Ho scelto questo racconto perché fu quello che vinse le Olimpiadi Letterarie nel 2017, ed è anche la base di un futuro progetto.
Occhi chiusi.
Emersione graduale dall’abisso, vago senso di fastidio, poi dolore.
Bastone coltello fuoco fil di ferro.
Occhi aperti.
Occhi di donna scuri come l’ossidiana.
Silenzio.
Iridi vitree spaziarono per un momento intorno, febbrili, vagarono come animali in gabbia, poi le palpebre si socchiusero, fitta decisa al capo. Emise un verso, si contrasse, per un attimo sembrò recuperare sensibilità: percepì le lenzuola, il materasso, poi la parete.
Occhi aperti.
Visuale leggermente sfocata del soffitto grigio e marcio, un neon, nient’altro. Distesa. Impulso di moto, scosse le braccia sentendole insensibili, puntò i gomiti, tentò di alzarsi, dovette rinunciare. Prese un respiro profondo: nell’attimo di massima espansione dei polmoni uno scatto secco delle ossa la interruppe, cedere improvviso, fitta di dolore, una spada nel costato; premette la testa nel cuscino e lasciò fuggire dalle labbra un gemito lungo, feroce, gli occhi strizzati e umidi di lacrime.
Ansimò.
Mosse una mano, tastò la camicia al fianco, immerse le dita al di sotto, cercò la propria pelle: sfiorò l’inconfondibile deformazione di una o più costole rotte.
Il soffitto.
Occhi fissi in alto, al nulla, espirò, singhiozzi, strofinò una mano per levarsi le lacrime: notò una fasciatura malconcia attorno al polso, sporca di sangue secco. Lasciò ricadere il braccio con un soffio di disappunto. Alzò l’altra mano per trovare il medesimo, approssimativo bendaggio.
Dio, Dio.
Occhi chiusi.
L’alveare nella testa aumentò d’intensità e volume, urlò frasi sconnesse, sembrò prendere vita al punto da farle scoppiare il capo.
Ansimare.
C’è nessuno?
Non seppe dire se fosse riuscita a scandirlo. Umettò le labbra sentendole secche, toccò la coperta che aveva indosso, nulla più d’un vecchio lenzuolo logoro.
Le gambe.
Il pensiero la traversò come corrente, le suscitò un moto di sconforto e improvvisa paura.
Non le senti più.
Tentò di muoversi, un gemito, i polmoni contratti, con dita tremanti cercò l’orlo della coperta, le sfuggì, lo ritrovò.
Non le hai più, NON LE HAI PIÙ.
Brividi, occhi offuscati da lacrime pastose. A denti stretti ricacciò indietro un gemito di dolore e alzò il lenzuolo per guardarsi, il cuore a mille.
Ci sono ancora.
Espirare secco, il capo abbandonato sul cuscino, il dorso della mano a tergere le ciglia umide, defluire delle emozioni accumulate. Cercò di muovere i piedi, li sentì vincolati alla barra del letto con catene da stalla.
Bastone coltello fuoco fil di ferro.
Pianse. Prima un singhiozzo, poi un secondo.
Pianse.
Non un suono, solo il sussultare delle spalle e le mani premute sul volto.
Il fuoco.
Qualcosa di sé che, ne fu certa, non funzionava a dovere. Il dolore, soffuso, e il malessere di un corpo che faticava a riconoscere come suo.
Il vuoto.
Passi.
Poi silenzio.
Respiro interrotto, ripreso. Vagare d’iridi.
Bastone coltello fuoco fil di ferro PERCOSSE le mani sulla pelle RISA.
Due giri di chiave, la porta si aprì. Il cuore accelerò i battiti.
Ti prego.
Passi nella stanza. Istinto di chiudere le palpebre, fingere il sonno: non ubbidì al suo stesso organismo, gli occhi le rimasero sbarrati a fissare il soffitto.
Silenzio.
Momenti come eterni.
“Mangiare.” Un braccio le apparve nel campo visivo, depose un piatto o una ceramica sul comodino che intuì affiancato al letto. “Se vuoi.”
