Lucilla Paini, 85 anni tondi, conosceva quel tratto del Grande Fiume, che scorreva appena fuori dal paese, forse meglio delle sue tasche: non avevano segreti per lei le anse, i boschetti o i sentieri sabbiosi, che appena si intravedevano tra la boscaglia e che sbucavano sul greto del fiume.
Sapeva, dal colore e dall’odore dell’acqua, come stava il suo fiume. Era nata, cresciuta e aspettava la sua ora in una vecchia casa golenale dove, ogni tanto, si trovava l’acqua al ginocchio.
Lucilla amava il Grande Fiume. Lo amava. Lo rispettava. Lo temeva. Non lo sfidava.
Aveva tante volte pregato per le persone che la furia delle acque aveva lasciato senza casa, per i morti trascinati per chilometri come marionette.
Ogni giorno, e non importava che tempo facesse, Lucilla saliva sull’argine e si faceva un bel giro, anche se sempre più corto: comandavano le gambe adesso, non il cervello. Ma andava bene così: «Putost che nient, l’è mei putost!»
Quel giorno faceva molto caldo ma Lucilla, in barba a tutti i consigli, era andata lo stesso a far due passi. A un certo punto aveva sentito dietro di lei un’auto fermarsi e poi ripartire; ne era sceso qualcuno che prese a seguirla, ma lei non se ne curò: l’argine era di tutti, come il mondo.
«Lucilla.»
«Maresciallo.»
Camminarono per un po’ in silenzio: il giovane adeguò il passo a quello di Lucilla, che di tanto in tanto si fermava a cogliere dei fiori.
«Non dovrebbe starsene in casa, con ‘sto caldo?» Accento del sud. Sudato.
«Io ci vado d’accordo col caldo. E anche col freddo. Lei piuttosto.»
«Anche a me piace, ma non ‘st’umidità: mi vien voglia di fare un bagno nel fiume, c’è una spiaggetta lì.»
«Faccia testamento prima.»
«Testamento?»
«Qui ci sono dei fondoni. Sa cosa sono? Sono come dei pozzi, ma non sai mai dove si formano. Veh, guardi qui.»
Erano arrivati a un piccolo cippo: Lucilla ripulì la foto di una bella ragazza, morta il 25 settembre del ’45, a vent’ anni.
«Era mia cugina, sfollata in paese. Quel giorno era andata proprio lì con degli amici, si erano divertiti tanto. Verso sera lei aveva voluto bagnarsi i piedi un’ultima volta. È andata giù, in un fondone nello stesso punto dove avevano fatto il bagno prima. Non l’hanno più trovata. Veda lei…»
Non c’era molto da dire: a riempire il loro silenzio per qualche minuto ci pensarono le cicale e qualche gazza. Arrivati alla casa di Lucilla, il maresciallo le chiese:
«Lei crede nei fantasmi?»
«Nei fantasmi? Mi prende in giro?»
«Non direi. Ha sentito dell’incidente di ieri sera, sulla strada bassa?»
«Ho letto solo il titolo sul giornale e visto le foto.»
«E che ne pensa?»
«Che quando un’auto ha tanti cavalli sotto il cofano ma un asino al volante, certe cose capitano. Quella strada lì è pericolosa, soprattutto di notte ci vuol prudenza, le curve sono traditore.»
«Traditrici.»
«L’è di stess, il risultato non cambia. Ma, maresciallo…»
«Enrico.»
«Piano con le confidenze. Comunque, lei non è mica qui per un bicchier d’acqua. Cos’è che vuol sapere?»
«Dov’eravate ieri sera lei e il suo ape car?»
«Qui, come al solito, da poveri vecchi. Camere separate però eh! Senta non è che il caldo le ha dato alla testa?»
«C’è che quell’auto è uscita di strada perché il suo ape car gli ha tagliato la strada e ne è sceso qualcuno travestito da fantasma che ha preferito sparire in gran fretta, ma ha perso la targa.»
«Ma che storia…»
Fu in quel momento che sentirono dei rumori provenire da un locale attiguo al fienile.
«Oh è il cane che cerca di prendere i piccioni. ‘Spetta che vado a vedere.»
Ma i rumori erano un po’ strani e il maresciallo volle entrare per primo.
Si trovò davanti a una ragazza imbavagliata e legata a un vecchio trattore. Indossava un camicione, bianco e aveva lunghi capelli biondissimi.
«Ecco il nostro fantasma: Cecilia, se non sbaglio. Il fantasma dell’ape car.»
Lucilla spiegò che aveva prestato a Cecilia il mezzo per portare la sua bancarella alla fiera: avendolo trovato sotto al portico, aveva pensato che Cecilia l’avesse riportato quando lei era andata a fare il solito giro.
«Si son fatti male quei balordi?» chiese la ragazza appena si fu ripresa.
«Solo qualche graffio.»
«Peccato. Li ho sentiti alla fiera, ieri sera. Volevano venire a rubare della roba vecchia che hai qui dentro, da rivendere a chi non ho capito bene.»
«Che semi! Mi facevano un piacere a portarla via, bastava chiedere.»
«Mi creda maresciallo, volevo solo arrivare prima di loro, che non le facessero del male. Ho preso male una curva e siamo finiti tutti nel prato. Mi sono alzata… mi ricordo solo che Ugo e la sua ragazza mi hanno preso, legato, imbavagliata e portato qui con l’ape car. Mentre se ne andavano li ho sentiti litigare, poi lei è tornata e mi ha colpito con quel bastone lì. Non ricordo altro.»
«Una ragazza? Ma quando siamo arrivati c’era solo Ugo e il suo amico.»
