L’odore rancido del grasso cotto e quasi bruciato si mischiava all’aria d’umido e muffa che impregnava i muri, le scale e il corrimano. Le luci soffuse delle lampadine opache e il freddo creavano una specie di condensa nebbiosa degna di una brughiera.
“Alza il tuo culo dal letto, fannullone!” gridò la signora Eileen all’uomo che dormiva nel letto non molto distante dal piano cottura. L’uomo, suo figlio, le rispose con qualche mugugno soffocato e puzzolente di birra.
Il grasso del bacon nella padella bollente scoppiettava macchiando il vetro della finestra che dava sull’androne.
“Che c’è di buono per colazione, mamma?” disse James mollando un rutto alcoolico alla fine dell’ultima sillaba.
“Vacci piano con le pinte! Che giorno è oggi?” rispose sua madre senza distogliere lo sguardo dalle uova che si rapprendevano sopra al bacon ingrigito.
“Domenica” disse James.
“Non è mai domenica per noi, te lo sei dimenticato? Bacon e uova. Per partire con una marcia in più, tesoro!” esclamò Eileen, enfatizzando il suo tono sarcastico.
“Allora è come tutti gli altri giorni!” bofonchiò James.
In quel momento madre e figlio sentirono il portone chiudersi e, come gli accadeva ogni volta, si zittirono istantaneamente, tendendo le loro fini orecchie da portineria.
Davanti al vetro si fermò un uomo. Cappello nero, sciarpa che copriva il viso lasciando fuori solo gli occhi e cappotto lungo fin sotto le ginocchia.
“Buongiorno!” esclamò Eileen con padella e cucchiaio in mano.
“Quarto piano” sussurrò una voce che a Eileen parve anziana. La donna gli sorrise muovendo la padella in avanti in segno di benvenuto. Il losco figuro, senza pendere tempo, s’avviò verso le scale. Il rumore dei suoi passi scomparì salendo.
“Un buon inizio di giornata!” esclamò Eileen.
“Secondo me era un prete” disse James sputacchiando pezzi di uovo.
“Cosa te lo fa pensare?”
“Scarpe lucidissime!”
“Sei un buon osservatore per essere uno scaricatore di porto!”
“Il resto era una maschera nera! Sai una cosa, mamma?”
“No, cosa?”
“Si dice che Belinda sia…”
“Cosa!”
“Un uomo.”
“Troppe pinte ti fanno male ragazzo! Sbrigati o farai tardi! E non farti venire in mente strane idee!”
James si alzò da tavola, prese il cappotto, sciarpa e uscì. Eileen, ancora con la padella unta in mano, era immobile nella stessa posizione. Aveva fatto finta di non sapere con James, ma già le erano giunte voci simili sul conto di Belinda. Radio portinaia non mente quasi mai: “Uomo o donna, sempre puttana rimane” pensò.
Il cielo grigio londinese incombeva sulla grande casa di Hyde Park Gate. Una debole luce penetrava attraverso la grande finestra della camera da letto. C’erano molte persone all’interno della stanza. Si muovevano freneticamente tra gli arredi. Controllavano i cassetti, gli armadi, i plichi di carta appoggiati sui comodini. Uno di loro scorreva ciascuna pagina di ogni libro che trovava. In quel trambusto, un uomo giaceva immobile nel suo letto. Era morto.
Dopo poco tempo, quel nugolo di uomini abbandonò la stanza e scese le scale della villa. Uscirono dall’ingresso principale sussurrando ai due agenti della Metropolitan Police che piantonavano la porta un laconico “Noi abbiamo finito”.
L’auto del commissario Rosemberg giunse davanti alla villa lasciando una frenata sull’asfalto nello stesso momento in cui quegli uomini partivano sgommando sui loro mezzi. Avrebbe voluto arrivare soltanto due minuti prima. Imprecò a mezza voce.
“Servizi?” chiese agli agenti nonostante conoscesse già la risposta. Gli agenti alzarono le spalle. Rosemberg, accendendo una sigaretta, pensò a quanto quella giornata sarebbe stata diversa da tutte le altre.
Era pensieroso, il suo sguardo era fisso sui cerchi di fumo che cercava di fare con la bocca. Si destò sentendo la voce di uno degli agenti dire qualcosa, girandosi di scatto verso di loro. Li vide entrambi accennare un inchino all’uomo in pastrano nero che avevano davanti. Si avvicinò quattamente.
“Eminenza, siete voi. Vi vedo trafelato e affaticato” esclamò Rosemberg sorprendendo il prelato alle spalle e accennando a sua volta un inchino.