Rimase raggelata, bloccata, iridi vitree fisse avanti. Occorse la forza del mare per farle spostare lo sguardo, lento, sulla presenza al suo fianco.
Bastone coltello fuoco.
Un ragazzino, quindici o sedici anni, arabo, camicia e calzoni, uno shemagh al collo e una bandoliera di traverso sul petto: sembrò squadrarla per un lungo momento con espressione offuscata.
“E acqua. Se vuoi.”
Labbra secche, dolenti.
“Acqua,” la sua voce un soffio, “Acqua…”
Lui solo un cenno del capo a indicare il comodino, lo stesso sguardo penetrante, dubbioso, carico di sensazioni discordi. Continuò a fissarla nel suo sofferto mettersi su un fianco, i denti stretti a sopportare il male, allungare un braccio verso il recipiente di latta: dita tremanti chiuse per un momento sulla superficie irregolare del bicchiere, un altro sforzo per sollevarlo dal mobile e fargli iniziare un lento viaggio verso di sé.
Bastone coltello.
Fitta al tendine, dolore aghiforme lungo il braccio e le dita. Perse la presa senza neppure accorgersene, clangore sul pavimento: acqua sparsa. Rimase a fissare la propria mano bloccata a metà del gesto, tremante, le dita ora vuote. Sentì un nuovo singhiozzo nascerle dal petto, storcerle i tratti in un prolungato momento di dolore psicologico.
“Acqua…”
“Non ce n’ho altra.”
“Acqua…!” Due iridi supplichevoli, desiderio di piangere, sfogare rabbia e frustrazione.
Il ragazzo scosse il capo, immobile, la stessa ipnosi sensoriale. Rimase a fissarla mentre tornava lentamente alla posizione originaria, il volto abbandonato al soffitto, gli occhi chiusi, serrati, le mani a brancicare il lenzuolo lurido.
“Qual è il tuo nome?” Lui lo chiese d’impeto, una nota stridula nella voce.
La donna rimase per un lungo momento come assente, poi aprì lentamente le palpebre, voltò appena il capo, un’espressione di sofferenza e rabbia repressa che sembrò intonata a quel viso deturpato dai segni delle percosse: lo guardò con gli stessi occhi di una creatura del deserto, della savana. Non rispose.
“Dimmelo. Ti chiamano la Negra: ma io non ti voglio chiamare così.”
Silenzio. Occhi amari inchiodati su di sé.
“Ti porterò altra acqua se me lo dici.”
La stanza in poca luce, pareti grigie.
“Aidah.”
“Aidah.” Pausa. “Qasim. Io. Qasim.”
Iridi vitree in cui lesse il dolore dei dannati.
“Acqua…”
Annuì. “La porterò.”
Un mormorio che non intese.
Bussare violento, sobbalzò, una figura apparsa nel vano della porta, “EHI!” Muktar il Guercio gli fece un cenno rabbioso della mano. “Non ci parlare con la Negra. Non ci devi parlare.”
“È caduta l’acqua!”
“Sta senza! Vieni fuori.”
“Sì.” Qasim s’affrettò all’uscita, un’ultima occhiata alla figura emaciata di lei.
“T’ho detto di non perderci tempo, l’ho detto?!”, la finta dell’uomo di rifilargli un manrovescio, “Se ti vede una delle guardie?!”
“Era solo per l’acqua!”
Sbattere della porta, due giri di chiave.
Le voci ora ovattate ad allontanarsi nel corridoio.
Aidah rimase a fissare il nulla, nuove forme di dolore fisico a metter radici in luoghi remoti del suo corpo stremato. Occhi socchiusi, qualche lacrima tra le ciglia.
Perché non mi fai morire?
Ricordi atroci.
Perché non fai finire tutto quanto?
Il pensiero fugace d’un piccolo teatro in disuso, abbandonato al suo destino, e quello stare davanti alla platea immaginaria. Gli applausi.
Le braccia aperte.
Il sorriso dei sogni.
Gli applausi.
Porta aperta e chiusa, Aidah guarda la compagna varcare la soglia e avvicinarsi con aria complice, composta nella divisa verde camouflage, il basco rosso sul capo.
