Disegno.
Disegno, sulla parete della stanza, una miniatura per ogni giorno trascorso dalla tua partenza: mia madre dice che non dovrei farlo. Che sono toccata.
M’arrabbio e protesto e discuto. E non t’infuriare, mi dice laconica, che vai a fuoco come la fucina di Vulcano.
Il fuoco.
Le fiamme.
Allora cerco rifugio in camera, torno a disegnare.
Traccio un segno orizzontale poi uno verticale, che diventano pian piano una lorica, quindi un elmo, infine una spada.
Diventano te.
Non c’è nulla delle cose che faccio e rifaccio sempre eguali capace di togliermi, se non per breve, il pensiero.
Vago per casa, siedo, mi rialzo, risiedo ancora, cambiando di stanza come si cambiano i fermagli tra i capelli.
Poi esco, in quella parte di giardino, sul retro, dove nessuno guarda e il muro di cinta lascia fuori la campagna. Fa caldo anche all’ombra del fico.
Vago lì, come tra stanze immaginarie, nel verde dei cespugli sfioriti e in quel poco di brezza che arriva dal mare.
E parlo.
Parlo da sola, discorro, m’arroto la lingua e poi rido d’una tua battuta, sul modo bizzarro che ho d’esprimere i concetti. Rido del mio riso sguaiato di cui ti fai beffe ogni volta.
Mi sposto e acquatto, giocando, mi nascondo: io cerva, tu cacciatore.
M’aggrappo al fico e poi al pino, e qui giri intorno per prendermi, t’appoggi, protendi e mi chiami.
Carezzo la corteccia perché ancora ci vedo le orme delle tue mani.
E allora piango, con le dita tra i capelli e poi al viso; piango e singhiozzo in silenzio anche se vorrei mi sentissero fino a Capua.
C’è quel fiore sbilenco che hai fatto col pugnale sul fusto del fico.
C’è il mio dirti che non sai disegnare.
Che più d’un fiore sembra un uovo schiantato a terra.
C’è che mi prendi bonario e sollevi su una spalla.
C’è che amo quel fiore, o uovo schiantato, come si amano i pegni d’amore.
Cammino e vago fin sotto l’ala della villa, quella che dà sul giardino di dietro, fino alla finestra della camera che fu di mia sorella e ora è mia.
Siedo e mi rialzo, siedo ancora, sulla cassa di legno che usavi per salire, la notte, passando da oltre il muro dell’orto.
Se stringo gli occhi posso vederti, e così il buio, la notte, i fuochi perimetrali.
Se li chiudo sono a quella finestra e tu qui sotto.
Se li apro siamo insieme con la febbre furibonda, la furia, la fame, la rabbia.
È la battaglia delle mani sulla pelle, delle labbra, la saliva, i morsi; è uno scontro selvatico: noi gli eroi, le vesti i caduti.
Siamo Venere e Marte.
Una pugna, una guerra, avvinghiati a duello, rossi in volto su bianche lenzuola.
Le tue spalle sono terrapieni d’una fortezza, il petto la piana davanti ai cancelli. E allora disegno, con foga, disegno con le unghie, traccio le catapulte, le baliste e gli onagri. Dardi infuocati, sagitte e proietti avvampano il mio e il tuo fiato, respiro d’incendio su mura che cadono un bastione alla volta.
Crollano senza suono alcuno le difese del pudore.
Respiro a piena forza.
S’alza e s’abbassa la linea alba, la distesa del ventre.
Disegno per te i quadrati delle legioni che muoverai seguendo il tuo gusto, occupando la brughiera prima e le colline dei seni poi: vantaggio tattico acquisito, supremazia territoriale.
Le formazioni s’infrangono e scontrano col boato del tuono e i gemiti, gli aneliti, le urla stridule si mischiano e intersecano.
Una cacofonia memorabile.
Mi volto e la mia schiena è pendio, declivio, è la distesa sulla quale scagliare un grande assalto: manovra d’aggiramento, ali di cavalleria lanciate alla carica sul candido pianoro.
Una cavalcata rabbiosa che disegno brancicando le lenzuola.
Affondo dopo affondo di spada scompaiono i vessilli, i cimieri, cadono gli scudi.
Il nemico è in rotta, Roma vittoriosa.
Un verso corale.
L’estasi del trionfo.
