Non è certo come nei resort di Sharm, dove ti fanno trovare l’asciugamano piegato a forma di cigno sul letto e i fiori sul comodino; al di là dell’ostentazione del lusso, questa stanza è anonima e l’aria condizionata funziona male. Non riesco a dormire, sudato come sono e inquieto, in preda all’agitazione che mi dà attenderti. Mi ci vorrebbe una doccia.
Lo so che è inutile: dopo cinque minuti, mi ritrovo appiccicaticcio come prima.
Non volevo venire in questa città, ma tu hai voluto così. Il solito telegramma che non ammette repliche: 11 luglio ad Alessandria d’Egitto stop Organizza mostra di pittura hotel Cecil stop. Come sempre, non indichi l’ora, sei imprecisa di proposito, per farti aspettare un giorno intero, minuto dopo minuto.
Che disdetta! C’è un pizzico di sadismo nella scelta della data.
L’11 luglio è domani e a Madrid c’è la finale dei mondiali di calcio. E io che già mi vedevo al Santiago Bernabéu, ad assistere alla partita Italia Germania, invece sono qui.
Tu certo lo sapevi e a bella posta hai voluto impormi questo sacrificio, una sorta di pegno da pagare in cambio della gioia di vederti.
Andarci insieme, neanche a pensarci, figuriamoci se t’importa del calcio, men che meno dei miei interessi e della mia passione sportiva. Sei sempre a tu a decidere dove, come e quando incontrarci.
Così ancora in Egitto, questa volta hai scelto Alessandria. Ma perché proprio qui? In questa città perseguitata dal suo passato come una bella donna, ormai invecchiata, rifatta dal bisturi di chirurghi famosi.
Appena arrivato, mi ha accolto il vento, l’aria salmastra che si incolla sulla pelle e i rumori. Lo sferragliare dei tram, il cigolio dei mozzi delle carrozze, il mormorio incessante della folla in piazza Mohammed Alì, che sale come l’afa in un crescendo insopportabile. Inutile chiederti perché Alessandria; la regola è non fare domande.
Domani ci sarà l’inaugurazione; le tele sono già disposte nella hall, il rinfresco previsto in giardino. Devo solo sistemare i depliant.
Venderò? Almeno per pagarmi le spese, ma m’importa poco. Non per questo sono venuto.
Fisso il soffitto e ti vedo.
È una scena che mi porto dentro. L’ho dipinta tante volte, forse perché ci sono momenti capaci di sintetizzare una storia intera, sì, insomma darle senso.
In questa scena ci sei tu sul bordo piscina che ti asciughi i capelli, tieni le braccia alzate, scuoti la testa, i capelli ondeggiano a destra, a sinistra, poi li avvolgi nell’asciugamano. Pochi passi verso la sdraio e ti stendi al sole.
Tu non ti sei accorta di me e io penso che, senza saperlo, sono venuto per incontrarti e già sento che non cercherò altri che te, dovessi campare cent’anni.
E così è stato e, lo so, continuerò a cercarti e nell’attesa non faccio che ripetermi le scene dei nostri incontri per ridare significato a quello che è stato, per scoprire qualcosa di te che mi è sfuggito; qualcosa che non mi hai detto ma hai lasciato intuire o che hai detto e non volevi dire.
Lo so che sei già qui. Ieri sera ho chiesto di te al receptionist, mi ha consigliato di lasciarti un messaggio. Ho scritto: se la vuoi rivedere, la nostra storia è nella hall. Ci sono i quadri, i tuoi ritratti. Se vuoi sorprendermi stanotte, la mia stanza è la 136.
Aspetto, ma niente. È nel tuo stile, sei maestra nel farti desiderare coi tuoi misteri e i tuoi trucchi. L’attesa gonfia il mio desiderio di sentire la tua pelle sotto le mie dita e tu non ci sei ancora ed è notte alta e sono sveglio. Tu aleggi su di me, fisso il soffitto e ti vedo. Quando smetterò, come uno squilibrato, di parlare con te che non ci sei?
Vorrei finirla con questo gioco di appuntamenti imprecisi in luoghi incongrui; mi sarebbe piaciuto incontrarci nello stesso resort dove ci siamo visti la prima volta.
