Frankfurt am Main
Ben Gurion RingOre 19.00 UTC
Pasqualino era immobile, davanti alla finestra della sua camera da letto.
Osservava in silenzio il grande e curato giardino condominiale, al centro dell’enorme anello di palazzi che davano il nome al quartiere in cui viveva ormai da qualche anno, da quando per lavoro si era trasferito in Germania Ovest dalla sua amata Sicilia. La temperatura era mite, quella sera di luglio, e c’era ancora molta luce. Decine di persone si stavano godendo quel raro tepore estivo, ma iniziavano piano piano a ritirarsi nelle loro case.
Nico si avvicinò. Aveva sei o sette anni al massimo e in faccia un’espressione che ricordava allo stesso tempo Arsenio Lupin e Al Capone.
- Papà, iniziamo? – disse con un ghigno.
- Non ancora, c’è troppa gente, rischiamo di essere visti – rispose lui, rimettendo a posto il ciuffo del figlio con una carezza.
- Ma la partita sta per cominciare.
- Sarà quello infatti il momento migliore per muoverci, quando tutti questi crucchi di merda saranno davanti al televisore.
Alle spalle dei due si materializzò una figura femminile, elegante e silenziosa, con un grembiule a fiori.
- Totò, smettila di insegnare parolacce a tuo figlio. – sbottò, facendo sobbalzare entrambi.
- Mia cara – sorrise il marito – dovresti smettere tu di apparire all’improvviso come la Madonna, se non vuoi che io stramazzi al suolo per lo spavento. E poi a quali parolacce ti riferisci? Non so proprio di cos…
- Credo si riferisca a ‘crucchi di merda’, papà. – intervenne il bambino, serafico.
- Ah, ecco, grazie per l’aiuto, Nico, dico davvero. – rispose l’uomo, mettendo una mano sulla spalla del figlio. – Me ne ricorderò, la prossima volta che mi chiederai di comprarti quelle schifezze di panna e cioccolato.
- Non bullizzare nostro figlio. – rise Serena, con i riccioli neri che tintinnavano attorno al viso come campanellini.
Salvatore, detto Totò o Pasqualino per gli amici, visto che era nato una domenica di Pasqua di cinquant’anni prima, alzò le mani in segno di resa.
- Va bene, vado a completare i preparativi per la nostra impresa.
- Sei sicuro di volerlo fare, uomo? Ci farai arrestare tutti. – provò a obbiettare la moglie.
- Certo che sì, è un’occasione unica e irripetibile. Se non lo facciamo passerò il resto della mia vita a rimpiangerlo.
- Addirittura… – fu il turno di Serena di alzare le mani – se ti arrestano sappi che noi ce ne torniamo in Sicilia al mare fin quando avrai scontato la tua pena.
- Niente arance in prigione?
- Al massimo dei crauti. Per posta.
- Affare fatto, ma non accadrà nulla e se l’Italia dovesse vincere, – Pasqualino indicò il letto con uno sguardo più eloquente della costituzione americana – una volta finito lo spettacolo torno dentro, ti piglio e facciamo le capriole fino all’alba, bella signora.
- Papà, vorrei ricordarti che sono presente, e non sono sordo. Sono anche minorenne. – intervenne Nicola, tappandosi le orecchie.
- Tuo figlio ha ragione, sei proprio un maiale.
L’uomo si passò la mano sulla testa pelata, diventando serio.
- Ci siamo quasi. Sei pronto, ragazzo?
- Io sono nato pronto. – rispose il bambino, rabbuiandosi pure lui in volto senza sapere perché.
- Bene, andiamo in perlustrazione.
Uscirono fuori e fecero un giro per il giardino condominiale, posto al centro esatto dell’enorme ferro di cavallo formato da dodici palazzine di dodici piani ciascuna, con quattro appartamenti per ogni piano.
- Più di mille persone, a occhio e croce. – disse l’uomo, iniziando a dirigersi dal centro del giardino verso casa, contando i passi fino ad arrivare al balcone della sua camera da letto, al piano terra rialzato della palazzina numero nove.
- Ho contato cinquanta passi. – disse il figlio.
- Esatto. Il cavo dovrebbe bastare.
- Vado a prenderlo?
- No ragazzo, andiamo a guardarci il primo tempo e vediamo come butta. Se i crucchi ci fanno fuori rischiamo di sprecare solo tempo.
- Ma papà, anche se perdiamo possiamo farlo lo stesso.
- Sì, come no. Non siamo nei quartieri italiani, Nico. Qui siamo soli contro l’intera Crucchia, se va male rischiamo una figura talmente triste che saremmo costretti a trasferirci in Antartide.