Siedo nella camera da letto che fu di mia sorella e che ora m’appartiene. Pudica, modesta, avvampava d’imbarazzo alle cose mie, di Venere e Marte, le guerre e le fortezze, le cavalcate selvagge.
Non le ho mai mostrato quei disegni su vecchie assi che tengo nascoste in una nicchia sotto al letto. Non li mostrerò ad alcuno.
L’hanno data in sposa, mia sorella, molti mesi fa. Levina Maior è andata, dice mio padre, adesso Levina Minor. Chi se la prende, squilibrata com’è? Pure c’è quel decadarco a ronzarle vicino già da un po’.
E quando ricapita?
Se tu sapessi, padre, quanto vicini siamo stati prima che partisse.
E ora è andato, chiamato con l’esercito verso quella terra infame che è la Britannia.
Disegno una miniatura per ogni giorno trascorso, sempre nello stesso modo: la lorica, l’elmo, la spada. Pensavo che avrei avuto un bel manipolo al tuo ritorno, ma ormai esse sono armate intere e la parete non basta più. Le cerchio e le inquadro in bande e coorti senza che questo faccia andare il tempo più forte.
Chiedo alle serve di ritorno dal mercato se ci sono nuove sui rientri di truppe, fermo le ronde di soldati quando passano sulla strada polverosa davanti alla villa: nessuno sa, ha notizie, nessuno.
Il tempo passa, d’estate, al caldo, in giardino, le ore.
Passa.
Mi sfiora e accarezza il pensiero che tu possa non tornare più.
È un tocco di gelide dita che si fa graffio, poi percossa, infine lama di rasoio.
Il cuore sbatte più forte sullo sterno.
Vitrei sono gli occhi sul nulla.
Preghiere abissali suonano e risuonano nelle orecchie: in battaglia si cade, si cade e cade ancora.
Quello è il momento in cui il dolore , l’angoscia, la paura, si fermano tutte sullo stesso identico punto dell’orizzonte.
E allora mi alzo, nel verde del giardino, mi alzo con uno strascico di lacrime tra le ciglia e il labbro che trema incontrollato, presa da quell’impulso che ho, quella forza che lacera, la rabbia che m’afferra e divora.
Un bacile calcato sulla chioma è il mio elmo, un ramo caduto il pilum, un vecchio coperchio lo scudo. Il coltellaccio lasciato dal giardiniere la mia daga.
Marcio incontro a nemici che ho disegnato io stessa, mostruosi nei tratti, moltitudine nel numero.
Marcio poi carico, e il mio ramo è il pilum che impala il Celta, il mio scudo la barriera che travolge il Germano, il coltellaccio la daga che squarcia il Britanno.
Ancora e ancora, senza sosta, scalza ed eretta sopra i mucchi di corpi: li disegno con la mano che trema in soli rabbiosi passaggi di rosso.
Rosso è il caos nella testa, la collera cieca che mi toglie il respiro.
E non t’infuriare, dice mia madre laconica, che vai a fuoco come la fucina di Vulcano.
A fuoco io metterò la Britannia intera, o qualsiasi terra lontana dovesse mai prenderti, Barrio.
Lo giuro su Marte e Afrodite.
La Britannia intera o tutto il mondo, e Roma vittoriosa, questo stesso giardino.
La camera da letto che fu di mia sorella e che ora m’appartiene: c’è una legione in armi disegnata su ogni muro e in ciascuna alcova.
A terra, con le ginocchia ferite e i capelli scompigliati, con l’elmo caduto, la veste stracciata.
Coi seni nudi che ansimano selvaggi.
Io lo giuro, Barrio, su quanto c’è di sacro in vita: se non tornerai, darò a Plutone un’ecatombe perché mondi questa terra, tutte le terre, col fuoco.
È il mio ultimo disegno, ce l’ho ancora dentro l’anima.
È sceso un silenzio innaturale.
La lama del coltellaccio sta poggiata sul mio petto.
Fisso a occhi allucinati il vuoto del giardino, col fico e i cespugli sfioriti.
La terra ha tremato, per un attimo, e ora trema di nuovo. Sempre più forte.
La legione marcia e s’allarga fuori dalla stanza da letto che fu di mia sorella e che ora m’appartiene: sembrano tante, infinite crepe sull’intonaco.
C’è fumo nero sulla cima della montagna.
Il fuoco.
Sulle terre.
Il fuoco.
