Sono il pianeta Terra e la mia vita sarebbe stata tremendamente vuota e triste se non avesse incrociato il volo e il canto degli uccelli. Che poi a me sarebbe bastato guadagnare come un semplice magazziniere per prendermi cura di gufi, rondini, cornacchie e gabbiani, quasi sempre autosufficienti, e sentirmi sempre meno vecchio e malandato. Si dice o no a chi si alimenta debolmente: Mangi come un uccellino?
Nonostante la cattiva presenza dell’uomo la mia vita non è stata mai solitudine e fallimento, ma quasi sempre una primavera, un’iniziazione di felicità.
Con me gli uccelli hanno un’intesa perfetta e passione reciproca. L’immaturità di qualche rapace e il materiale freddo della diffidenza umana non hanno mai intaccato il nostro rapporto.
Io, pianeta Terra, per quanto possa sentirmi inerme, strozzato dalla mano bruta degli eventi che mi stringe forte la gola, riesco ancora a percepire la mia bellezza, e i canti degli uccelli, mai disturbanti, fossero pure di quelle cornacchie nere, curiose e invadenti, pronte sempre a inserirsi in una nuova trama. Faccio pure finta di non vederle quando diventano ripugnanti nel loro mestiere di spazzini di animaletti di ogni tipo.
La crudeltà verso questi volatili somiglia tanto alla stupidità dell’odio razziale e la furiosa abitudine scaramantica di qualche umano di prenderle spesso a sassate per tenerle lontane le stimola a ritornare in gruppo per una giusta vendetta. Molti umani freschi di odio potrei mostrarli, ma è meglio sorvolare sul bagliore di questa arida contestazione e quei sassi farli diventare sempre meno accecanti.
Come pianeta Terra potrei battere a macchina questa dichiarazione e tenere fede al mio pensiero: La mia vita sarebbe niente se non avessi incrociato queste bistrattate cacciatrici di rifiuti.
Pure i gabbiani stanno al loro meglio sulle decomposizioni cittadine. Li osservo nei giardini pubblici alla ricerca di un cartoccio untuoso di avanzi, di una fontana, e nelle strade secondarie dove non serve astuzia e velocità per mettersi in fuga. Non mi ricordo il loro posto nell’ordine sociale, ma se provo per le cornacchie un benevolo e distaccato disprezzo, per loro mantengo una quota di ammirazione per la capacità di sfruttare le correnti d’aria nei loro voli spettacolari.
Pensare che possiedo mari ricchi di pesce, porti densi di barche e di pescato, e vedere spesso gabbiani statici tra i rifiuti mi fa male.
Comunque non dimentico le loro tracce nelle favole per bambini, sotto un firmamento stellato di albe e tramonti riflessi su cuscini di mare piatto. Sono innamorato di loro un po’ come loro sono innamorati di me e muoio dalla voglia di dirlo anche se questa lettera d’amore piuttosto insolita non avrebbe il getto potente della realtà e dei sentimenti umani, e nessuno mai mi darebbe un parere sincero e preciso su questo nostro bel rapporto, hanno tutti altro a cui pensare.
Un’automobile elettrica con il suo rumore di affettatrice di mortadella si ferma sulla strada proprio accanto all’entrata dell’ospedale Fatebenefratelli. Il parcheggio è piccolo, ma strategico per chi aspetta la nascita di un bambino. In quell’isolotto sul Tevere voi gabbiani avete ereditato un piccolo capitale a poterci stare. Avete vissuto gli stessi anni di quelle mura immersi tra la gente romana pur mantenendo un rispettoso distacco e voi che non possedete nulla perché non volete possedere nulla, riuscite a suggere piccole dosi della felicità che affiora sui volti di mamme e papà.
Dai tetti vi alimentate con gli sguardi scaraventati in verticale da chi vuole ringraziarvi per il vostro acrobatico conforto. Non c’è altro più importante dei gabbiani su cui fermare lo sguardo, almeno in quei momenti.
-Lei è un dottore? chiede un uomo giovane in abito spezzato e cravatta, all’entrata dell’Ospedale
-No signore, sono un semplice infermiere.
- Tutti vestiti allo stesso modo e non si capisce il vostro ruolo, mi scusi. Ho la mia piccola da voi ospitata in un’incubatrice, nessuno mi da notizie, non so nemmeno dove poterla vedere e quando uscirà, sono l’uomo più sfortunato del pianeta.
- Non si disperi, è in buone mani e il‘nostro caro angelo la proteggerà, - dice alzando lo sguardo verso i tetti.
- Un angelo qui dentro?