“Ti piace proprio qui, ah?,” Nabila sorride ancora, saetta lo sguardo intorno, al piccolo teatro di palazzo, del tutto abbandonato, trascurato, sporco.
Vuoto, con le poltroncine ingombre di materiale edilizio dall’ultima ristrutturazione dell’ala est, pure pregno d’un certo fascino all’occidentale, forse per le quattro colonnine che reggono le minuscole navate, forse il grande lucernario a piramide che imbianca la scena di luce naturale.
Nabila guarda Aidah intenta a sgombrare il modesto palco, trascinare giù i sacchi di calce, le sedie coperte dal cellophan. “Ce l’ho,” scandisce.
Lei si ferma, si volta: il volto le si illumina, “Veramente?”
Una mano cacciata nell’interno della divisa, l’oggetto avvolto nel panno blu: Aidah lo accoglie con mani incerte, emozionate, lo libera dall’incarto. Sorride ammirando il diadema dorato, lo solleva con gesto sacrale.
“Non vale niente,” precisa Nabila, “Non è d’oro.”
“Che importa? Lo sembra.” Aidah lo indossa sul capo, sulla fronte, sotto la grande chioma riccia e nera. Socchiude gli occhi in un’espressione ispirata. Sbottona la giacca camouflage su una canotta grigia, apre le braccia.
Un moto come di danza, scarponi anfibi sul palco impolverato.
“Un esercito di valorosi da me guidato, e la vittoria, e il plauso di Menfi tutta.”
Aidah si muove come un cigno: è una venere dalla pelle color terra, le braccia sono ali dischiuse. Nabila si siede su una delle poltroncine in prima fila.
“E a te, mia dolce Aida, tornar di allori cinto…”
Gambe flessuose in pantaloni mimetici sollevati alle ginocchia si muovono con la grazia dell’artista, della danzatrice.
“…Dirti: per te ho lottato, per te ho vinto.”
Gli occhi socchiusi sognano un palco più grande, un teatro più grande, le luci, gli ori. La platea raccolta. La musica di Verdi. Il cielo fuori dal lucernario, azzurro, imbiancato di cirri.
Un’Aida immaginata.
Un’Aida delle Nuvole.
C’è solo Nabila che applaude, divertita, che scuote il capo, “Sei così bella, tesoro. Perché non te ne vai in Occidente, in Italia, in Francia?”
Aidah sorride, un’altra sequenza di passi eleganti, artistici, di braccia aperte come a danzare.
“A far la cantante, o la ballerina. O la modella, perché no? Col corpo che ti ritrovi! Ma qui, che fai qui? Quando mai diventerai qualcuno qui?”
Alzar di spalle, lei, il bel viso stretto dalle labbra piene e gli occhi sottili. “Se Dio lo vorrà, un giorno, forse.”
Intorno il teatro abbandonato, la polvere.
Il sogno di un’altra vita.
“Un giorno.”
Girare di chiavi, la porta aperta un centimetro alla volta.
Il viso del ragazzetto si disegnò sulla soglia, due occhi acuti su tratti mediorientali: entrò e richiuse dietro di sé.
“Acqua,” sollevò la mano entro cui stringeva una mezza bottiglietta di plastica. “Te l’ho riportata.”
Guardò le iridi della donna volgersi lentamente su di sé, profonde e aliene anche dietro lo schermo del dolore, le tumefazioni, la stanchezza. Si avvicinò, raggiunse la branda su cui giaceva, immobile, poi il comodino, il piatto rimasto al suo posto. “Non hai mangiato?” Non ci fu risposta, solo quelle due gemme d’ossidiana puntate su di sé. “Io Qasim, ricordi?” Le riempì la ciotola d’acqua. “Tu… Aidah.”
Un lungo momento di nulla, poi la guardò tentare di alzarsi pietosamente, tendere il braccio verso il recipiente di latta, il polso fasciato.
“Aspetta.” Un’occhiata alla porta, poi di nuovo a lei. Raccolse la scodella e gliela offrì, gliela resse anche quando lei l’accolse tra mani tremanti; la guardò bere un sofferto sorso alla volta, rivoli d’acqua lungo il collo, gli occhi strizzati in un moto di profondo dolore e sollievo. Un colpo di tosse al termine della tirata.