Sorrido.
Disegno, sulla parete della stanza, una miniatura per ogni giorno trascorso dalla tua partenza: mia madre dice che non dovrei farlo. Che sono toccata.
M’arrabbio e protesto e discuto. E non t’infuriare, mi dice laconica, che vai a fuoco come la fucina di Vulcano.
Il fuoco.
Le fiamme.
Allora cerco rifugio in camera, torno a disegnare.
Traccio un segno orizzontale poi uno verticale, che diventano pian piano una lorica, quindi un elmo, infine una spada.
Diventano te.
Non c’è nulla delle cose che faccio e rifaccio sempre eguali capace di togliermi, se non per breve, il pensiero.
Vago per casa, siedo, mi rialzo, risiedo ancora, cambiando di stanza come si cambiano i fermagli tra i capelli.
Poi esco, in quella parte di giardino, sul retro, dove nessuno guarda e il muro di cinta lascia fuori la campagna. Fa caldo anche all’ombra del fico.
Vago lì, come tra stanze immaginarie, nel verde dei cespugli sfioriti e in quel poco di brezza che arriva dal mare.
E parlo.
Parlo da sola, discorro, m’arroto la lingua e poi rido d’una tua battuta, sul modo bizzarro che ho d’esprimere i concetti. Rido del mio riso sguaiato di cui ti fai beffe ogni volta.
Mi sposto e acquatto, giocando, mi nascondo: io cerva, tu cacciatore.
M’aggrappo al fico e poi al pino, e qui giri intorno per prendermi, t’appoggi, protendi e mi chiami.
Carezzo la corteccia perché ancora ci vedo le orme delle tue mani.
E allora piango, con le dita tra i capelli e poi al viso; piango e singhiozzo in silenzio anche se vorrei mi sentissero fino a Capua.
C’è quel fiore sbilenco che hai fatto col pugnale sul fusto del fico.
C’è il mio dirti che non sai disegnare.
Che più d’un fiore sembra un uovo schiantato a terra.
C’è che mi prendi bonario e sollevi su una spalla.
C’è che amo quel fiore, o uovo schiantato, come si amano i pegni d’amore.
Cammino e vago fin sotto l’ala della villa, quella che dà sul giardino di dietro, fino alla finestra della camera che fu di mia sorella e ora è mia.
Siedo e mi rialzo, siedo ancora, sulla cassa di legno che usavi per salire, la notte, passando da oltre il muro dell’orto.
Se stringo gli occhi posso vederti, e così il buio, la notte, i fuochi perimetrali.
Se li chiudo sono a quella finestra e tu qui sotto.
Se li apro siamo insieme con la febbre furibonda, la furia, la fame, la rabbia.
È la battaglia delle mani sulla pelle, delle labbra, la saliva, i morsi; è uno scontro selvatico: noi gli eroi, le vesti i caduti.
Siamo Venere e Marte.
Una pugna, una guerra, avvinghiati a duello, rossi in volto su bianche lenzuola.
Le tue spalle sono terrapieni d’una fortezza, il petto la piana davanti ai cancelli. E allora disegno, con foga, disegno con le unghie, traccio le catapulte, le baliste e gli onagri. Dardi infuocati, sagitte e proietti avvampano il mio e il tuo fiato, respiro d’incendio su mura che cadono un bastione alla volta.
Crollano senza suono alcuno le difese del pudore.
Respiro a piena forza.
S’alza e s’abbassa la linea alba, la distesa del ventre.
Disegno per te i quadrati delle legioni che muoverai seguendo il tuo gusto, occupando la brughiera prima e le colline dei seni poi: vantaggio tattico acquisito, supremazia territoriale.
Le formazioni s’infrangono e scontrano col boato del tuono e i gemiti, gli aneliti, le urla stridule si mischiano e intersecano.
Una cacofonia memorabile.
Mi volto e la mia schiena è pendio, declivio, è la distesa sulla quale scagliare un grande assalto: manovra d’aggiramento, ali di cavalleria lanciate alla carica sul candido pianoro.
Una cavalcata rabbiosa che disegno brancicando le lenzuola.
Affondo dopo affondo di spada scompaiono i vessilli, i cimieri, cadono gli scudi.
Il nemico è in rotta, Roma vittoriosa.
Un verso corale.
L’estasi del trionfo.