- Non qui dentro, fuori, sul tetto, quel gabbiano è il nostro ‘caro angelo’, il nome glielo ha affibbiato l’ostetrica più anziana dopo qualche nascita particolarmente difficile.
- E funziona?
- Non ne sono matematicamente sicuro, ma quel gabbiano è prezioso quanto uno stormo di dottori.
L’uomo butta lo sguardo a quello che appare come un normalissimo gabbiano, pure avanti con gli anni, che non lo degna di un rimando.
- Non mi resta che pregare.
- Non serve pregare, - dice l’infermiere.
- Mi sembra un’esclamazione di puro delirio.
- Se ancora non ha scelto un nome si sbrighi a farlo e lo scelga bello.
L’uomo si asciuga la sua emozione con un fazzoletto di carta che gli si sbriciola in un occhio rendendo comica la sua lacrima.
- Ma quale nome, mi hanno detto che ha il pianto flebile ed è fortemente disidratata, la mia bimba rischia.
- Oggi è san Michele, si lasci ispirare. Ogni mamma che esce dall’ospedale segue la routine di alzare gli occhi al cielo per ringraziare quel gabbiano, anche se quello se ne sta per i fatti suoi e non è davvero in cerca di ringraziamenti. Se qualcuno sta male e poi si salva è solo per fortuna e per la bravura del personale medico, questo è ovvio.
- Caro pianeta Terra perché racconti proprio a me questa storia?
- Perché non è una storia qualsiasi e malridotto come sei mi sento in dovere di tirare su il tuo morale.
- Figurati, da quando non ho più una compagna dimentico pure di beccare il cibo, non camperò molto.
- Qual è il ricordo più bello che hai della tua compagna? - Glielo chiedo con lo stesso imbarazzo di chi ha appena avuto uno starnuto improvviso.
- Il ricordo più bello è stato un panino imbottito di alici abbandonato da qualche turista sozzone sul ponte Cestio. Me lo aveva portato lei con il suo becco forte e le sue zampette palmate. All’inizio pensavo fosse una banale preda e invece era un panino saporitissimo che abbiamo mangiato sulla torre dell’ospedale senza avere intorno quelle invadenti cornacchie.
- Mi dispiace avertela ricordata, ti vedo commosso.
- Mi chiedo spesso dove sarà finita, lei non mi avrebbe mai abbandonato, passavamo tutto il tempo insieme, senza dirci niente, osservando il fiume. Lei sarà qui vicino, e non vuole farsi vedere, starà male probabilmente. Non ho altre spiegazioni da darmi. Pure gli uccelli selvatici si ammalano e non hanno dottori. Spero solo che non soffra come me.
- Tu proteggi tutti e non hai saputo proteggere chi ti stava accanto. Uno scarto di sorriso appare sul mio volto.
- Io non proteggo un cavolo di nessuno, sono un gabbiano obeso, glorificato a dismisura, che si ingozza di cibo e solitudine. Se mi attribuiscono poteri speciali per le nascite non posso fare niente per fargli cambiare idea.
- Se ti senti una nullità non deludere chi crede in te, perché deluderli non serve neppure per un momento.
- Va bene, se c’è qualcuno che vuole imparare a fallire, mandatelo, ma tu sei il mio pianeta, mica sei il mio Dio, anche perché un Dio non ce l’ho.
- Tu non hai nemmeno un nome, caro mio.
- Tutti gli uccelli in libertà non hanno un nome, gli umani lo danno pure alle pulci del loro appartamento, ma agli uccelli niente e questo in parte mi consola, perché significa che sono libero. Per il cibo non devo spostarmi molto, c’è il fiume, il secchione della cucineria e una suora tanto in gamba, l’unica che non mi prende a parolacce se ogni tanto rubo il cibo. Lei accoglie nella cappella dell’ospedale cani abbandonati e mendicanti compunti, senza fare selezioni.
Nella chiesetta una donna stringe al seno con tenero amore il pianto del suo bambino uscito dal suo grembo già infastidito, non sembra aver apprezzato l’occasione di nascere.
Piccioni e gabbiani , fuori sul ponte Cestio, mostrano la loro olimpiade ai turisti rimasti. Sembrano attratti dai rossetti grossolani delle labbra femminili e dalla calvizie degli uomini accuratamente strutturata.
Il loro canto imperfetto ha una tonalità idiota, ma divertente.
Una gabbianella sorvola il fiume con un volo a scatti, sembra avere un cuore di plastica che esce dal suo petto sventrato per andare in cerca di qualcuno.
Il sole sparisce con una specie di bruciore malandato.
Ha nel tondo infuocato una targhetta obliqua.
La pipì di un cane randagio scende lenta come cera di candela.
Sul ponte Cestio.