Nella sua camera da letto, Camillo soffriva per il caldo di quel luglio da poco cominciato. Costretto nel letto col piede ingessato, a causa di una caduta, riusciva a muoversi ben poco. Sentiva che il suo vigore di uomo giovane era ancora tutto integro, ma doveva soffocarlo e farsi servire come un bamboccio. Quella impertinente della domestica aveva messo le stampelle fuori dalla sua portata e doveva chiamarla per forza, ma quando gli avrebbero tolto il gesso l’avrebbe fatto vedere lui chi era Camillo Brogi.
Per prima cosa avrebbe licenziato quella ragazzotta di campagna che sua madre teneva in casa e che lo accudiva dal giorno dell’incidente. Quella era un impertinente nata, sua madre la lodava dicendo continuamente che era una brava ragazza, ma a lui tutto sembrava tranne che brava.
Il corpo inzuppato di sudore lo tormentava, aveva la sensazione di stare per essere lessato. La sua carceriera lo teneva chiuso come in gabbia, con quella maledetta finestra sempre chiusa.
«Itala!»
La ragazza arrivò sbuffando.
«Che ti serve, don Camillo?»
«Ti ho detto cento volte di non chiamarmi così! Apri quella maledetta finestra, che qui non si respira!» brontolò lui, rosso di rabbia.
«Il dottore ha detto che guai ai colpi d’aria, devi avere pazienza.»
«Ma sono tutto bagnato. Aiutami a cambiarmi, almeno!»
Con la faccia un poco schifata, la donna lo aiutò a sfilare la parte superiore del pigiama.
“Puzza d’ aglio fracico. Mado’, che fetore!” pensò, storcendo il naso.
Suonarono alla porta.
Itala corse ad aprire, lasciando Camillo a torso nudo.
Il dottore entrò nella stanza, annusando l’aria.
«Buongiorno, carissimo! Eh, capisco che fa caldo, ma non puoi stare certo così. E poi non si respira qua dentro.»
Camillo scosse la testa, tenendosi la fronte con una mano, mentre la domestica arrivava col pigiama pulito.
«Dotto’, visto che lo dovete visitare, mettetecelo voi il pigiama a don Camillo, che a me fa un po’ senso. Sapete, so’ signorina!»
Svelta lasciò il pigiama sul letto e si dileguò chiudendo la porta.
«Quella è signorina… ma se ha i baffi più lunghi dei miei» sbottò, stizzito, l’uomo nel letto.
Il dottore ridacchiò.
«Scusa Camillo, ma ti ha chiamato: don. Per caso hai intenzione di prendere i voti? Oppure sei diventato nobile.»
«Dottore, mi meraviglio di te. Sono anni che curi mia madre e mi conosci bene. Lo sai che non sopporto i preti. Nobile lo sono solo nell’animo e sudato nel corpo.»
Poco dopo il dottore, visitato il paziente, uscì dalla stanza. Itala sopraggiunse dalla cucina a passo svelto e lo accompagnò alla porta. Prima di andar via, il medico, le raccomandò di sistemare Camillo sulla sedia a rotelle e di portarlo fuori per far prendere aria alla camera.
Nell’orto dietro casa, Camillo ritrovò un poco di pace. Si fece portare i suoi fogli da disegno e raccomandò di essere lasciato solo.
Il suo orizzonte era l’orto con zucchine, melenzane, pomodori ed erbe aromatiche, che lui osservava interessato.
Sua madre, Adele, con passo felpato lo raggiunse. Non vista, covava con occhi il suo figliolo, disegnatore pubblicitario, che lavorava saltuariamente, ma che secondo il suo modesto parere aveva un grande talento. Si avvicinò di soppiatto e si fermò alle sue spalle.
Una melanzana, con lunghe ciglia e un bikini mozzafiato, sorrideva dal disegno.
«Bella!»
Lui, annuì sospirando.
Gerardo, l’amico di sempre, era appena entrato dal cancello aperto. Si avvicinò e gli ammollò una sonora pacca sulla spalla.
«Camillo nostro, come va?»