Lo so, ti piace cambiare location al nostro amore. Che azzardo! Sto pensando la parola proibita. Mi hai imposto le tue regole: vietato parlare d’amore, vietato fare domande, mai chiedere più di quello che vuoi darmi. Sei più sfuggente di un’anguilla; in certi momenti mi sento così furioso che, come fossi uno chef, avrei voglia di farti a pezzi e di stare a guardarli mentre si accartocciano sulla brace. Intanto però ci sto io sui carboni ardenti.
All’inizio mi piaceva stare al gioco, ora non lo so; mi sento un burattino di cui manovri i fili. Invece vorrei essere io a manovrare te.
Ormai stanotte non vieni, è chiaro, aspetto domani, l’inaugurazione è alle diciotto. Ti vedrò arrivare nella hall o ti troverò seduta in giardino, durante il rinfresco?
I miei occhi gireranno dappertutto cercandoti. Cercherò la tua schiena nuda dentro il vestito viola che portavi a Sharm o indosserai quello nero che avevi a Il Cairo e non ti lasciava un centimetro di pelle scoperto? Sarai sola o vedrò finalmente il mio rivale e sarà il tuo modo di rispondere ai miei inespressi perché? O lo condurrai con te a vedere i miei quadri e sarà il modo di svelare a lui il tuo tradimento, con quel tuo fare ambiguo, misterioso, mai inelegante?
E io che farò? Fingerò di non conoscerti, sceglierò il tavolo vicino al tuo e lascerò che sia tu a parlare per prima. Anche tu fingerai e mi chiederai se conosco l’artista che espone e io dirò che lo conosco, che doveva venire, ma all’ultimo momento ha preferito andare a Madrid per vedere la finale del campionato di calcio.
Lo sostituisco io che conosco la storia dei suoi ritratti.
E tu chiederai se era bella, la storia, e io dirò che lo era come può esserlo un’ ossessione, un pensiero unico che oscura la realtà, per vivere dentro un sogno impossibile, bellissimo sì, ma pur sempre un’illusione. Forse non può bastare per tutta una vita.
Tacerò alcuni istanti per vederti perplessa.
Il mio amico però vuole viverla quell’illusione – continuerò a dire – assaporarla nelle attese, nella passione bruciante e insoddisfatta alla ricerca del suo oggetto d’amore, finché non la ritrova, la donna, ogni volta dove e come decide lei, a volte dopo tanti giorni dall’ultimo incontro.
E tu vorrai sapere qual è il dipinto di quell’incontro e io fingerò di consultare il depliant del catalogo e dirò che no, non c’è tra quelli esposti, ma forse immagino come potrebbe essere, perché anch’io dipingo.
Il soggetto sarebbe sempre lo stesso, la bella donna seduta a un tavolo a centellinare un aperitivo così, come noi qui, in mezzo ai colori di questo giardino. Il tavolo, il giardino, la donna sarebbero in primo piano, mentre sullo sfondo apparirebbe un uomo di spalle che si allontana.
Fingerai di meravigliarti. Ti vedo già, col sopracciglio alzato, domandarmi cosa raffiguri l’uomo ritratto lungo le vie di fuga della prospettiva e immagino di rispondere che potrebbe rappresentare quello che succede dopo.
Anzi ti dirò che succede: che i due sorseggiano l’aperitivo, parlano un po’ di quadri e di storie, assaggiano qualche oliva e qualche snack e di colpo accade che il mio amico non ha più voglia di vederla, quella donna tanto attesa, tanto cercata, tanto desiderata. Non ha più voglia di parlarle, non ha più niente da dirle. Di colpo l’ossessione è finita, finito tutto: il desiderio, l’ansia, l’attesa. Si alza e se ne va.
Sì, farò così e me ne andrò, lasciandoti stranita, inguainata nell’abito di gocce d’argento come la Justine di Durrel che vuoi interpretare, riuscendovi benissimo, anche se non mi stupisci più.
Ti lascerò, seduta al tavolo a guardare le mie spalle che si allontanano, i miei passi decisi verso l’ingresso della hall, mentre affiorerà la brezza leggera che viene dal mare. Non sarai sola in questa città antica e moderna che, come te, di autentico non ha più niente e dove tutto suona falso.
