“Mentula, stavolta non accenna proprio a passare!
Il medico dice che ne ho per almeno un paio di settimane.
Che fare?
Restare qui adagiato o levarmi con grandi dolenze?
Dormire? Sognare?
Porrei forse fine ai dolori della carne ma quali sogni farei se non incubi atroci.
Ad Alessandria D’Egitto stavo benissimo.
Che fosse per la bella Tabassum e le sue morbide sapienti mani sul mio corpo, stanchissimo a fine giornata? Non solo le mani, anche la sua vellutata bocca e…
Sì ma, anche se tali tumultuosi ricordi m’assalgono, non è che il dolore rilasci i suoi artigli ben fondi nella mia carne.
Nemmeno l’unguento di portulaca, olio d’oliva e mesticanza varia, applicatomi dall’ausiliare, non sembra essere d’utilità alcuna.
Rientrato da poco, sono ridotto a starmene sdraiato, senza muovermi dalla camera da letto, col solo conforto di quel pezzetto di cielo azzurro, inquadrato dalla finestra che dà sul giardino interno della mia bella casa di Pompei.
L’essere il miglior scriba dei miei tempi non facilita di certo la mia condizione fisica.
Tutte le giornate piegato in due a scrivere sui papiri o sulle tavolette di cera.
Sarebbe stato meglio il non esserlo ma si è avverato un nuovo incendio alla Biblioteca di Alessandria e chi hanno chiamato? Me naturalmente: Lucio Civito Scribano.
Come sempre mi ha convocato Gaio Plinio Secondo, il Prefetto in carico della flotta misenense che, per la sua precoce calvizie e il camminare un po’ curvo della sua quasi raggiunta cinquantina, i suoi marinai l’hanno soprannominato “Il Vecchio”.
Un gran brav’uomo che è pure il mio medico ma soprattutto un prolifico scrittore.
Gli piace prendere nota di tutto e chiama sempre me per dettarmi le sue note.
Mi ha fatto lavorare come un matto per la sua “Naturalis Historia”.
Mentula! Trentasette volumi con dentro di tutto: botanica, antropologia, zoologia, geografia, storia dell’arte, mineralogia e pure medicina.
Lo scritto che più mi ha lasciato sorpreso però è stato quel suo “De iaculatione equestri”. Una menata (si fa per dire) di quasi cinquanta tavolette su come si lancia il giavellotto da cavallo.
Certo che con quel titolo lì ci si può anche sbagliare!
Meno male che la “mulièr” gliele ha fatte sparire.
“Mulièr”: un ambiguo sostantivo che vale sia per moglie che per donna.
In effetti non li ho mai visti farsi qualche effusione.
Potrebbe anche sorgere un dubbio: essendo della stessa famiglia, che sia lui come Gaio Giulio Cesare?
Non credo però importi a nessuno.
Men che meno a me.
Basta che mi sistemi la schiena.
Comunque Domitilla gli fa da mangiare, gli lava le tuniche, fa riparare i suo calzari usurati e gli tiene in ordine la casa.
Dà da pensare che la loro relazione finisca lì.
D’altronde non hanno nessun figlio.
Plinio “Il Giovane”, che passa per suo figlio, in effetti è un suo nipote, adottato quando il padre, un fratello de “Il Vecchio”, è morto.
Avrebbe potuto scegliere me come figlio ma pacis!
È pure molto ricco. Ha rifiutato ben quattrocentomila sesterzi, quattrocentomila mica quattrocento, che gli ha offerto Larcio Licinio quando la sua Enciclopedia era ancora su rotoli di appunti.
Una parte scritti anche da me, perlappunto.
Mentula! Con quel diavolo appeso alla schiena, faccio pure i giochi di parole!
Non è la prima volta che Plinio ed io andiamo insieme ad Alessandria D’Egitto.
Lui è interessato all’antichissima biblioteca. Vi passa i suoi giorni, a volte le sue notti, a leggere e studiare qualsiasi argomento lo interessi.
Soprattutto la medicina di Erasistrato di Ceo e Erofilo di Calcedone.
Mi ha fatto copiare vari volumi di questi due antichi medici e il mio talento di disegnatore è stato ancora più apprezzato con la copia delle loro macabre tavole illustrative.