«Tolgo il gesso a giorni. Non vedo l’ora.»
«Bene. Oggi pomeriggio c’è la semifinale Italia-Polonia. Prepara la bandiera e metti le birre in frigo, viene pure Aldo, così guardiamo la partita tutti insieme.»
«C’è un solo problema. Da quando mi hanno ingessato la tv è nella mia camera da letto. Se per voi va bene, la partita la vedremo là.»
«Ci conosciamo da una vita. Ogni stanza diventa stadio di fronte alla squadra di Bearzot. Stavolta vinceremo! Tu che ne pensi, Camillo?»
«Preferisco non dire niente, sai per scaramanzia…»
Più in là Adele e Itala raccoglievano la cicoria.
«Secondo me, si stanno montando la testa, tutti quanti. Al mercato, all’ufficio postale, ovunque vai si parla solo dell’Italia ai mondiali. Neanche bastasse vincere una partita per dimenticare tutti i guai» brontolò Adele.
«Signo’ e che vuoi fare. Quelli i maschi sono tutti fissati per il pallone. Pure don Dino alla predica ha tifato per l’Italia.»
«Beh, se ci fa una preghiera speciale don Dino, allora vinciamo sicuro» ridacchiò la signora e rientrò in casa, lamentandosi per il solito mal di schiena.
La domestica, furtiva, si allontanò in fondo all’orto dove raccolse menta e salvia. Tirò fuori dalla tasca un piccolo sacchetto di stoffa, nel quale infilò le erbe, e nascose l’oggetto nel reggiseno capiente, facendo attenzione a non essere vista.
Don Camillo le aveva fatto perdere il sonno. Sì, era vero, aveva quel sudore asprigno che la disturbava, ma quello era l’odore del maschio, quello naturale… e doveva abituarcisi. Il fatto di essere ignorata da quello, però, la faceva imbestialire e quando una sua amica le aveva parlato di una maga che preparava filtri d’amore, si era decisa ad agire. Voleva vendicarsi di quel borioso, non è che credeva a queste cose, ma, tanto per divertirsi alle sue spalle, aveva deciso di provarci.
La fattucchiera, dalla quale era passata il giorno prima, le aveva detto che per preparare il filtro d’amore, e far innamorare un uomo, bastava mettere nel sacchetto, che le aveva dato: due foglie di menta, tre di salvia e aggiungere un ciuffo di peli intimi prelevati dopo una giornata di sudore. L’ uomo ignaro doveva inebriarsi di quell’ odore come fosse una cosa naturale. Occorrevano però alcuni giorni di recitazione di una formula, prima di mettere in atto il progetto.
Il sacchetto doveva stare a contatto col seno, dodici ore a destra e dodici a sinistra, e quando si cambiava lato occorrere recitare.
Menta e salvia, erbe care
fatelo innamorare.
Parti della mia natura
agite con cura.
Alle cinque i tre amici erano pronti per la partita, ma Itala non compariva a portare le birre e le patatine.
La ragazza stufa di sentirsi dire, da don Camillo, che sembrava un porcospino, con quei peli sopra le labbra, stava trafficando in bagno, con il rasoio del giovane, e per la fretta e l’emozione si era fatta qualche taglietto che stava cercando di tamponare. Nel cambiare lato al sacchetto aveva poi recitato sei volte la formula magica.
All’ennesima chiamata, comparve con un vassoio colmo, a testa bassa e un cerotto sul labbro superiore.
«Itala, che ti è successo?» disse Camillo vedendola.
«Nulla, Stavo assaggiando il soffritto e mi sono scottata.»
«Ah, ferita in battaglia, allora…» intervenne Gerardo ridendo.
Raggiunta la signora Adele, la ragazza le sedette accanto. Dalle finestre aperte giungeva la voce del telecronista che commentava la partita. In ogni casa si fremeva, s’intonavano cori. Dalla loro finestra giungevano le grida voci gioiose dei tre amici.
«Hai visto! Anche se siamo qui, la partita la sentiamo anche noi.»
Erano passati una ventina di minuti circa, quando un grido, che pareva un boato, arrivò alle due donne, che si guardarono costernate.