“Meglio?”
Saliva tra le labbra. “Ancora…”
“Non ne ho altra.” Un’occhiata alla patacca d’orologio di plastica al polso, “Ma tra due ore ritorno.”
Lei sprofondò di nuovo il capo sul cuscino lercio, la grande chioma schiacciata o incollata al viso segnato dal dolore.
Qasim diede una rimescolata al piatto del cibo, lo coprì con un pezzo di carta. Tornò a guardare la donna distesa, abbandonata, i segni delle torture visibili sul corpo, intuibili anche dove il lenzuolo la copriva. Le labbra piene. I folti capelli ricci. Lo sguardo vitreo, pure sottilmente consapevole.
Non trovò le parole da dire: lasciò la stanza, a disagio, in qualche modo toccato dalla bellezza austera di lei anche dietro i lividi, le ferite, i segni dell’orrore attraverso il quale era suo malgrado passata.
Acceleratore premuto a fondo, piegare in curva: il fuoristrada s’imbarca sulle sospensioni, strisciate di gomma sull’asfalto, ritorna in equilibrio. Un pick-up bianco completa la stessa manovra dietro le spalle. La strada è un inferno di gente che corre, di urla, gli spari un crepitare selvaggio.
Colpi. Uno, due, proiettili contro il portellone posteriore, buchi nella carrozzeria, metallo scheggiato.
Il cuore un battito più forte.
“Corri!”
Cunetta, sobbalzo, urtare l’interno della portiera; Aidah si volta, respiri affannosi, pick-up bianco in coda, cinque dita strette sul calcio della Beretta. Le mani tremano d’adrenalina.
Corri!
Un proiettile infrange il lunotto, attraversa l’abitacolo, fora il parabrezza nel mezzo. Abbassarsi istintivo di entrambe, adrenalina. Nabila frena e sterza brusca, prende la prima a sinistra, si lancia nella stradina ingombra di detriti. Gente che corre, si scansa, si butta nei portoni aperti o dietro le auto parcheggiate. Il pick-up irrompe nella stessa via, stridere di gomme sull’asfalto, un secondo lo segue pochi metri dietro.
Un’altra sterzata, prendere a destra e buttarsi sullo slargo, la piazzetta alberata davanti all’ex hotel della stampa.
Due uomini armati alzano gli AK, urla subitanee, una raffica a coprire le voci, proiettili in volo contro cofano e parabrezza, l’orrore sui volti. “Non sterzare!” Aidah le inchioda il volante con un mano, “AMMAZZALI PER DIO, AMMAZZALI!” Chiudere gli occhi, parole a caso nella testa, accelerare a fondo: i miliziani si scansano imprecando, il sole sul mare, voltare a destra, la litoranea di nuovo aperta.
Nabila perde per un attimo il controllo, il Pajero sobbalza sulla passeggiata, sfronda i cespugli d’agave, panico tra i passanti, le urla. Urto d’una testa sulla carrozzeria, sobbalzo secco su un corpo che finisce schiacciato sotto le grandi ruote del fuoristrada: scia di pneumatico rosso sangue sul piastrellato candido.
Inseguitori a immettersi sulla medesima via in uno stridere furioso di gomme.
Aidah si volta ancora indietro, sudore sul viso, la pistola in mano, la giacca camo aperta, il riflesso del volto nello specchietto, la pelle color terra.
“Se arriviamo al porto… Se arriviamo al porto ci saranno ancora dei soldati, se…”, saliva tra le labbra, il cuore un maglio.
Schianto secco, un singolo proiettile d’alto calibro fora il portellone e il pianale, crea un vuoto d’aria che fa perdere aderenza al fuoristrada, scossone, il motore Mitsubishi alza di giri a vuoto per un attimo prima di tornare in assetto.
“MERDA!”
Aidah guarda furiosamente indietro, occhi sbarrati, l’artigliere sul vano del secondo pick-up e la sua arma pesante ora a tiro.
“Confondilo, sterza, sterza!”