«Beh, prima c’era anche lei. Ecco, le ho strappato questo ciondolo: è uno dei miei. Gliel’ha regalato Ugo ieri sera.»
Sapeva, dal colore e dall’odore dell’acqua, come stava il suo fiume. Era nata, cresciuta e aspettava la sua ora in una vecchia casa golenale dove, ogni tanto, si trovava l’acqua al ginocchio.
Lucilla amava il Grande Fiume. Lo amava. Lo rispettava. Lo temeva. Non lo sfidava.
Aveva tante volte pregato per le persone che la furia delle acque aveva lasciato senza casa, per i morti trascinati per chilometri come marionette.
Ogni giorno, e non importava che tempo facesse, Lucilla saliva sull’argine e si faceva un bel giro, anche se sempre più corto: comandavano le gambe adesso, non il cervello. Ma andava bene così: «Putost che nient, l’è mei putost!»
Quel giorno faceva molto caldo ma Lucilla, in barba a tutti i consigli, era andata lo stesso a far due passi. A un certo punto aveva sentito dietro di lei un’auto fermarsi e poi ripartire; ne era sceso qualcuno che prese a seguirla, ma lei non se ne curò: l’argine era di tutti, come il mondo.
«Lucilla.»
«Maresciallo.»
Camminarono per un po’ in silenzio: il giovane adeguò il passo a quello di Lucilla, che di tanto in tanto si fermava a cogliere dei fiori.
«Non dovrebbe starsene in casa, con ‘sto caldo?» Accento del sud. Sudato.
«Io ci vado d’accordo col caldo. E anche col freddo. Lei piuttosto.»
«Anche a me piace, ma non ‘st’umidità: mi vien voglia di fare un bagno nel fiume, c’è una spiaggetta lì.»
«Faccia testamento prima.»
«Testamento?»
«Qui ci sono dei fondoni. Sa cosa sono? Sono come dei pozzi, ma non sai mai dove si formano. Veh, guardi qui.»
Erano arrivati a un piccolo cippo: Lucilla ripulì la foto di una bella ragazza, morta il 25 settembre del ’45, a vent’ anni.
«Era mia cugina, sfollata in paese. Quel giorno era andata proprio lì con degli amici, si erano divertiti tanto. Verso sera lei aveva voluto bagnarsi i piedi un’ultima volta. È andata giù, in un fondone nello stesso punto dove avevano fatto il bagno prima. Non l’hanno più trovata. Veda lei…»
Non c’era molto da dire: a riempire il loro silenzio per qualche minuto ci pensarono le cicale e qualche gazza. Arrivati alla casa di Lucilla, il maresciallo le chiese:
«Lei crede nei fantasmi?»
«Nei fantasmi? Mi prende in giro?»
«Non direi. Ha sentito dell’incidente di ieri sera, sulla strada bassa?»
«Ho letto solo il titolo sul giornale e visto le foto.»
«E che ne pensa?»
«Che quando un’auto ha tanti cavalli sotto il cofano ma un asino al volante, certe cose capitano. Quella strada lì è pericolosa, soprattutto di notte ci vuol prudenza, le curve sono traditore.»
«Traditrici.»
«L’è di stess, il risultato non cambia. Ma, maresciallo…»
«Enrico.»
«Piano con le confidenze. Comunque, lei non è mica qui per un bicchier d’acqua. Cos’è che vuol sapere?»
«Dov’eravate ieri sera lei e il suo ape car?»
«Qui, come al solito, da poveri vecchi. Camere separate però eh! Senta non è che il caldo le ha dato alla testa?»
«C’è che quell’auto è uscita di strada perché il suo ape car gli ha tagliato la strada e ne è sceso qualcuno travestito da fantasma che ha preferito sparire in gran fretta, ma ha perso la targa.»
«Ma che storia…»
Fu in quel momento che sentirono dei rumori provenire da un locale attiguo al fienile.
«Oh è il cane che cerca di prendere i piccioni. ‘Spetta che vado a vedere.»
Ma i rumori erano un po’ strani e il maresciallo volle entrare per primo.
Si trovò davanti a una ragazza imbavagliata e legata a un vecchio trattore. Indossava un camicione, bianco e aveva lunghi capelli biondissimi.
«Ecco il nostro fantasma: Cecilia, se non sbaglio. Il fantasma dell’ape car.»
Lucilla spiegò che aveva prestato a Cecilia il mezzo per portare la sua bancarella alla fiera: avendolo trovato sotto al portico, aveva pensato che Cecilia l’avesse riportato quando lei era andata a fare il solito giro.
«Si son fatti male quei balordi?» chiese la ragazza appena si fu ripresa.
«Solo qualche graffio.»
«Peccato. Li ho sentiti alla fiera, ieri sera. Volevano venire a rubare della roba vecchia che hai qui dentro, da rivendere a chi non ho capito bene.»
«Che semi! Mi facevano un piacere a portarla via, bastava chiedere.»
«Mi creda maresciallo, volevo solo arrivare prima di loro, che non le facessero del male. Ho preso male una curva e siamo finiti tutti nel prato. Mi sono alzata… mi ricordo solo che Ugo e la sua ragazza mi hanno preso, legato, imbavagliata e portato qui con l’ape car. Mentre se ne andavano li ho sentiti litigare, poi lei è tornata e mi ha colpito con quel bastone lì. Non ricordo altro.»
«Una ragazza? Ma quando siamo arrivati c’era solo Ugo e il suo amico.»
«Beh, prima c’era anche lei. Ecco, le ho strappato questo ciondolo: è uno dei miei. Gliel’ha regalato Ugo ieri sera.»