«Corri Itala, che quello a furia di agitarsi sicuramente è caduto...»
La domestica, svelta, si diresse verso casa, seguita dal lamento di Adele che ripeteva: «Figlio, figlio mio…»
Entrò nella stanza, ma nessuno se ne accorse. Osservò sullo schermo la replica del gol, che Paolo Rossi aveva segnato al ventiduesimo, e rimase ferma con le braccia incrociate.
“E ti pareva, solo un goal! Loro e il pallone, per poco non facevano venire un coccolone alla povera signora”
Camillo si voltò e, vedendola, la guardò con aria interrogativa.
«Che stai a fare lì, il palo della luce? Muoviti vai a prendere altre birre. Ce n’è un frigo pieno.»
«Subito, don Camillo» disse lei, scandendo bene il don, poi s’ affrettò in cucina, mentre il giovane borbottava infastidito.
Quando tornò da Adele era visibilmente contrariata.
«Signora mia, questi sfegatati, fanno così quando si fa goal. Perciò non ti preoccupare, se sentiremo gridare di nuovo, si tratta solo del pallone che entra nella rete.»
Mentre le donne stavano nell’orto, davanti alla tv le birre scorrevano giù per gola dei giovanotti, che scalmanati facevano il tifo.
Al secondo goal dell’Italia esplose un boato.
Poco dopo i due amici chiesero a Camillo: «Noi andiamo a fare la sfilata, te la senti di venire con noi?»
«Certo!»
«E come farai col gesso?»
«Mi metto sul sedile posteriore con la gamba distesa, non mi perderei la sfilata per niente al mondo.»
Partirono strombazzando.
«Quanta confusione» commentò la signora Adele.
«Ma l’Italia è l’Italia. Hai visto signo’? Anche le donne sono tutte in festa, sui balconi. Abbiamo vinto tutti!» considerò la ragazza.
Mentre erano ancora nell’orto, all’ombra del pero, arrivarono un gruppo di vicine.
«E voi ve ne state qui, come se non fosse successo niente? Signore mie, ci dobbiamo organizzare per la finale dell’undici luglio!»
E spiegarono per filo e per segno, all’attenta Italia e alla stralunata Adele, il loro programma.
Bisognava cucire una bandiera, ma non una qualunque, doveva essere almeno dieci, dodici metri e tutte dovevano collaborare. Occorreva reperire biancheria di grosse dimensioni di colore bianco, rosso e verde da unire in un unico capo.
Considerando che l’orto di casa Brogi era, a loro dire, il più grande di tutto il circondario, nei vialetti si potevano sistemare sedie in sequenza, di modo che ognuna di loro potesse cucire l’orlo, una volta fissati tra loro gli elementi base, della bandiera.
Quella notte Camillo eccitato per la vittoria coniò il titolo per il disegno che stava realizzando: “L’Italia che vince”. Mai titolo gli sembrò così appropriato.
Il mattino seguente raggiunse l’orto con le stampelle che bonariamente la domestica gli aveva lasciato accanto al letto e si mise a disegnare.
Itala stava andando a innaffiare le piante e gli passò accanto senza fermarsi.
«Aspetta un momento!» disse lui.
Le mostrò il bozzetto che aveva realizzato: la sagoma di donna con un cesto infilato in un braccio.
«Ti piace?»
«Bello! Che rappresenta?
«Non si vede? L’Italia…»
«Don Cami’, lavoraci un altro poco. Torno dopo, ora vado a innaffiare le piante, che hanno sete.»
L’uomo riprese il suo disegno, quando pensò che fosse finito richiamò Itala.
«Cosa mi dici, adesso?»
«Bello, è bello, però…»
«Però, cosa? Parla, dannazione!»
«Ma non lo vedi? Gli hai fatto un vestito che sembra il ritratto di tua nonna che sta nel salone. Povera Italia! Perché non gli fai un vestito più moderno?»
Camillo rimase pensieroso, poi aggiunse: «E per il resto?»