C’è anche questa storia del “come disegni i geroglifici tu non lo fa nessuno!”.
Vero. Sono proprio bravo ma, un conto è se li disegnassi su un papiro e un conto è farlo su di una tavoletta in legno cosparsa di cera, dove non sono nemmeno dei disegni ma delle incisioni, nelle quali ci si deve mettere più forza.
Stavolta sono tutte tavolette che debbo ricopiare in bella cera. Erano già pronte all’esportazione ma sono andate bruciate e quindi ho dovuto ricopiarle nuovamente dalle originali.
Uno crede che sia un lavoro facile e magari nemmeno così affaticante.
Che ci provi lui a disegnare sempre uguale, curvo su di una mensola dalla mattina alla sera, un leone accucciato, sarebbe una “L”, o magari un uccello che, se ha le piume lunghe significa “A”, oppure corte e significa “U”, o con la testa girata che si pronuncia “M” e così via con tutti i glifi moderni che almeno rappresentano un alfabeto simile al nostro.
Quelli antichi, anche se ce ne sono pochi nella Biblioteca perché normalmente li applicano solo sui monumenti, debbono essere interpretati e non sono molto facili da comprendere.
Plinio ed io però non abbiamo problemi.
Conosciamo, oltre alla nostra lingua, anche l’ispanico, il gallico e il germanico.
Un residuo letterario dei suoi mandati ufficiali in quei Paesi con me al seguito.
Certo che la copiatura dei geroglifici è comunque un lavoraccio di merda.
Pagato molto bene, però.
Come tutti i lavoracci di merda, d’altronde.
Così è stato nei tempi precedenti, così sarà in quelli futuri.
Sicuro!
Il viaggio per mare fino ad Alessandria è sempre un’avventura.
Usiamo la lussuosa quadriremi di Plinio, sulla quale due capanni ben riparati dagli spruzzi delle onde, situati nell’area di poppa, sono messi a disposizione per solo noi due.
Su di un lungo palo centrale è armata una grande vela quadrata manovrata da quindici marinai mentre duecentoquaranta rematori, disposti due per remo, su due diversi ponti, spingono a forza di braccia la grande nave.
Per difenderci da eventuali attacchi nemici, oltre a centoventi militi, ci sono varie catapulte e anche parecchie balliste.
E c’è spazio per tutti.
La “Partenope” di Plinio è lunga quasi 120 cubiti e larga una ventina alla pancia.
Partiamo sempre dal porto di Miseno, nel golfo di Napoli. È quello d’attracco della flotta militare sotto il suo comando.
Se c’è bel tempo, vento favorevole e la spinta di tutti rematori, in una decina di giorni siamo attraccati nel porto di Alessandria che è sormontato da un enorme faro dedicato a Zeus, la cui cospicuità, di giorno si può notare sin da quasi quattro ore prima dell’arrivo, mentre di notte, la sua luce, da quasi otte ore.
Sarebbe meglio non far soffrire la mia mente coi ricordi dei colpi di mare e dell’oltraggioso vento.
È allora che il mal di mare m’attanaglia il ventre e fino all’arrivo non oso uscire dal mio capanno di poppa. Sdraiato sul legno del pavimento m’aggrappo a qualsiasi cosa per non rotolare in giro a ogni colpo d’onda.
Non so come facciano gli altri a star fuori e manovrare il grande timone e la vela.
Senza pensare a quei disgraziati ai remi!
È il Direttore della Biblioteca: Tiberio Claudio Balbillo, grande amico di Plinio, essendo i due appartenenti al rango equestre, una specie di Procuratori, a ospitarci ad Alessandria.
Tiberio è soprannominato “Il Saggio” a ragione della sua grande conoscenza che però non è nemmeno comparabile a quella di Plinio.
Non è certo per vendetta che lo giudico inferiore al mio amico anche se non mi piace proprio, quando, tornando Tiberio con noi a Roma con la quadriremi, io debba scendere sottocoperta a dormire nelle puzzolenti amache dei marinai?
La loro sì che è una vita di merda!
Ma più della loro lo è quella dei militi e poi giù per la scala degradante, c’è quella dei rematori che però non conta niente in quanto sono degli schiavi.
