1982. L’estate del Mundial di Spagna e della terza media, passata nella casa di montagna dei nonni a Clusone e rovinata da una partita di pallone con gli amici, sotto un acquazzone, che mi ha costretto a una noiosissima settimana di letto con febbre e mal di gola. Settimana spesa a osservare dalla finestra, e con molta invidia, mia sorella e le sue amiche che si divertivano a giocare con le bambole in giardino. E, per di più, con quel grosso rompiscatole baffuto del vicino di casa, infermiere, assoldato dalla nonna per rimettermi in piedi, che in realtà funge da cerbero nei confronti della mia libertà e della possibilità di vedere gli azzurri in tv.
“Mi scusi, ma non posso uscire nemmeno per vedere la partita al bar? Io mi sento bene”
“Uscire? Non scherziamo! Ragazzo, non ti sei ancora rimesso del tutto. Ancora qualche giorno e vedrai che potrai andare dove vorrai.”
“E la partita?”
“Fatti portare una radiolina. Tua nonna ne avrà sicuramente una in casa.”
“La radiolina?”
“E poi, ragazzo mio, contro il Brasile non abbiamo speranza. Siamo stati fortunati contro l’Argentina, ma questi ce ne faranno tre o quattro. Il vecchio si ostina a far giocare Rossi, ma doveva portare Pruzzo. Rossi ormai è finito.”
La casa di montagna non ha il televisore, quindi l’unica possibilità sarebbe quella di recarsi al Bar Rollo, a poche centinaia di metri di distanza, dove tutto il paese è riunito per vedere la sfida contro i brasiliani. A colori. Tutto il paese. Tranne me. Obbligato a rimanere chiuso in camera da letto in compagnia di un pigro gatto dormiente e di una vecchia radiolina gracchiante, che fatica a prendere il segnale alternando l’incontro mondiale con la recita del rosario trasmesso dalla vicina radio parrocchiale. Alle cinque del pomeriggio la mia compagna a transistor inizia a scandire i nomi dei campioni in campo. Falcao, Cerezo, Ave Maria, Junior, Socrates, Pater Noster, Zico. Questo Brasile è davvero fortissimo, anche depurato dai segni del divino fa veramente paura. Mi secca ammetterlo ma forse ha ragione il vicino infermiere. Forse questi ce ne faranno tre o quattro e ai nostri poveri azzurri non resterà che schivare i pomodori al loro mesto rientro in patria.
Sdraiato sul letto socchiudo gli occhi immaginando di essere sulle tribune dello stadio Sarrià di Barcellona a tifare per i miei idoli, mentre ascolto il commento sempre più acceso del radiocronista e le intenzioni di preghiera di don Luigi. Tutto nella stanza è immobile, compreso il gatto Fuffo, che dorme arrotolato su se stesso ai bordi del letto. Il Brasile attacca, mentre il caldo pomeridiano e gli occhi chiusi mi traghettano in uno stato di dormiveglia. In realtà più “dormi” che “veglia”, ma all’improvviso vengo svegliato dalle urla della radio. È gol, è gol! Ecco, ha segnato il Brasile. Lo sapevo. Paolo Rossi. Come Paolo Rossi? Abbiamo segnato? Ha segnato l’Italia! Stiamo vincendo e io mi sto perdendo tutto questo. Dannato malanno estivo! Dannato vicino infermiere! Devo trovare il modo di vedere la partita.
Il gatto Fuffo, disturbato dal vantaggio azzurro, mi guarda con sufficienza come se intuisse l’assurdità dei miei pensieri, poi riprende indifferente il suo placido sonno.
La casa dei nonni è al secondo piano di una piccola palazzina, la finestra della mia camera si affaccia sul giardino retrostante e sull’orto del signor Enzo. Per un attimo penso che potrei facilmente saltare giù, scavalcare la recinzione in muratura e fuggire. Poi mi rendo conto che non sono Jeeg Robot e che l’altezza è considerevole. Bisognerebbe fare una prova. Potrei provare a far cadere un giocattolo per vedere in quali condizioni si ritrova dopo l’atterraggio. Sì, ma quale giocattolo sacrificare? Goldrake? Il Big Jim che cambia la faccia? Perchè devo sacrificare un mio giocattolo? Potrei prendere una delle Barbie di mia sorella. Lei si è divertita a giocare sotto casa durante la mia malattia? Beh, mi sembra giunto il momento di una piccola ripicca. Ma non per cattiveria, no. Solo per fargliela pagare. Ne scelgo una vestita da principessa russa. Ne ha così tante. Apro la finestra. Mi sporgo e la lascio cadere. La bambolina rotea su se stessa e si divide in tre prezzi al contatto col suolo. Rimbalza finendo nella cuccia di Fulker, il pastore tedesco del signor Armando del terzo piano, che fa scempio dei poveri resti della Barbie d’oltre cortina. Rifletto perplesso sull’accaduto per qualche istante e poi, saggiamente, scarto l’ipotesi “salto dalla finestra”.