«Il cesto non è un gran che! Le zucchine possono pure andare, ma i pomodori devono essere più rossi, sennò vuol dire che l’Italia ha i pomodori acerbi. E poi l’uva… l’uva deve essere bianca. »
«Perché bianca?»
«Perché a me piace così!» rispose vaga, non poteva certo dire, a quel presuntuoso, che nel cesto dell’Italia ci volevano i colori della bandiera…
Il pomeriggio le donne si disposero, con le sedie, nell’orto per cucire l’orlo della mega bandiera. Adele aveva chiesto a suo figlio di disegnare in casa, perché l’orto serviva a loro, volevano dare testimonianza del loro contributo allo spirito calcistico della nazione.
Camillo guardava dalla finestra quel serpentone di stoffa tricolore che si allungava nel suo orto, sospeso da terra dalle donne intente a cucire l’orlo. Intanto cercava di completare il disegno che gli era stato richiesto da una ditta di prodotti locali da esportare all’estero.
Itala col caldo aveva messo una veste scollata ed era tutta raggiante; ogni tanto non vista infilava la mano nel reggiseno per sistemare qualcosa. Quel sacchetto di stoffa col filtro d’amore, impregnato del suo sudore, le stava cominciando a pizzicare. Meno male che la sera stessa avrebbe messo in atto il suo piano.
Camillo osservava le donne cucire e lo colpì, in particolare, il volto della sua giovane domestica, colorito dal sole con i capelli che s’arricciavano sulle guance; era un’immagine naturale, genuina. Ebbe come un lampo e in poco tempo terminò il suo lavoro.
Intanto la bandiera gigante era finita. Le donne, in tutte le case, parevano uccelli che si agitavano. La loro missione era compiuta, ma volevano assistere alla partita insieme ai loro uomini; in ogni cucina preparavano ogni ben di dio, per essere poi libere, quella sera, di assistere al grande evento.
Camillo aveva accettato a malincuore la presenza di sua madre e Itala. Non poteva lanciarsi, insieme ai suoi amici, in commenti arditi e parolacce, come era loro abitudine. I giovanotti si sistemarono seduti sul suo letto, lui preferì la sedia a rotelle, per sentirsi più sicuro. Le donne avevano aggiunto due sedie accanto al comò e apparecchiato un tavolino con le vivande e le bibite.
Finalmente dallo stadio, Santiago Bernabeu, cominciò la partita Italia- Germania ovest.
Commossa Adele disse: «Vedi, Itala, c’è anche il presidente Pertini!»
«E anche il principe Giancarlos» disse seria la ragazza.
«Si chiama Juan Carlos» puntualizzò Aldo, facendole tacere entrambe.
Tutti rimasero con gli occhi fissi allo schermo. Quando Cabrini sbagliò il rigore a Gerardo stava scappando un: «Porca p…» ma, una gomitata Camillo, lo fermò.
«Porca palla…» aggiunse in fretta.
La tensione era alle stelle, tutto poteva accadere. Alla fine del primo tempo fecero uno spuntino. Poi tutti zitti col cuore in gola e le birre che andavano e venivano. Finite quelle sul tavolo, Gerardo andò a fare di nuovo rifornimento; era alla sua quarta bottiglia, forse anche quinta. Al gol di Tardelli gridò così forte che la testa parve esplodergli. Un dolore lancinante alle tempie lo fece accasciare sul letto.
«Che hai, Gerardo?» gli chiese Aldo.
«Mal di testa» disse con un filo di voce e si accasciò nuovamente.
«Forse, è meglio se resti disteso con gli occhi chiusi.»
«No, voglio vedere la partita.»
Nonostante cercasse di resistere, Gerardo vinto dalle fitte alla testa si distese sul lenzuolo fresco di bucato. Itala lo aveva cambiato proprio quel pomeriggio. Quando vide il giovane che sprofondava nel cuscino di Camillo, sotto il quale lei aveva nascosto il misterioso sacchetto, la ragazza impallidì e tracannò anche lei una birra per dimenticare.
“Sciò, sciò! Leva quella capoccia zozza dar cuscino” pensava, lanciando occhiate furibonde al poveraccio, che disteso non poteva accorgersene.