Siedo nella camera da letto che fu di mia sorella e che ora m’appartiene. Pudica, modesta, avvampava d’imbarazzo alle cose mie, di Venere e Marte, le guerre e le fortezze, le cavalcate selvagge.
Non le ho mai mostrato quei disegni su vecchie assi che tengo nascoste in una nicchia sotto al letto. Non li mostrerò ad alcuno.
L’hanno data in sposa, mia sorella, molti mesi fa. Levina Maior è andata, dice mio padre, adesso Levina Minor. Chi se la prende, squilibrata com’è? Pure c’è quel decadarco a ronzarle vicino già da un po’.
E quando ricapita?
Se tu sapessi, padre, quanto vicini siamo stati prima che partisse.
E ora è andato, chiamato con l’esercito verso quella terra infame che è la Britannia.
Disegno una miniatura per ogni giorno trascorso, sempre nello stesso modo: la lorica, l’elmo, la spada. Pensavo che avrei avuto un bel manipolo al tuo ritorno, ma ormai esse sono armate intere e la parete non basta più. Le cerchio e le inquadro in bande e coorti senza che questo faccia andare il tempo più forte.
Chiedo alle serve di ritorno dal mercato se ci sono nuove sui rientri di truppe, fermo le ronde di soldati quando passano sulla strada polverosa davanti alla villa: nessuno sa, ha notizie, nessuno.
Il tempo passa, d’estate, al caldo, in giardino, le ore.
Passa.
Mi sfiora e accarezza il pensiero che tu possa non tornare più.
È un tocco di gelide dita che si fa graffio, poi percossa, infine lama di rasoio.
Il cuore sbatte più forte sullo sterno.
Vitrei sono gli occhi sul nulla.
Preghiere abissali suonano e risuonano nelle orecchie: in battaglia si cade, si cade e cade ancora.
Quello è il momento in cui il dolore , l’angoscia, la paura, si fermano tutte sullo stesso identico punto dell’orizzonte.
E allora mi alzo, nel verde del giardino, mi alzo con uno strascico di lacrime tra le ciglia e il labbro che trema incontrollato, presa da quell’impulso che ho, quella forza che lacera, la rabbia che m’afferra e divora.
Un bacile calcato sulla chioma è il mio elmo, un ramo caduto il pilum, un vecchio coperchio lo scudo. Il coltellaccio lasciato dal giardiniere la mia daga.
Marcio incontro a nemici che ho disegnato io stessa, mostruosi nei tratti, moltitudine nel numero.
Marcio poi carico, e il mio ramo è il pilum che impala il Celta, il mio scudo la barriera che travolge il Germano, il coltellaccio la daga che squarcia il Britanno.
Ancora e ancora, senza sosta, scalza ed eretta sopra i mucchi di corpi: li disegno con la mano che trema in soli rabbiosi passaggi di rosso.
Rosso è il caos nella testa, la collera cieca che mi toglie il respiro.
E non t’infuriare, dice mia madre laconica, che vai a fuoco come la fucina di Vulcano.
A fuoco io metterò la Britannia intera, o qualsiasi terra lontana dovesse mai prenderti, Barrio.
Lo giuro su Marte e Afrodite.
La Britannia intera o tutto il mondo, e Roma vittoriosa, questo stesso giardino.
La camera da letto che fu di mia sorella e che ora m’appartiene: c’è una legione in armi disegnata su ogni muro e in ciascuna alcova.
A terra, con le ginocchia ferite e i capelli scompigliati, con l’elmo caduto, la veste stracciata.
Coi seni nudi che ansimano selvaggi.
Io lo giuro, Barrio, su quanto c’è di sacro in vita: se non tornerai, darò a Plutone un’ecatombe perché mondi questa terra, tutte le terre, col fuoco.
È il mio ultimo disegno, ce l’ho ancora dentro l’anima.
È sceso un silenzio innaturale.
La lama del coltellaccio sta poggiata sul mio petto.
Fisso a occhi allucinati il vuoto del giardino, col fico e i cespugli sfioriti.
La terra ha tremato, per un attimo, e ora trema di nuovo. Sempre più forte.
La legione marcia e s’allarga fuori dalla stanza da letto che fu di mia sorella e che ora m’appartiene: sembrano tante, infinite crepe sull’intonaco.
C’è fumo nero sulla cima della montagna.
Il fuoco.
Sulle terre.
Il fuoco.
Sorrido.