Nabila piega il volante a destra, poi a sinistra, zigzaga disperata, il cuore a mille, occhi fissi in avanti e i respiri affannosi. Aidah sporge dal proprio finestrino, punta la pistola dietro di sé, apparire e sparire continuo del bersaglio, Avanti, avanti!, la paura di sbagliare, solo un paio di colpi a disposizione.
Sparo.
Un secondo proiettile pesante perfora il portellone, i sedili posteriori, il sedile guida, esplode attraverso la carne, getto di sangue sul parabrezza, s’incunea nella cassa dello sterzo, poi nel motore.
Momento di vuoto.
“Aidah…!”
Aidah rimase di nuovo sola, lo sguardo vacuo al soffitto, il dolore una consuetudine cui non si sarebbe abituata mai, anche l’avessero lasciata in quella stanza per sempre.
Nabila.
Il pensiero le si impose, un lucore torbido.
Nabila!
Si mosse, brevemente, le mani rigide come a cercare di spostare le lamiere, il parabrezza infranto, ripetere movenze che sapeva di aver già fatto, in un’altra vita.
“No, no…!”
Mormorò parole sconnesse, masticate, un filo di saliva tra le labbra. Il respiro accelerato, dolente.
Il porto è vicino, è vicino.
Brancicò le lenzuola, si contrasse. I polmoni pieni, carichi, la schiena inarcata come a sopportare un male infinito, troppo più grande di lei.
Nabila!
Pianse. Lacrime su gote nere e ferite.
Singhiozzò, in silenzio, a lungo.
“NO!” Aidah torna dentro, fissa la compagna rimasta con le mani serrate al volante e gli occhi sgranati, il buco cremisi in mezzo al ventre, i pezzi d’interiora sulle gambe.
“Aidah…” Un rigurgito di sangue la inchioda al sedile, l’oscillare furioso del capo sotto l’ordalia del dolore e del panico, shock violento.
“NO, NO!” Occhi sbarrati, l’impulso d’allungare una mano, afferrare il volante, reggerlo, tenere il fuoristrada diritto. “RESISTI, RESISTI!”
Le risponde solo il balbettare incoerente di lei, impietrita, il sangue addosso, la nuvola amaranto che ha irrorato il parabrezza.
Dio Onnipotente.
Aidah si protende, caccia un piede sui pedali, preme l’acceleratore che era stato rilasciato.
Dio, Dio, aiutaci.
Una mano per guidare, l’orrore di essere centrata dal prossimo colpo, il parabrezza umido di sangue, il rantolo di Nabila nelle orecchie.
Ti prego.
Schianto: il pick-up dietro dà gas e sperona il fuoristrada sul laterale del posteriore, attimo di confronto tra lamiere e forze.
Ti prego.
Abbrancare il volante con ambo le mani, tentare un inutile controsterzo: il Pajero si mette di traverso, urla delle gomme sull’asfalto, fumo bianco, odore feroce di bruciato.
Un attimo lungo come i secoli.
Il fuoristrada si ribalta.
Sbalzata, scagliata da forze più grandi di lei, il mondo cambia inclinazione e colore, il corpo di Nabila le finisce addosso, cristalli di vetro: il porto un ricordo rimasto sulle retine, al fondo di un respiro mai concluso.
La carcassa dell’auto si arena, entrambe giacciono, spezzate, tra le lamiere. Uno spicchio di cielo si scorge dal finestrino divelto: è azzurro e bianco di cirri.
Le braccia di Aidah sono aperte, come sul palco.
Un’Aida delle Nuvole.
“Muktar,” Qasim raggiunse a piccoli passi il vecchio sorvegliante, intento a lavarsi il volto nel lurido bagno del piano.
“Che vuoi ora?”
“Mi chiedevo,” esitò, “Ma chi è la Negra? Perché la teniamo qui, lontana dagli altri feriti?”
Muktar s’asciugò con un panno logoro, lo gettò lì accanto. “Te sei solo un ragazzino, certe cose non le sai, ed è meglio.”
“Ma io voglio sapere.”
Muktar gli strattonò la bandoliera in un gesto quasi affettuoso. “La Negra è una persona importante, una che il parlamento vuole tenersi stretta. Tutto qui. Per questo,” gesto severo del pollice contro la gola, “Nessuno la deve vedere e tu non ci devi parlare. Capito?”