- Va bene, papà. Mi fido perché sei più grande di me.
- Ecco, grazie maestà.
Entrarono in casa proprio al fischio iniziale, mentre già all’esterno iniziavano a volare i primi scheisse, del tutto gratuiti. Avevano preparato gli arancini per quell’occasione speciale, per lenire l’ansia da finale dei mondiali attraverso l’uso coscienzioso delle mandibole.
La famiglia Zappalà, loro, eroi solitari in terra straniera durante una finale dei mondiali fra quella stessa terra straniera e la loro terra di origine. Ce n’era abbastanza da farsi torcere le budella e anche se il piccolo Nicola poteva non capire del tutto quello che stavano facendo, Pasqualino aveva tutta l’intenzione di regalargli una finale che non avrebbe mai dimenticato. E Serena osservava il marito sbraitare e agitarsi al minimo tocco di palla dei tedeschi e sorrideva e guardava quella palla rimbalzare fra i piedi dei giocatori e si chiedeva cosa mai potesse esserci di così divertente nel rincorrere un pallone per un’ora e mezza.
Attenzione, cross di Altobelli verso Conti, Conti, Briegel, va giù Conti e l’arbitro indica il dischetto. Sarà rigore!
Agli scheisse che ormai da venticinque minuti appestavano l’atmosfera si aggiunse tutta la collezione, peraltro invidiabile, di insulti e bestemmie in tedesco, in una sequenza impressionante. Centinaia di decibel di parolacce che costrinsero Serena a tappare le orecchie al figlio, mentre Totò ballava la danza del ventre sul tavolo con un arancino in testa.
Antonio Cabrini dal dischetto, Cabrini contro Schumacher, attenzione tiro ed è… fuori, fuori, fuori…
Madre e figlio si voltarono verso Pasqualino, che guardava lo schermo come ipnotizzato, l’arancino caduto sul pavimento, mentre fuori le urla di disperazione mutavano in grida gioiose con una rapidità imbarazzante.
- Ma che cazz…
- Caro contieniti, è solo una partita, non ti autorizza a dire parolacce davanti a tuo figlio.
Il marito guardò la moglie come se l’avesse beccata a letto con un amante tedesco.
- Come osi, donna? - esclamò infine, alzando le mani al cielo come per evocare un anatema – Non è solo una partita. Questa è la finale dei mondiali, è la partita, sciagurata. Mi costringi a privarti dei tuoi superpoteri, dunque.
- Senti Ciccio finiscila, e vedi di finire quello che hai iniziato. – rispose lei ridendo suo malgrado.
Il primo tempo si chiuse in parità e un silenzio surreale scese su Ben Gurion Ring. Mentre Nicola ci dava sotto con gli arancini, Serena raggiunse il marito che fumava una Marlboro nel balcone, abbracciandolo da dietro.
- Bella serata, vero? – gli disse.
- Sì, anche se sarebbe stata più bella se Cabrini avesse fatto la convergenza ai piedi, prima di entrare in campo.
- Vi siete inventati una missione, tu e tuo figlio. Lui ci tiene, non dimenticarlo.
- Seh, dopo la vittoria sul Brasile credevo davvero che avremmo vinto il mondiale, ma adesso non ne sono più sicuro.
- E se anche fosse? Se anche vincesse la Germania? Credi che a tuo figlio importi di chi vince in quella partita? A lui importa che vinca suo padre, solo contro centinaia di crucchi di merda. Sei capace di dipingere il cielo per chiunque, dipingi per tuo figlio, dunque.
Totò si voltò a guardare la moglie, quella donna capace di ricordargli ogni giorno e senza volerlo il culo che aveva avuto nell’incontrarla.
- Ragazzo, ti sei scofanato otto arancini – disse al figlio, rientrando in casa. – fai una pausa, abbiamo una missione da compiere. Il bambino saltò in braccio al padre e insieme scesero nella loro keller.
Diede al figlio una scatola di dodici impilate in un angolo.
- Porta su questa e poi vieni a prendere le altre, una alla volta così non fai sforzi eccessivi. Io penso alle cose più pesanti.
L’uomo si caricò a spalla una cassa enorme e approfittando delle bestemmie che continuavano a coprire ogni rumore raggiunse la parte più in ombra del giardino, mentre il figlio correva come un missile su e giù dalla keller.
Sistemarono le dodici scatole di cartone al centro del giardino, tre postazioni da quattro, con precisione maniacale e alla giusta distanza fra di loro, nello stesso istante in cui un picco altissimo di voci proveniente dalle case tutto intorno li fece sobbalzare. Poi il silenzio.