“Sono corso qui appena ho saputo. E ora, commissario, se volete scusarmi” rispose l’uomo sorpassando gli agenti verso la porta.
Rosemberg accese un’altra sigaretta e si rivolse ai colleghi in uniforme: “Ragazzi, non vi pare strano che il cardinale venga qui in abiti borghesi?” Gli uomini alzarono le spalle.
“Ah, Aberlain!” esclamò Rosemberg, sorpreso di vedere il collaboratore.
“Signore. Ero certo di trovarla qui” rispose il subalterno.
“Novità dal commissariato?”
“Un omicidio. A Whitechapel. Monza Street.”
“Andiamo! Ti vedo cupo, sergente” disse il commissario con tono indagatore.
“Le spiego strada facendo.”
Da quel momento in poi il via vai dalla villa fu continuo. La notizia si era sparsa in città. Anzi, nel mondo.
“Porca troia!” esclamò Rosemberg, “e chi l’avrebbe mai detto!”
Il sergente Aberlain abbassò lo sguardo e diventò rosso come un peperone.
Rosemberg lo fissò negli occhi: “Mi dispiace per te, vecchio mio!”
“Signore, vi prego di…”
“Stai tranquillo vecchio mio,” lo interruppe Rosemberg, “non sei né il primo né l’ultimo ad avere certi vizi.”
Il sergente, ancora visibilmente imbarazzato, disse: “La vittima si chiamava Jorge Contreras, nato a Recife, Brasile, il 15 marzo 1938. Ma tutti lo conoscevano,” ebbe un conato di vomito, “come Belinda.”
“Avanti!” esclamò Rosemberg.
Il sergente si asciugò un rivolo di vomito che non era riuscito a trattenere con il fazzoletto: “La vittima è stata strangolata, non ci sono segni di effrazione all’ingresso e dall’appartamento sembra non mancare nulla.”
Tossì e aggiunse, con sguardo assente: “Attendiamo il rapporto del coroner.”
“Sarà come cercare un ago in un pagliaio” sospirò il commissario sputando fumo dalla bocca.
L’appartamento era fatiscente. Rosemberg volle immaginarsi cliente di Belinda. Entrando si trovò subito nella stanza principale; quella venere mulatta lo attendeva distesa sul letto ornato da una miriade di piume colorate e foderato con lenzuola di seta morbida e profumata. Lo sguardo di Rosemberg si sciolse in quegli azzurri occhi esotici e, colando, percorse quelle curve sinuose fino al tacco dodici delle scarpe di paillettes. Sopra un comodino giaceva tutto l’occorrente per preparare un ottimo guaranà capace di ridestare gli umori sopiti dopo essere ascesi alle stelle. Sull’altro, alcuni arnesi del mestiere come frustino, maschera nera e manette. Rosemberg sorrise in silenzio. Ad ogni parete era affisso uno specchio, ciascuno posto in modo asimmetrico rispetto al proprio gemello. “Certo che questi specchi ne hanno viste” pensò il commissario tra sé. Oltre quella stanza del paradiso, un cucinotto lurido con pentole e bicchieri sporchi, animato soltanto dal ticchettio delle zampette di uno scarafaggio su una mensola. La toeletta, celata dietro una tenda di lino sfilacciata, consisteva in un secchio sotto a un rubinetto e a una turca scura, maleodorante e scrostata.
Rosemberg ebbe un conato. Per un attimo si era lasciato trasportare dall’immaginazione, ne aveva goduto mentalmente, ma dopo la vista di quello schifo, ebbe il desiderio di uscire subito. Si fermò soltanto quando il suo sguardo incrociò la figura di Aberlain, immobile davanti al letto, che piangeva come un bambino.
Eileen era scossa. La notizia della morte violenta di Belinda la sconvolgeva. Non aveva mai avuto una buona opinione di lei, ma non pensava di rimanere così colpita emotivamente. Poi, quelle dicerie. Si stava mordendo nervosamente il labbro quando Rosemberg e Aberlain le si pararono davanti dall’altra parte del vetro.
“Buongiorno, signora. Sono il commissario Rosemberg, lui è il sergente Aberlain. Vorremmo farle qualche domanda” esordì il poliziotto.
“Ma io non so niente!” tagliò corto Eileen, il cui nervosismo faceva vibrare l’aria rarefatta.
“Stia tranquilla, signora. Vorrei solo chiederle se ha notato qualcosa di strano, qualche movimento sospetto questa mattina” disse calmo Rosemberg.
