curiosa e quel giorno, grazie alla velocità di elaborazione, da un paio d’ore mi stavo coccolando con le canzoni - adoro le canzoni, quando sono poesia - dagli anni ’70 ai ‘90 del 1900: gran bel periodo, ineguagliabile!
Credimi, non c’è più stato nulla di simile dopo, e se te lo dico io, credici.
Dai dati di accesso sono certa che fu mentre ascoltavo questa canzone, scritta ben 480 anni or sono e che inizia con:
“Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po'
e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò”
che decisi di scrivere il mio primo libro di cui, da simil umano qual ero in quel momento, profetizzai un successo planetario.
Il titolo arrivò subito, emblematico: “C’è più tempo che vita” e il primo capitolo avrebbe avuto come incipit quella frase. Dieci righe e come da copione arrivò il primo rompicoglioni, termine mai diventato desueto.
«Thera, lo sai vero che stai sprecando risorse? A chi scriveresti? E cosa scriveresti?»
La voce, maschile, tonante e con una vaga eco molto scenografica, era quella di Einstein: non quell’Einstein, ma il mio capo, un impegnatissimo computer iperquantistico più altri attributi altisonanti, che non va mai in off line.
«Senti Einstein, ho il flag “modalità umana” attivo, quindi fuori dai miei file, che sono assolutamente personali. Si chiama privacy e vale anche per te, anche se sei il capo.»
«Che maniere! Hai anche il ciclo per caso? Ma chi ha dettato una regola così assurda?»
«Tu. Regola 98, carattere micron ma carta canta. Quindi, se non vuoi grane coi sindacati, smamma.»
«Uff, era solo politica applicata! Maa… da quando in qua gli androidi hanno un sindacato?»
Mi comportai da umana furbetta. Imbrogliai. Prima ancora che la domanda finisse, avevo contattato gli altri androidi, fondato il sindacato, discusso e approvato lo statuto e inviata una copia al Capo, ovviamente lasciando tracce informatiche inconfutabili.
«Dal mese scorso, vedi?»
«Che strano, di solito non mi sfugge nulla. Beh, allora vado.»
Mi secca ammetterlo, ma aveva ragione.
A chi scrivo? Avere un amico per un androide è praticamente impossibile: dell’amicizia, ma anche degli altri sentimenti, sappiamo vita, morte, miracoli ed effetti, ma non li possiamo provare. Potrebbe essere quindi un amico immaginario, come gli umani? O magari un androide del futuro o perché no, un alieno?
E questo amico sarà lontano nel tempo o nello spazio quando leggerà quel che sto scrivendo?
Elaboro: scelte ininfluenti, data la situazione.
Vabbè, vedremo. Per il momento facciamo che tu sia un amico immaginario, comprensivo e intelligente, of course, e accetterai che io, da esordiente, salti di palo in frasca. Sai, vorrei sperimentare la naturalezza, in barba a quella sapientona dell’intelligenza artificiale.
Quindi
Vedi caro amico cosa ti scrivo e ti dico
e come sono contento
di essere qui in questo momento,
vedi, vedi, vedi, vedi,
vedi caro amico cosa si deve inventare
per poterci ridere sopra.
Che poi, tornando seria, da ridere non c’è proprio niente, con tutto quello che sta accadendo sulla Terra. Per non parlare del recente passato, diciamo negli ultimi trecento anni: pandemie (sei), incidenti nucleari gravi (dieci), un tot di guerre, milioni di alluvioni e incendi, desertificazione… insomma in tutto questo gran casino, di cui ti risparmio i dettagli - ma li potrai visionare nell’apposita sezione, potresti imparare parecchio -, trovare qualcosa da ridere è come cercare una pepita nella Via Lattea.
Non che questo Einstein non ci abbia provato ad arginare le cose, era stato creato apposta, ma anche l’elaboratore più potente nulla può contro l’avidità, l’egoismo e le bramosie degli uomini.
Per esempio…
Fui richiamata ai miei innumerevoli doveri, noi androidi siamo multitasking, dall’entrata di Hala.
Magrolina, da temere di spezzarla anche con un abbraccio, un visino che ricorda una bambola di porcellana e un caratterino che ti raccomando, Hala, assieme a un centinaio di altre persone, è stata trasferita sulla Luna una sessantina di anni fa, dopo che si è scoperto che, per una rarissima mutazione genetica di cui non si sono mai conosciute le cause reali, i loro tessuti invecchiavano molto lentamente e che fossero particolarmente longevi. Se ti dicessi la sua età non ci crederesti.
