Staffetta 14 - Episodio 1
Albemasia
I primi fiocchi presero a volteggiare nell’aria immobile della notte annunciando l’arrivo dell’inverno.
Dietro i vetri luridi della baracca cinquantuno Anna seguiva con sguardo preoccupato quella danza silenziosa quando, inatteso, le si affacciò il ricordo di un’altra nevicata, in un tempo e in uno spazio infinitamente distanti: in quel lontano pomeriggio la neve scendeva copiosa sulle strade di Vienna, mentre lei, seduta al pianoforte della grande casa di Singerstraße, era assorta nel brano che stava eseguendo. Adorava quella sonata, Beethoven era il suo compositore preferito, e le sue dita volavano sui tasti. Era talmente concentrata da non accorgersi dell’arrivo di Mark.
Il giovane era sulla soglia, lo sguardo ammaliato dalla visione delle gote accese di Anna, mentre un ricciolo ramato ondeggiava in balia del ritmo incalzante della musica.
D’un tratto l’aria del motivo aveva rallentato, si era fatta languida, finché le note si erano spente.
Quando Anna aveva alzato lo sguardo, si era accorta di lui.
«Da quanto tempo sei qui?»
«Da un po’,» aveva risposto Mark «ma mai abbastanza».
Anna aveva gettato indietro la testa in una risata genuina, mostrando la gola candida: «Sei sempre il solito».
Poi, avvicinatasi alla finestra, aveva esclamato: «Hai visto come nevica?»
Lui l’aveva raggiunta da dietro, Anna si era voltata e il sorriso le si era spento sulle labbra quando Mark le aveva cinto la vita con un braccio, attirandola delicatamente a sé. I loro corpi si erano toccati e Anna aveva chiuso gli occhi, offrendosi a quel primo bacio inaspettato e desiderato allo stesso tempo.
Beethoven: quanto lo odiava ora, ogni volta che la costringevano a suonarlo davanti alle guardie del campo.
Tronfi nelle loro uniformi, i soldati ridevano sguaiatamente a battute da caserma, ignorando quell’ebrea ai margini dello stanzone, che per ore muoveva faticosamente le dita congelate sulla tastiera aliena del pianoforte.
I riccioli fulvi di cui era andata tanto fiera avevano ceduto il posto a una zazzera dal colore spento infestata di pidocchi e il volto, una volta pieno e roseo, adesso era ridotto a una maschera grigiastra, in cui spiccavano gli zigomi sporgenti. Gli occhi segnati avevano perso l’antica luce e le labbra, un tempo tumide di giovinezza, ora erano dolorosamente spaccate dal gelo.
Non smetteva di tremare nella ruvida casacca di cotone e, ogni volta che le sue mani si agitavano sui tasti del piano, un lembo della manica troppo corta lasciava intravedere il numero con cui era stata marchiata a fuoco come un animale.
Anna respinse i vapori dei ricordi del passato che le facevano salire agli occhi lacrime pungenti e le appannavano i sensi.
Ora più che mai doveva restare concentrata sul suo progetto.
Da tempo si preparava a quella fuga, osservava gli orari dei cambi delle sentinelle, il numero di passi da una baracca all’altra e il tempo impiegato dal fascio di luce del faro a completare il perimetro del campo. Aveva ripetuto mentalmente ogni singolo particolare del piano infinite volte. Adesso era giunto il momento di metterlo in pratica, prima che la neve che si sarebbe depositata potesse rivelare le sue impronte.
Alzò la testa dal pagliericcio e scrutò nel buio la distesa di corpi assiepati nei loro giacigli. Ogni tanto un gemito sommesso e un colpo di tosse qua e là rompevano il silenzio e Anna sperava, visto che di pregare aveva smesso da tempo ormai, che le altre prigioniere stessero tutte dormendo.
Con molta cautela si levò a sedere, facendo attenzione a non far scricchiolare le assi sotto di lei. Controllò che non ci fossero occhi indiscreti che la stessero osservando, poi si alzò in piedi.
Per mesi aveva tenuto d’occhio i movimenti dalle cucine e aveva notato che i bidoni con i rifiuti venivano trasportati fuori dal campo prima dell’appello dei prigionieri all’alba. Se fosse riuscita a nascondersi dentro uno di essi, forse avrebbe avuto qualche possibilità di finire nella discarica esterna, prima che al campo si accorgessero della sua assenza.
Si posizionò dietro la porta della baracca, in attesa che l’occhio luminoso terminasse di lambire il tratto di terra davanti a lei, pronta a strisciare fuori nel buio. Era giunto il momento, pochi attimi ancora, quando all’improvviso avvertì un brivido lungo la schiena: qualcuno la stava osservando. Istintivamente si voltò verso il dormitorio e, quando la luce attraversò le finestre rivolte a sud, nella distesa indistinta di corpi avvolti in sudicie coperte li vide: un paio di occhi in un volto troppo scavato per sembrare umano. Una donna la stava osservando.