Mentula! Se uno di questi appena appena sta poco bene, è facile che lo sbattano fuori bordo ad annegare con la sua infermità. Mangiano, solo alla sera, schifose gallette ammorbidite con l’acqua salata e pesce sotto sale condito col garum, una fetida salsa d’interiora di pesce lasciata macerare per mesi. Dormono sempre legati ai propri remi. Fanno i loro bisogni corporali sul posto e la sentina viene ripulita la sera, a turno da uno di loro, con secchiate d’acqua di mare.
L’orribile effluvio comunque resta lì. Una stagnante composizione di escrementi, urina, sudore, sporcizia, vomito e pesce marcio, il cui solo pensiero mi dà il voltastomaco.
Là sotto non si respira!
Fortuna che col bel tempo si possono aprire gli osteriggi per arieggiare i due ponti di sottocoperta.
Col mare grosso… nemmeno a parlarne!
I marinai invece fanno dei turni, sia per stare in coperta a regolare la vela, sia per dormire dentro quelle amache appese al soffitto della sottocoperta. Loro mangiano lo stesso cibo degli schiavi ma solo quando possono.
I militi devono sempre stare allerta e se spunta una qualche vela all’orizzonte vengono chiamati in coperta mentre tutti quelli non necessari all’eventuale combattimento, scendono sottobordo a rifugiarsi. Al cibo comune aggiungono dei formaggi stagionati e carne secca.
Per noi c’erano anche vari alimenti conservati sott’olio, del pesce sotto sale, del prosciutto affumicato e a volte delle ostriche conservate in scatole contenenti neve pressata.
E anfore e anfore di ottimo vino.
Le battaglie in mare consistono sempre in speronamenti e in abbordaggi e si risolvono coi corpo a corpo, fino a quando uno dei due equipaggi non si impossessa della nave dell’altro.
La mia fortuna, fino a ora, mi ha evitato la cattura ma a bordo le storie circolano e sono sempre molto cruenti.
Un marinaio mi raccontò che il suo trierarca aveva catturato una triremi e, dopo averla svuotata di tutto il carico, essendo la stessa sul punto di naufragare, l’aveva abbandonata senza preoccuparsi di liberare gli schiavi di bordo che erano così annegati, legati ai propri remi.
Credere di più in un Ade benigna che in una vita sofferta in schiavitù, per marinai o militi, consapevoli di quello che potrebbe loro arrivare una volta prigionieri, fa sì che si tolgano la vita con uno stiletto che portano sempre seco.
Solo il trierarca o qualche ospite eccellente, è fatto salvo per ottenere un eventuale riscatto.
Che Plinio avrebbe pagato anche per me, se non mi avessero prima ucciso i vincitori, ne son certo.
Ma che mentula sta succedendo?
Perso nel mio silenzioso monologo, non mi sono accorto che alla finestra della mia stanza da letto, quel lembo di cielo azzurro di prima, si è trasformato in una nube grigiastra e poi ci sono quei rombi di tuono in lontananza.
Con la schiena che, a ogni mio movimento, pare ricevere delle pugnalate non ce la faccio proprio a scendere dal letto, se no sarei andato a vedere il temporale.
Mi piace l’acqua che spruzzata dalle nuvole scende in argentee gocce rinfrescanti.
Non sembra sia proprio così.
Fa molto caldo.
Quei tuoni non augurano nulla di buono.
Macchè tuoni!
Questo è il Vesuvio che lancia fortissimi boati.
La terra trema!
Mentula! Un’eruzione!
E che eruzione!
Odo gente che grida dalla paura.
Dalla paura?
Allora stanno fuggendo!
Non riesco a muovermi!
Che sta succedendo!
È calato il buio ma non è quello avviluppante della notte!
Il rumore, sembran cupi tamburi, è sempre più forte e il calore insopportabile.
Dalla finestra entra come della neve ma no!
Son fiocchi di cenere!
Pesanti, grigi, son grandi e bruciano!
Adesso mi butto giù dal letto e gli striscio sotto.
Mi tirerà fuori l’ausiliare appena torna.
Mentula! Mentula! Ment “.