Tornerò in camera, farò una doccia e, senza più pensarti, mi metterò davanti al televisore, a godermi la partita Italia Germania.
Lo so che è inutile: dopo cinque minuti, mi ritrovo appiccicaticcio come prima.
Non volevo venire in questa città, ma tu hai voluto così. Il solito telegramma che non ammette repliche: 11 luglio ad Alessandria d’Egitto stop Organizza mostra di pittura hotel Cecil stop. Come sempre, non indichi l’ora, sei imprecisa di proposito, per farti aspettare un giorno intero, minuto dopo minuto.
Che disdetta! C’è un pizzico di sadismo nella scelta della data.
L’11 luglio è domani e a Madrid c’è la finale dei mondiali di calcio. E io che già mi vedevo al Santiago Bernabéu, ad assistere alla partita Italia Germania, invece sono qui.
Tu certo lo sapevi e a bella posta hai voluto impormi questo sacrificio, una sorta di pegno da pagare in cambio della gioia di vederti.
Andarci insieme, neanche a pensarci, figuriamoci se t’importa del calcio, men che meno dei miei interessi e della mia passione sportiva. Sei sempre a tu a decidere dove, come e quando incontrarci.
Così ancora in Egitto, questa volta hai scelto Alessandria. Ma perché proprio qui? In questa città perseguitata dal suo passato come una bella donna, ormai invecchiata, rifatta dal bisturi di chirurghi famosi.
Appena arrivato, mi ha accolto il vento, l’aria salmastra che si incolla sulla pelle e i rumori. Lo sferragliare dei tram, il cigolio dei mozzi delle carrozze, il mormorio incessante della folla in piazza Mohammed Alì, che sale come l’afa in un crescendo insopportabile. Inutile chiederti perché Alessandria; la regola è non fare domande.
Domani ci sarà l’inaugurazione; le tele sono già disposte nella hall, il rinfresco previsto in giardino. Devo solo sistemare i depliant.
Venderò? Almeno per pagarmi le spese, ma m’importa poco. Non per questo sono venuto.
Fisso il soffitto e ti vedo.
È una scena che mi porto dentro. L’ho dipinta tante volte, forse perché ci sono momenti capaci di sintetizzare una storia intera, sì, insomma darle senso.
In questa scena ci sei tu sul bordo piscina che ti asciughi i capelli, tieni le braccia alzate, scuoti la testa, i capelli ondeggiano a destra, a sinistra, poi li avvolgi nell’asciugamano. Pochi passi verso la sdraio e ti stendi al sole.
Tu non ti sei accorta di me e io penso che, senza saperlo, sono venuto per incontrarti e già sento che non cercherò altri che te, dovessi campare cent’anni.
E così è stato e, lo so, continuerò a cercarti e nell’attesa non faccio che ripetermi le scene dei nostri incontri per ridare significato a quello che è stato, per scoprire qualcosa di te che mi è sfuggito; qualcosa che non mi hai detto ma hai lasciato intuire o che hai detto e non volevi dire.
Lo so che sei già qui. Ieri sera ho chiesto di te al receptionist, mi ha consigliato di lasciarti un messaggio. Ho scritto: se la vuoi rivedere, la nostra storia è nella hall. Ci sono i quadri, i tuoi ritratti. Se vuoi sorprendermi stanotte, la mia stanza è la 136.
Aspetto, ma niente. È nel tuo stile, sei maestra nel farti desiderare coi tuoi misteri e i tuoi trucchi. L’attesa gonfia il mio desiderio di sentire la tua pelle sotto le mie dita e tu non ci sei ancora ed è notte alta e sono sveglio. Tu aleggi su di me, fisso il soffitto e ti vedo. Quando smetterò, come uno squilibrato, di parlare con te che non ci sei?
Vorrei finirla con questo gioco di appuntamenti imprecisi in luoghi incongrui; mi sarebbe piaciuto incontrarci nello stesso resort dove ci siamo visti la prima volta.