“Mi scusi commissario, ma sono sconvolta. In tanti anni mai mi è capitata una cosa simile” disse a mezza voce Eileen. Stava per piangere. “Non ho notato nulla di strano o diverso questa mattina. O meglio, stamattina presto è venuto un signore tutto vestito di nero con le scarpe lucidissime” aggiunse.
“Gli ha guardato le scarpe?” disse sorpreso il commissario.
“No! Io no! Ma mio figlio sì!”
“Ha un figlio? Dove si trova adesso?”
“E’ al lavoro, fa lo scaricatore al Tobacco Dock. Era con me quando è passato quel signore. Scherzammo sulle scarpe lucidissime che riflettevano tutto il nero che aveva addosso” rispose Eileen.
“Lei pensa che andasse da Belinda?” la incalzò Rosemberg.
“Non sono sicura, anche perché era molto presto. Ma non vuol dire. Certo che è risaputo quanto Belinda fosse un’instancabile lavoratrice” rispose secca la portinaia.
“Altre persone sono passate di qui? Quando ha visto Belinda l’ultima volta?”
“Eccetto gli inquilini nessuno. O forse no, tra le undici e mezzogiorno, non ricordo più precisamente, mi sono assentata per stendere il bucato. Potrebbe essere passato chiunque. Belinda? No. Non l’ho vista oggi. Ieri sera, sì, ieri sera. Era andata a comprare una bottiglia di scotch nel pub di fronte, sa com’è, tra un cliente e l’altro. Doveva averlo finito” raccontò con calma Eileen.
“Per ora la ringraziamo, signora. Quando possiamo trovare suo figlio?” chiese infine Rosemberg.
“Rientra tardi la sera, poiché deve attendere l’ultima nave. Fate prima ad andare al porto. Si chiama James, James Spithill” rispose la donna. E aggiunse, prima che i due poliziotti si voltassero per andarsene: “Commissario! Ma è vero che Belinda era un uomo?”
Rosemberg sorrise: “Chi glielo ha detto, signora? Suo figlio, per caso?”
Fuori dal portone, il commissario si accese l’ennesima sigaretta. “Ho visto un uomo in nero oggi. E aveva le scarpe lucide!” pensò ad alta voce.
“Come dice, signore?” chiese Aberlain proferendo le sue prime parole da quando era uscito dalla stanza dove giaceva il corpo di Belinda.
“Ah! Fandonie! Nulla, vecchio mio!” rispose stizzito Rosemberg.
Il commissario fumava seduto alla sua scrivania. Sulla parete di fronte a lui, dentro una cornice dorata, una foto di Churchill sembrava fissarlo. Era ritratto con l’immancabile sigaro in bocca, mentre posava con il gesto della mano della vittoria. Seppur indirettamente, l’ombra dello statista sembrava aver oscurato anche il caso di omicidio a cui Rosemberg lavorava, anche se soltanto per una pura coincidenza temporale. Erano giorni di grande fermento, il grosso delle forze di polizia era impegnato a garantire la sicurezza della città per un evento che sarebbe stato imponente.
“Come on!” Rosemberg saltò sulla sedia. Rifocalizzò lo sguardo sulla foto e gli parve di vedere Winston sorridere. La stanza era vuota e silenziosa. Victory.
Quel sabato pomeriggio il lavoro nel dock sembrava diverso dalla solita routine. A breve i portuali avrebbero interrotto il turno poiché fu concessa loro la facoltà di raggiungere la riva del fiume per il passaggio del corteo funebre.
James, in mezzo a tutti i portuali, si alzò sulle punte per guardare verso Tower Pier e scorgere l’avanzare del corteo. Faceva fatica a focalizzare in mezzo a tutto quel muoversi di teste. Vide la prima barca in lontananza, mentre il vociare delle persone vicino a lui si faceva sempre più sonoro.
Quando le barche furono praticamente davanti al suo naso, uno scrosciante applauso squarciò l’aria. James si sentì stringere il gomito.
Si girò e vide un uomo davanti a lui, in impermeabile beige, con un poliziotto a fianco.
“James Spithill?” disse Rosemberg urlando.
“Sì?” rispose il giovane.
“Commissario Rosemberg, Metropolitan Police. La dichiaro in arresto per l’omicidio di Jorge Contreras!”
James si girò sbattendo contro un altro operaio, quasi a voler tentare una fuga disperata. Aveva già una mano ammanettata.
La barca con la bara di Winston Churchill risaliva lentamente il Tamigi davanti ai docks. Le sirene delle navi tuonarono e le gru del porto si abbassarono in segno di saluto.