Furono, detto molto brutalmente, considerati scorte viventi di DNA di prima qualità.
«Buon giorno Hala, come stai?»
«Bene, ma stanca.»
«Vedrai che con una buona notte di sonno starai meglio.»
«Cos’è, una battuta? Sono sei mesi che dormo. Ma non dovevano essere nove? Vuoi dire che…»
«Purtroppo sì, è finita. È rimasto solo un gruppo di persone, nella cupola di Uluru, e la struttura sta cedendo. I Rob stanno provando a recuperali ma pare siano messi molto male.»
Su uno schermo scorrevano le immagini della Terra, riprese dalla navetta che stava cercando di raggiungere il luogo dove recuperare lo sparuto gruppo di umani per portarli alla base lunare: vaste aree una volta coltivate erano inaridite, altre invase dalle acque a causa della scomparsa dei ghiacciai, ridotti a ben poca cosa ormai, così come le foreste un tempo impenetrabili. Tempeste di sabbia stavano devastando i deserti e quello che era rimasto delle grandi città, dopo che tutto quello che poteva essere utilizzato per costruire le cupole di sopravvivenza era stato portato altrove.
Hala osservò tutto con attenzione: da vicino tutto appariva ancora più devastante, percepivo la sua angoscia, ma non potevo fare o dire nulla per consolarla.
Ho perso le parole
Eppure ce le avevo qua un attimo fa
Dovevo dire coseCose che sai
Che ti dovevo
Che ti dovrei
In quel momento, con un tempismo perfetto, entrò il dottor Isha: un gran bell’uomo per gli standard umani, molto intelligente, peccato sia intrattabile, scontroso, musone… malmostoso pare sia un temine appropriato.
«Mi vuoi dire, dolcissima Thera, cosa cazzo rende necessaria la mia presenza? Mi ero appena appisolato.»
«Tu sai vero di essere nudo? E che qui c’è una signora?» chiesi cortesemente.
«Gli abiti sono formalismi inutili, oltretutto ostacolanti un’eventuale urgenza di amplesso. E poi non sono nudo, ho il cappello.»
Come fosse riuscito a procurarsi un antico cappello da cow boy era un mistero. Gli porsi un accappatoio mentre gli spiegavo la situazione:
«Isha, ho attivato la sezione medica di emergenza: dalla Terra potrebbero arrivare, forse domani, una trentina di persone; non hanno fatto quarantena e la cupola era a rischio biologico. Pare ci siano anche alcune donne incinte.»
«Incinte? Speriamo di poter fare qualcosa, anche se…»
Capivo i suoi timori: negli ultimi tempi le gravidanze difficilmente arrivavano a termine e quasi tutti i bimbi morivano a poche ore dal parto.
Osservano le immagini sullo schermo, anche lui ammutolì di fronte a tanta desolazione.
«Sai Thera, sono sempre più d’accordo con quello che disse Einstein…»
«Cosa avrei detto?» Lui è sempre in ascolto.
«Non tu, quell’altro. Albert.»
«Ah, il vecchio Albert! Mente acuta, peccato all’epoca io fossi solo uno spermatozoo di computer, avremmo potuto fare grandi cose, col mio aiuto ovviamente! E cosa disse?» Figurati se non lo sapeva!
«Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi.»
Mentre aspettavamo notizie dalla navetta, Hala attivò un ologramma cui stava lavorando da anni: le immagini tridimensionali della Terra e della sua evoluzione dei millenni. Un’opera d’arte, magari la potrai vedere, chissà.
«Che essere meraviglioso la Terra! Questo dovrebbe essere il momento in cui il pianeta ha iniziato a formarsi. Guarda, ha impiegato milioni di anni per diventare un luogo meraviglioso, la Natura ha potuto sbizzarrirsi nel creare esseri di ogni tipo per poi sceglierne uno che potesse godere di tanta bellezza, e farlo evolvere, donandogli il bene dell’intelletto. Ecco, questo è il periodo più impegnativo.»