Lo so, ti piace cambiare location al nostro amore. Che azzardo! Sto pensando la parola proibita. Mi hai imposto le tue regole: vietato parlare d’amore, vietato fare domande, mai chiedere più di quello che vuoi darmi. Sei più sfuggente di un’anguilla; in certi momenti mi sento così furioso che, come fossi uno chef, avrei voglia di farti a pezzi e di stare a guardarli mentre si accartocciano sulla brace. Intanto però ci sto io sui carboni ardenti.
All’inizio mi piaceva stare al gioco, ora non lo so; mi sento un burattino di cui manovri i fili. Invece vorrei essere io a manovrare te.
Ormai stanotte non vieni, è chiaro, aspetto domani, l’inaugurazione è alle diciotto. Ti vedrò arrivare nella hall o ti troverò seduta in giardino, durante il rinfresco?
I miei occhi gireranno dappertutto cercandoti. Cercherò la tua schiena nuda dentro il vestito viola che portavi a Sharm o indosserai quello nero che avevi a Il Cairo e non ti lasciava un centimetro di pelle scoperto? Sarai sola o vedrò finalmente il mio rivale e sarà il tuo modo di rispondere ai miei inespressi perché? O lo condurrai con te a vedere i miei quadri e sarà il modo di svelare a lui il tuo tradimento, con quel tuo fare ambiguo, misterioso, mai inelegante?
E io che farò? Fingerò di non conoscerti, sceglierò il tavolo vicino al tuo e lascerò che sia tu a parlare per prima. Anche tu fingerai e mi chiederai se conosco l’artista che espone e io dirò che lo conosco, che doveva venire, ma all’ultimo momento ha preferito andare a Madrid per vedere la finale del campionato di calcio.
Lo sostituisco io che conosco la storia dei suoi ritratti.
E tu chiederai se era bella, la storia, e io dirò che lo era come può esserlo un’ ossessione, un pensiero unico che oscura la realtà, per vivere dentro un sogno impossibile, bellissimo sì, ma pur sempre un’illusione. Forse non può bastare per tutta una vita.
Tacerò alcuni istanti per vederti perplessa.
Il mio amico però vuole viverla quell’illusione – continuerò a dire – assaporarla nelle attese, nella passione bruciante e insoddisfatta alla ricerca del suo oggetto d’amore, finché non la ritrova, la donna, ogni volta dove e come decide lei, a volte dopo tanti giorni dall’ultimo incontro.
E tu vorrai sapere qual è il dipinto di quell’incontro e io fingerò di consultare il depliant del catalogo e dirò che no, non c’è tra quelli esposti, ma forse immagino come potrebbe essere, perché anch’io dipingo.
Il soggetto sarebbe sempre lo stesso, la bella donna seduta a un tavolo a centellinare un aperitivo così, come noi qui, in mezzo ai colori di questo giardino. Il tavolo, il giardino, la donna sarebbero in primo piano, mentre sullo sfondo apparirebbe un uomo di spalle che si allontana.
Fingerai di meravigliarti. Ti vedo già, col sopracciglio alzato, domandarmi cosa raffiguri l’uomo ritratto lungo le vie di fuga della prospettiva e immagino di rispondere che potrebbe rappresentare quello che succede dopo.
Anzi ti dirò che succede: che i due sorseggiano l’aperitivo, parlano un po’ di quadri e di storie, assaggiano qualche oliva e qualche snack e di colpo accade che il mio amico non ha più voglia di vederla, quella donna tanto attesa, tanto cercata, tanto desiderata. Non ha più voglia di parlarle, non ha più niente da dirle. Di colpo l’ossessione è finita, finito tutto: il desiderio, l’ansia, l’attesa. Si alza e se ne va.
Sì, farò così e me ne andrò, lasciandoti stranita, inguainata nell’abito di gocce d’argento come la Justine di Durrel che vuoi interpretare, riuscendovi benissimo, anche se non mi stupisci più.
Ti lascerò, seduta al tavolo a guardare le mie spalle che si allontanano, i miei passi decisi verso l’ingresso della hall, mentre affiorerà la brezza leggera che viene dal mare. Non sarai sola in questa città antica e moderna che, come te, di autentico non ha più niente e dove tutto suona falso.
Tornerò in camera, farò una doccia e, senza più pensarti, mi metterò davanti al televisore, a godermi la partita Italia Germania.