Anzi Gerardo considerando che con gli occhi chiusi il dolore era più sopportabile, si rilassò. Gli sembrava di stare in una foresta. Sentiva uno strano profumo di erbe, ma più forte gli arrivava un odore umano, selvaggio, come di una specie conosciuta, che ricordava poco. Ma sì! Era odore di donna, conturbante, genuino, che lo avvinse in una semi veglia, fino a quando l’urlo finale che sanciva la vittoria dell’Italia sulla Germania lo destò.
«Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!»
Gerardo parve destarsi completamente e si sollevò dal letto per festeggiare con gli amici. Prima di uscire di casa risentì quell’odore, che lo aveva turbato poco prima; a due passi da lui c’era Itala che sparecchiava il tavolo.
I tre amici partirono per la sfilata, il sogno si era avverato. L’euforia della vittoria li gasava e frecciarono per le strade festanti. Gerardo pareva rinato. Era un emozione troppo forte che lo allontanò da quello strano fascino femminile che l’aveva rapito poco prima.
Le donne, accodandosi alla folla che accorreva da ogni parte, avanzarono per il viale principale del paese, a passo di danza, con la bandiera, immensa, che aveva unito tutti i cuori italiani.
A mezzanotte i fuochi d’artificio illuminarono il cielo.
“Allora i sogni esistono” pensava Camillo, ebbro di birra e di felicità.
Quando posò la testa sul cuscino sentì anche lui uno strano odore, oltre a quello di Gerardo c’erano degli effluvi che lo confondevano, ma che gli aprivano la strada della mente verso una miriade di progetti per il suo lavoro.
Quando al mattino, sul tardi, Itala lo accompagnò sull’orto, gli parve che il sogno che stava facendo continuasse e sentiva ancora attorno a sé quell’odore sconosciuto.
La ragazza gli era vicina.
«Visto che ieri notte c’è stata baldoria, potevi rimanere ancora un poco a letto, don Camillo.»
Questa volta non lo urtò essere chiamato “don”, anzi lo fece sentire quasi importante. Solo quando Itala si allontanò, sentì che gli mancava qualcosa: era l’odore, quell’odore strano e selvatico che pareva emanare quella figura femminile che, pur non essendo bella, aveva comunque un certo fascino.
“Ma che diavolo sto pensando?” si chiese e intanto la chiamò.
«Vieni qui, ho bisogno di te» le disse con una strana dolcezza.
Itala strabuzzò gli occhi e si sentì sciogliere tutta. Slegò i capelli che si era annodati per il caldo e si avvicinò.
“Vuoi vedere che, niente, niente, quello stupido filtro funziona?” pensò.
Lui prese la cartellina e tirò fuori il disegno “L’Italia che vince”.
«Dimmi cosa ne pensi, ora?»
Itala incantata osservò l’immagine di una donna vestita con camicia bianca, gonna verde e una rosa rossa tra i capelli. Al braccio un cestino colmo di zucchine, pomodori e uva bianca. Quella donna aveva il suo volto.
«Ma sono io.» balbettò impacciata.
Vedendo lo strano sorrisetto sul viso della ragazza, lui aggiunse: «Non farti illusioni, non mi piaci tu, ma quello che riesci a vedere nelle cose.»
«Va bene. Agli ordini, don Camillo!» concluse lei, mettendosi sull’attenti.
Il giorno stesso la domestica fu mandata all’ufficio postale, con un grosso plico, per spedire una raccomandata.
Qualche tempo dopo tutti i muri erano tappezzati da un manifesto pubblicitario col volto di Itala.
Camillo, al lavoro nell’orto, la chiamò.
«Avrei bisogno di un tuo parere su questo disegno.»
Lei sorrise contenta.
«Non montarti la testa però, anche se la tua faccia è in bella mostra sui tutti i muri, tu resti sempre tu» disse Camillo, che non voleva darle soddisfazione.
«E chi se la monta, mi sono persino stirata i ricci…don Camillo» rispose lei, scandendo il don, come sempre.