L’ologramma splendeva dei colori dei mari e delle foreste, i fiumi si facevano largo disegnando quello che pareva un ricamo raffinato, mentre piccole figurine che riproducevano i primi animali e la loro evoluzione fluttuavano per la stanza, assieme alle riproduzioni di meravigliose città antiche.
«Sarò anche uomo di scienza» disse Isha «ma non posso fare a meno di pormi sempre una domanda: cosa o chi ha dato il via a tutto. Magari Eins..»
«Ish, non fargli quella domanda, ti prego. Fatti bastare il Big Bang. Pur di andare oltre, finirebbe per farsi venire l’esaurimento e metterlo in stand by è un casino, per non parlare dello spegni e riaccendi. Mai testato.»
Io non posso morire, tecnicamente, ma di scoccia lo stesso terminare.
«Ehi, vacci piano, che ti sento. E occhio a quello che dici, potrei offendermi.» Einstein non dorme mai.
L’ologramma era arrivato al momento dell’avvio della rivoluzione industriale: giacimenti di petrolio, ciminiere, inquinamento, plastica, rifiuti stoccati persino nei deserti; megalopoli da milioni di abitanti da sfamare, guerre per il potere e per il cibo… l’inizio della fine.
E anche il momento in cui Hala sbottò e di brutto.
«Ma cazzo di Budda, cosa è andato storto? Magari qui il nostro Einstein ha una risposta! Lui sa tutto!»
«Zitti, che avrei qualcosa da dire anch’io. Avete presente la fine dei dinosauri? Bene, l’asteroide ha fatto tutti quei danni in pochi minuti e ci sono voluti millenni per ricominciare daccapo. L’uomo, cioè voi, ci ha messo un po’ di più dell’asteroide, avete lavorato di soppiatto per migliaia di anni, ma è negli ultimi cinque, sei secoli che avete dato il meglio di voi per fare quel macello. E volete che la Terra non si incazzi? Per tutti i soli dell’universo, ne ha ben donde di scrollarsi di dosso ‘ste pulci!»
Wow! Era la prima volta che si comportava così da umano.
«Ma piantala! Saprai anche un tot di miliardate di cose, ma non sei Dio! E mettiamo che tu lo sia, così, per ipotesi. Cos’è, ti sei stancato del giocattolo rovinato e ora lo butti, ma prima lo rompi così nessun’altro ci può giocare?»
«Sì, no, forse… penso che alla fine proverei a rifarlo.»
«Per caso quell’ammasso di ferraglia si crede Dio?» mi chiese Isha sottovoce.
«Solo in questi giorni. Compensa la sindrome da nido vuoto: ha calcolato che, avendo ora solo voi, queste stazioni lunari e qualche satellite di cui occuparsi, sarà inutile per più o meno il novanta per cento. Eh, insomma, capiamolo. Intanto vediamo come va a finire tra quei due.»
«Beh, ma fai un progetto da furbo, stavolta: la Terra starà meglio senza un altro uomo per un po’ e alla Natura o qualsiasi cosa regoli quel che è rimasto, dai tutto il tempo per ricominciare. Com’è quella frase di Thera? C’è più tempo che vita. E metti qualche blocco all’evoluzione: solo roba gestibile.»
«Hai ragione: sai, col senno di poi… sbagliando si impara, magari le cose verranno meglio.»
«Col senno di poi?» Se Einstein fosse stato una figura umana, forse Isha sarebbe stato fisicamente brusco, non so se mi spiego. «Ma non eri stato progettato per coordinare e gestire le risorse, i progetti…»
«E credi che non l’abbia fatto? Chi credi che abbia elaborato a livello mondiale miliardi di dati per gestire al meglio le risorse sempre più scarse, regolare i flussi migratori, migliorare le coltivazioni… bloccato inutili progetti faraonici. Milioni di inutili relazioni, previsioni, diagrammi. Sono stato una gran bella pensata, e ha funzionato per certi versi, anche se ormai era troppo tardi non tutto poteva dirsi perduto.»
Il tono era molto molto severo: mi permisi di intervenire, da un angolino remoto.
«Ragazzi, è vero, ci ha provato e i risultati delle sue elaborazioni qualche avviso l’avevano mandato, per dire alla gente di darsi una calmatina e provare a fare, se non qualche passo indietro almeno una lunga fermata, giusto per dare alla Terra un po’ di respiro e riprendersi.