Anna si paralizzò e il suo sguardo incrociò quello della prigioniera, quando questa da sotto la coperta sollevò un braccio scheletrico e le mostrò due dita della mano nel segno della vittoria, per poi lasciarlo ricadere esausta sul giaciglio.
In quell’istante il fascio di luce illuminò i tre scalini davanti alla baracca, passando oltre. Anna si lanciò oltre la porta e, senza voltarsi indietro, si tuffò nel buio della notte.
Staffetta 14 - Episodio 2
M. Mark o’Knee
Nella fredda notte viennese, l’antico palazzo sulla Schulerstraße risplendeva di luci e musica e le finestre dell’ultimo piano spandevano all’esterno bagliori di cristallo fin sulle facciate austere della Cattedrale di Santo Stefano.
Il salone delle feste, tirato a lucido per l’occasione, risuonava di voci e tintinnio di calici, in un’allegra cacofonia che sovrastava di gran lunga l’impegno e la dedizione di un affiatato quartetto d’archi intento a eseguire la composizione numero quindici di Mozart.
Fiori di ogni foggia e dimensione spandevano i loro profumi dai quattro angoli della stanza, in aperta concorrenza con gli aromi di tabacco sprigionati dalle sigarette accese.
Uomini in alta uniforme del Reich e donne elegantissime affollavano la sala, tutti raggruppati in piccoli crocchi che si formavano e disfacevano di continuo, in una sorta di balletto senza regole, in un vorticare continuo di colori da far girare la testa.
Un po’ impacciato nella sua impeccabile divisa grigia con gli inserti rossi, il berretto sistemato come da ordinanza sotto il braccio sinistro all’altezza del gomito, Mark sembrava l’unico animale solitario in quella sorta di zoo scintillante di gradi e mostrine.
Fra gli ufficiali che affollavano la stanza riconobbe alcuni compagni di Accademia: giovani tenenti con i quali aveva condiviso rancio e dura disciplina e che già sfoggiavano con disinvoltura le uniformi nere delle Squadre di Sicurezza hitleriane, nonostante ancora non ci fosse stato un riconoscimento ufficiale del corpo austriaco.
Fu proprio da uno di loro, uno di quelli che, nonostante tutto, apparivano ancora piuttosto sobri, che udì pronunciare la frase «E pensare che tutto questo ben di Dio – riferendosi evidentemente al palazzo e al salone in cui si trovavano – apparteneva a un cane ebreo!». La battuta sollevò un moto di ilarità generale al quale seguirono sguaiati brindisi a Hitler e al benedetto Anschluss.
E il suo stomaco, già piuttosto provato, si chiuse definitivamente.
Mark afferrò al volo l’ennesimo calice di champagne dal vassoio di un cameriere di passaggio e si diresse a passi lenti e tutt’altro che marziali verso una delle grandi finestre che si affacciavano sulla vicina e ormai deserta Stephanplatz. Oltre i vetri, i suoi occhi colsero la danza di un singolo, sparuto fiocco di neve, nel quale non poté non riconoscersi. Ma fu il pensiero di un attimo. Il tempo di un sorso dal calice e i fiocchi erano già centinaia, migliaia: una giostra di bianche stelle di luce riflessa pronte a imbiancare strade e palazzi col loro spesso velo.
Pronte però anche a tirare il filo di strani ricordi, a rievocare altre scene, brevi come sempre sono quelle felici; scene fatte di fiocchi cadenti ammirati da una finestra a sole poche centinaia di metri da lì, con una ragazza stretta al suo fianco, una giovane e talentuosa pianista con la quale, in una notte di neve come questa, aveva scambiato parole e gesti d’amore; una ragazza della quale ormai da mesi non aveva più notizie. E forse, pensò con una stretta al cuore, vista la razza della piccola Anna, era meglio che non ne avesse.
Pensò anche che troppo spesso, dei ricordi felici, non restano altro che sensazioni di attimi sospesi, fuori dal tempo; di momenti effimeri che, nei giochi della mente, sembrano privi di una data certa, di un’ora precisa nella quale si sono manifestati; di istanti brevissimi dei quali purtroppo ti sei scordato di prender nota sul tuo taccuino, lasciandoli liberi di volar via.
Pensieri tristi. Troppo tristi per una festa. E di questi certamente il giorno e l’ora sarebbero rimasti indelebili.
Buttò giù d’un fiato ciò che restava dello champagne e, nel vano tentativo di liberarsi una volta per tutte – o almeno per una sera – dei suoi ricordi, si diresse verso la zona del buffet dove aveva notato un invitante schieramento di bottiglie dalle etichette molto alcoliche.
Ma aveva fatto male i suoi conti.
Come se non fosse stata sufficiente la congiura architettata dalla notte, dalla finestra e dai fiocchi di neve ad attizzare certe memorie, a rivangare il pesante senso di perdita, all’improvviso calò il silenzio nella sala: qualcuno si sedette al pianoforte e dita sapienti intonarono le note dello struggente La minore di Für Elise.