Guardarono verso casa e videro Serena saltellare alla porta finestra e corsero verso di lei.
…un gol di un tempismo perfetto, Paolo Rossi segna l’1-0 per l’Italia e sblocca finalmente il risultato al Bernabeu…
- Dunque, Iddio esiste! – urlò Pasqualino, iniziando un valzer con la moglie, mentre Nicolino per la felicità prendeva la rincorsa e ficcava testate alla porta.
Dopo qualche intenso minuto di gioia, i due tornarono fuori, srotolando un lungo cavo elettrico dalla presa della camera da letto fino alla gigantesca cassa nascosta vicino ai rododendri. Erano diverse prolunghe che Pasqualino aveva unito insieme proprio per quello scopo. Rientrarono per prendere le ultime cose, mentre Serena montava una grossa telecamera Blaupunkt sul treppiede posizionato nel balcone.
…Tardelli, attenzione, Tardelli, tiro ed è gol, è gol, 2-0 dell’Italia e da qui vediamo l’esultanza del nostro presidente Sandro Pertini in piedi accanto ai sovrani di Spagna…
- Nun ni pigghianu cchiù. Italia 2 Crucchia 0, chupa esto pallon. Minchia mi chiana a pressione, mi chiana. – e l’uomo stavolta continuò il valzer col figlio, che rideva come un cretino.
Mancava poco alla fine della partita ed era quasi tutto pronto, e mentre Pasqualino armeggiava con lo stereo Grundig, Nando Martellini alla telecronaca rischiava di farsi venire un infarto:
…Alessandro Altobelli, è gol. E sono tre, e sono tre, guardate l’esultanza del nostro presidente, gol bellissimo di Spillo Altobelli…
- Se non ti avessi dato retta mi sarei maledetto per il resto dei miei giorni – disse Totò, abbracciando la moglie, mentre Nicolino riprendeva a dare testate al muro.
Adesso aspettavano solo il fischio finale, tutto il mondo aspettava il fischio finale e quando la Germania accorciò le distanze quelli che si udirono intorno a loro furono comunque insulti di ogni genere.
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Kurt Muller versò il tè alla moglie proprio mentre l’arbitro brasiliano fischiava la fine del match e l’Italia diventava campione del mondo per la terza volta. Loro avevano cenato molte ore prima.
- Peccato – disse – perdere contro una squadra che a momenti manco si qualificava brucia.
- Forse, ma è solo una partita, in fondo. Gli italiani sono simpatici, dopotutto.
- Non è solo una partita, cara. La finale dei mondiali è la partit…
- Shh, la senti?
- Cosa, Greta? Sai che sono un po’ sordo.
- Musica. Da fuori.
Il vecchio Kurt aguzzò l’udito.
- Meine Gott – ribatté. Si alzò e prese per mano la moglie e uscirono sul balcone e la musica si fece improvvisamente forte.
L’inno italiano invase Ben Gurion Ring, mentre balconi e finestre si aprivano e centinaia di persone si affacciavano fuori. E nel giardino videro quella strana famiglia di italiani, che ballava ora un valzer e ora un tango al suono del loro inno nazionale. L’atmosfera era surreale, non si sentiva altro che la musica pompata fuori da una cassa a 1000 watt posizionata verso il centro dell’anello, che fungeva da amplificatore naturale.
Mentre l’ultima strofa finiva, Totò prese l’accendino e diede fuoco alla miccia che collegava le dodici postazioni. La miccia si aprì prendendo strade diverse su un percorso attentamente calcolato che finivano dentro le scatole piena di una miscela sapiente di colori e polvere pirica.
Un istante dopo, uno spettacolo pirotecnico degno del capodanno cinese illuminò i cieli sopra l’enorme giardino, mentre si alzavano proiettili creati per liberarsi a cinquanta metri di altezza.
Il verde, il bianco e il rosso dei petardi si affiancarono e una gigantesca bandiera italiana apparve sopra l’anello di Ben Gurion e fluttuava fra le stelle e fra l’eco delle bestemmie come la più bella aurora boreale che fosse mai stata disegnata in cielo.
E da quei balconi e dalle finestre e dai balconi e dalle finestre dei quartieri vicini le persone iniziarono ad applaudire quell’opera d’arte apparsa nel blu di Francoforte, mentre tre stranieri in terra straniera ballavano in mezzo all’odore della polvere da sparo e accadde che persino a Pasqualino quei crucchi non sembravano proprio così crucchi.
Poi tutto finì.
La musica.
I botti.
Gli applausi.
Ma non il sorriso di un bambino seduto sulle spalle del padre, un bambino che non avrebbe mai dimenticato quella sera dell’undici luglio 1982.