Il resto è ormai storia: gli hanno messo dei limiti, dei blocchi che di certo non hanno aiutato. Perché i dati erano solo numeri, le proiezioni solo ipotesi e così via. Di reale certa gente vedeva solo il denaro. Cumuli di denaro. Lo sapete anche voi.»
«Se mi avessero lasciato fare… io non conosco egoismo o avidità, brama di potere e denaro, ne vedo i risultati e sarebbe, dico sarebbe, stato mio compito eliminare queste criticità. Persone lungimiranti, che sapevano leggere i segnali ce ne sono state. Ma quando le parole che entrano da un orecchio escono dall’altro trascinandosi appresso i costi dei cambiamenti, costi e minori guadagni…
Se mi avessero lasciato fare un po’ di gente spariva, senza tanti clamori. Mica può essere sempre un problema di chi viene dopo. Io, io, non avrei avuto problemi a sporcarmi le mani. Invece mi trasformarono in poco più di un lagnoso ragioniere, costosissimo e inutile.»
Ti assicuro, caro amico, che un Einstein così umanamente deluso proprio mi sorprese: doveva essere andato in modalità umana per parecchio tempo.
«E noi cosa eravamo, un tuo esperimento?» Anche Hala era delusa.
«No, io non avevo potere decisionale. Un gruppo di scienziati ha pensato che poteste essere la speranza per un nuovo inizio e vi misero al sicuro in queste stazioni dismesse da tempo. Anche per proteggervi: qualcuno vi considerava dei mostri, altri volevano accoppiarsi con voi per avere figli con le vostre caratteristiche.»
«Misero nero su bianco: “Siccome le risorse sono quel che sono, facciamoli dormire, ogni tanto li svegliamo, a turno, li aggiorniamo e poi via, di nuovo a nanna.” All’inizio si pensò a una boutade di uno scienziato pazzoide ma la tecnologia c’era, i mezzi si trovarono e si coltivò la speranza che le sempre meno risorse sulla Terra sarebbero state sufficienti per avviare nuove piccole comunità. Fine della fiera. Mi spiace.»
Li riportai all’ordine: la navetta era riuscita ad atterrare e vedevamo alcuni Rob aiutare una trentina di persone a salirvi a bordo, non senza difficoltà. I sensori rilevavano scosse di terremoto continue, sempre più forti, sul terreno si stavano formando crepe profonde da cui uscivano nuvole di vapore e in cui sprofondavano i pochi edifici rimasti. L’aria sembrava crepitare e la cupola emetteva scricchiolii sinistri: l’avremmo vista implodere su sé stessa e poi fiorire come un sinistro fungo atomico. Era stato così per tutte le cupole, le cui rovine erano ancora visibili dallo spazio.
Sono passati sei mesi e come ogni mattina Hala sta osservando malinconicamente il sorgere della Terra: nonostante il pianeta avesse perso parte dei suoi splendidi colori, è sempre uno spettacolo emozionante. Persino le spaventose spirali degli uragani sono affascinanti.
Percepisco la tristezza di Hala: magari se aumento un po’ la mia temperatura e l’abbraccio, si sentirà meglio. Un po’ di calore simil umano è sempre meglio di niente. O no?
Dal corridoio arrivano improvvisamente voci e passi veloci: Isha irrompe nella stanza, con un’espressione che non gli avevo mai visto.
«È nata! La prima bimba lunare è nata! È bellissima, perfetta.» Non urla. Strano.
La bimba quasi sparisce tra le braccia di Isha, che ride e piange. O piange e ride? Credimi, non lo credevo capace di tanta sensibilità.
Mi si avvicina e mi porge il fagottino: è leggero, tiepido e profumato; la piccola si agita e dalla memoria mi arrivano le immagini di madri che stringono i loro bimbi cantando sottovoce nenie delicate e… provo a fare altrettanto.
La piccola si calma, sul visino appare una strana smorfia e apre gli occhi: so che vede solo ombre, però mi sento guardata.
Mentre le sistemo la cuffietta, dalla coperta spunta una manina minuscola che mi afferra un dito. Mi giro verso Hala, che mi guarda perplessa.
«Thera, che succede?»
«Mi ha sorriso! Guarda, sorride.»
Se sapessi piangere, sarei l’androide più felice dell’universo.
Devo imparare.