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Jennifer guardava il soffitto della sua camera.
Dalla finestra, la luce fioca della luna si insinuava tra i rami mossi dal forte vento di ottobre e proiettava ombre all’interno della camera da letto. Il rumore era più forte del solito e la giovane ragazza non riusciva proprio a prendere sonno.
Neanche la tisana era servita a rilassare i suoi nervi tesi: l’esame d’ammissione al college era imminente e l’ultima cosa che lei desiderava era finire in una friggitoria a vendere patatine fritte, costretta a indossare quelle divise color senape corredate di cappellino.
Guardò per l’ennesima volta la sveglia a led sul comodino, accanto la tazza con l’infuso ormai freddo: segnava le 23:43 e tra poco più di sei ore sarebbe suonata. Si stava innervosendo, quel forte rumore non le consentiva di prendere sonno e lei sarebbe stata uno zombie per tutta la giornata, perdendo lucidità e rallentando, inevitabilmente, il suo ritmo di studio.
Si costrinse a chiudere gli occhi, infilò la testa sotto al cuscino e cercò di ignorare il vento sibilante, ovattandolo tappandosi le orecchie sotto al guanciale.
Così alla fine crollò, sfinita, tra le braccia di Morfeo.
La tisana, nella tazza, disegnava sinistri cerchi concentrici.
Ma Jennifer non se ne accorse.
Aprì gli occhi di colpo. Il letto sobbalzava, si muoveva come scosso da qualcuno che lo sollevava e lo faceva ricadere a terra. Istintivamente si aggrappò alle lenzuola che erano fradice: giaceva in un bagno di sudore. Le ombre dei rami sul tetto ora le sembravano più grandi, più vicine.
“Potrei quasi toccarle”, pensò stupita.
Ma poi realizzò che non poteva muoversi: le sue gambe erano diventate pesanti, sembravano ancorate a quel letto che non si placava. Il rumore del vento era ormai diventato insopportabile, e Jennifer era impietrita dall’angoscia dell’immobilità.
La tazza cadde dal comodino, frantumandosi in cocci sparsi per il tappeto madido di tisana.
Spalancò la bocca, provò a urlare ma non si udì nessun suono. Quello che provava era decisamente nauseabondo: un conato che non riuscì a fermare. Ruotò la testa di novanta gradi e vomitò sul cuscino. Aveva avuto l’intenzione di sporgersi dal letto, ma non riusciva a muoversi, inchiodata a quel letto, ormai galleggiando nel proprio sudore.
I capelli erano appiccicati alla fronte e il vomito che colava dalla sua guancia destra si mischiava alla lacrima calda che le rigava il viso.
Rigurgitare le aveva dato sollievo, e il letto si era improvvisamente placato. Era fradicia, le lenzuola erano letteralmente una pozzanghera che puzzava di acido. Allentò la stretta delle mani.
Il vento si era posato.
“Dev’essere stato un incubo”, pensò mentre dava un’occhiata alla sveglia sul comodino. Segnava l’1:36.
Provò ad allungare un braccio nel tentativo di raggiungere l’interruttore dell’abat-jour ma non ci riuscì: era ancora impossibilitata a muoversi, si sentiva come se qualcosa la bloccasse, anche se sapeva di essere da sola nella sua camera da letto.
Improvvisamente il vento si rialzò e il rumore divenne intenso come poco prima.
Il letto restò immobile e questo la tranquillizzò.
Guardava le ombre proiettate sul soffitto, quando sentì qualcosa di viscido muoversi sulla sua guancia destra.
Le venne naturale cercare di spostarsi, per vedere cosa fosse ciò che si arrampicava sulla sua guancia. Era caldo e grande quanto la circonferenza di un bicchiere, o così le parve.
Nuovamente provò a urlare, a chiamare i genitori che dormivano nella stanza accanto, ma il suono non usciva, e la bocca spalancata divenne il rifugio di quell’essere che le strisciava addosso.
Non riusciva a muoversi. Lo sentiva pesante e caldo sulla lingua, strisciare sui denti e sul palato. Il sapore, orrendo, era quello del suo vomito. Allora le balenò il pensiero che quella cosa fosse uscita dalla sua bocca.
Stava muovendosi sempre più giù, le sfiorava le tonsille e le provocava altri conati che non riuscivano a risalire dato che la creatura sconosciuta otturava ormai la cavità della sua bocca che non si poteva chiudere poichè diventata tana di quello che le sembrava essere un verme.
Jennifer boccheggiava, provando a respirare dal naso, ma sentiva il muco venir fuori dalle narici e anche che l’aria che passava non era sufficiente a riempirle i polmoni.
L’animale si muoveva nella sua bocca e le lenzuola erano fradice.
Le lacrime le rigavano il volto, i suoi pensieri erano fermi come il suo corpo: non riusciva a pensare a nulla, nonostante si sforzasse non era capace di riflettere e trovare una soluzione al suo problema. Poteva solo stringere i pugni nelle lenzuola ma era impossibilitata a fare altri movimenti. Tentava, invano, di sollevare le braccia, le gambe o le spalle, ma era come se qualcosa la tenesse ferma. Le ombre dei rami si dimenavano impetuosamente sul soffitto, il rumore del vento le spaccava i timpani e lei era completamente inerme.
L’animale si muoveva nella sua bocca e le lenzuola erano fradice.
Jennifer si stava rassegnando, arrendendosi al suo destino di morte. Faceva piccoli respiri con il naso, l’onda del petto era frenetica, e chiuse gli occhi, per non vedere quegli orribili rami sul soffitto.
Lasciò la presa delle mani, le forze la stavano abbandonando. Ripensò a sua madre, a suo padre, al college, e realizzò che non avrebbe mai potuto realizzare nessuno dei suoi sogni di diciannovenne. Jennifer morì quella notte, sul suo letto.
Era morta in un bagno di sudore, di muco e di vomito.
Dall’uscio, sua madre guardava compiaciuta la scena: “Il college non fa per te, figlia mia, adesso resti in casa qui con me, per sempre”, sussurrò stringendo in mano la teca che conteneva la chiocciola Achatina che avevano trovato il giorno prima in giardino.
Per terra una fiala di ketamina, precedentemente sciolta nella tisana.
L’animale si muoveva nella sua bocca e le lenzuola erano fradice.