Le mie riflessioni su strategie alternative vengono disturbate da un nuovo gracchiare della radiolina. Gol del Brasile. Socrates trafigge Zoff sul sul primo palo. Va bene. Ora è finita. Posso nuovamente sdraiarmi rassegnato sul letto in ascolto assieme al gatto Fuffo. Sconsolato penso che non riusciremo mai a segnare un altro gol ai brasiliani.
La nonna mi propone una cena con prosciutto e melone “Ti farà bene un po’ di fresco per il bruciore di gola”. Le faccio un segno di assenso ma il mio pensiero è al calore del piccolo Sarrià, e ai nostri eroi alle prese con il tentativo di arginare uno strabordante Brasile, che ora cerca di ricostruire l’azione dopo aver ottenuto il pareggio. Cerezo, scambia in difesa con Junior, ma si inserisce Rossi, Rossi, Rossi! Gol! Due a uno per l’Italia! “Rossi!!! Sìììì!!!” Salto in piedi urlando a squarciagola. Il gatto Fuffo e la radiolina si ribaltano cadendo dal letto. Il gatto, spaventato, inarca la schiena, soffia e, approfittando della porta lasciata socchiusa dalla nonna, si allontana velocemente cercando una sistemazione più tranquilla. La radiolina, emessi alcuni rantoli incomprensibili, riprende per un solo istante la frequenza con don Luigi intento a benedire i fedeli per poi spegnersi del tutto, definitivamente, in un amen.
Siamo ancora in vantaggio! Con doppietta di Paolo Rossi, alla faccia di quel maledetto baffuto infermiere menagramo. Li conosco i tipi come lui. Critica, critica e adesso sarà sicuramente in prima fila davanti al televisore del bar sostenendo che lui in Paolo Rossi ha sempre creduto. Il bar! Devo assolutamente raggiungere il bar. Mi sto perdendo una partita grandiosa e ora sono pure rimasto senza radiolina.
Guardo nuovamente fuori dalla finestra. Mi sporgo un po’ di più e vedo che dal balcone sottostante parte un filo per il bucato che, attraversando tutto il cortile, raggiunge un palo proprio in prossimità del muro di cinta. Se riuscissi a calarmi dal pluviale potrei farcela a fuggire. Non sembra poi così difficile, nei cartoni animati funziona sempre. Però mi serve del tempo. Devo tenere impegnata la nonna.
“Nonna! Nonna!”
“Dimmi tesoro, hai ancora molto male?”
“No, nonna. Sto abbastanza bene. Però avrei voglia di un bel piatto di tagliatelle al ragù”
“Tagliatelle al ragù, ma non preferiresti qualcosa di più fresco per la tua gola?”
“Oh, nonna. Ho davvero tanta voglia di un bel piatto di tagliatelle come quelle che sai fare tu e che mi piacciono tanto.
“Come posso dir di no a questo visino angelico. Vado a preparare il sugo. Ci vorrà un po’ di tempo ma saranno buonissime”
“Grazie nonna. ti voglio bene”.
E la nonna è sistemata per almeno un paio d’ore. Adesso pensiamo al piano di fuga.
Apro i vetri e osservo il pluviale verde che scorre proprio accanto alla finestra. Scende diritto accanto al balcone del piano sottostante, dal quale parte il filo stendibiancheria che raggiunge un palo all’altezza del muro di cinta, appena accanto al pollaio.
“Ormai sarà finito il primo tempo, se mi sbrigo riesco a vedermi al bar tutto il secondo tempo della partita.” Con la mano riesco a toccare il tubo. È di metallo. Dovrebbe reggermi senza problemi. Mi aggrappo di slancio. Inizio a scendere piano piano. Guardo giù. Accidenti come è alto. Mi gira la testa. Dondolo. Sento girare tutto attorno a me. Le viti che reggono il pluviale al muro si staccano, il tubo si flette e vengo catapultato verso il filo per il bucato. Il braccio si incastra in un paio di mutandoni appesi ad asciugare che, come una sorta di funivia artigianale, mi traghettano a gambe in giù per tutto il giardino, mi infilo nell’orto del signor Enzo, tra le piante di pomodoro, uscendone grondante di rosso come in un film di Dario Argento e, arrivato in prossimità del palo, vengo proiettato in aria disegnando un doppio avvitamento con rotazione antioraria dritto nel pollaio. Atterro di faccia e con un paio di capriole finisco nel mangime tra uno svolazzare di piume e lo sguardo attonito di un perplesso gallo.
1982. L’estate del Mundial di Spagna e della terza media, passata nella casa di montagna dei nonni a Clusone e rovinata da un braccio rotto e due costole incrinate durante una fuga disperata attraverso un pollaio.