“Ho capito, sì.”
Occhi chiusi.
Buio, una goccia di sangue sulla palpebra.
Respiro. Istinto primordiale, sensibilità delle dita, della mano, delle braccia.
Occhi aperti.
Boccheggiare improvviso, ritorno prepotente della ragione: letto di lamiera, lenzuola di vetri rotti, il sangue, l’olio, i pezzi dell’abitacolo.
Sussulto.
Aidah ha una contrazione, uno spasmo, scalcia per liberarsi dal sedile senza realizzare di star languendo sul tettuccio interno del Mitsubishi ribaltato: arranca sui gomiti, “Nabila…”, avverte fluido sulla tempia, una mano a tamponarsi il sangue che cola. Scorge un basco rosso abbandonato. “Nabila…” Il corpo di lei riverso, insanguinato, postura innaturale. “NABILA!” Voce che esce rotta, quasi un singhiozzo, nelle orecchie un rimbombare sordo del cuore.
Passi.
Scarponi, sandali, scarpe da ginnastica compaiono nel già ridotto campo visivo, voci echeggiate, distorte: portiere aperte o scardinate.
La pistola.
Tastare a caso intorno, tra schegge di vetro e detriti.
La pistola.
Mani.
Mani raspano sull’asfalto, afferrano, brancicano abiti e arti: vede Nabila essere presa, trascinata fuori dall’abitacolo.
LA PISTOLA.
Secondi al ritmo selvaggio del cuore.
Si sente cingere una caviglia, trascinare indietro. Altre mani le afferrano le gambe, la giacca: portata fuori di peso, sfregata sui cristalli infranti, scaraventata di schiena sulla strada, il sole negli occhi.
Dio proteggimi.
Occhi spalancati, i respiri in fiamme, sdraiata sull’asfalto caldo; intorno una marea di voci, di urla, d’insulti. La compagna portata a braccia, buttata lì accanto, qualcosa di simile a un barlume di vita negli occhi scuri sgranati, vitrei. Accorrere di una folla, una calca, uomini e donne come fantasmi urlanti.
Aidah guarda la gente raccogliere sassi e rifiuti, scagliarli loro addosso, con ingiurie e sputi. Miliziani ribelli fanno schermo, imprecano, sparano in aria.
Una cacofonia di versi e latrati.
Nabila si alza a sedere: ha il sangue che le sbrodola dalla bocca e pezzi di interiora che emergono dal basso ventre. Li guarda con quel poco di sprezzo, di sfida, che ancora le riesce di mostrare nell’abisso del dolore.
I miliziani ridono e imprecano: una tanica passa di mano, viene rovesciata addosso alla donna in sangue. Uno schioccare reiterato d’accendino e la benzina si trasforma in fiamma, così Nabila.
Brucia, nel verde della divisa, seduta, quasi senza contorcersi, in un turbine di fuoco che sfoca il profilo della folla. Cade, su un fianco, consumandosi sull’asfalto accanto alla carcassa del fuoristrada ribaltato.
Aidah non ha voce per chiamarla, per convincersi che è solo un incubo.
Un uomo appare, bandana sul capo, la sovrasta, ha in mano un martello da cantiere.
Perché non te ne vai in Occidente, in Italia, in Francia?
Colpo secco, violento, al lato sinistro del viso. L’attimo del dolore, il fischio nelle orecchie, le mani portate a coprirsi il volto.
A far la cantante, o la ballerina. O la modella, perché no? Col corpo che ti ritrovi! Ma qui, che fai qui? Quando mai diventerai qualcuno qui?
“Deve aver visto cose brutte,” Qasim un brivido, l’immagine mentale del corpo emaciato di lei, “Che ha fatto per meritarsele?”
Muktar sorride, tetro. “Cose brutte a sua volta.”
Afferrata per le braccia, trascinata sul cemento, intorno le urla, i sassi scagliati. La maglietta già lurida le si alza scoprendo il ventre. Vacillare tra coscienza e incoscienza, il capo abbandonato: sollevata in piedi, sorretta, esibita come un trofeo, mani a reggerle i folti capelli arricciati. Dolore acuto: la lama di un piccolo coltello cacciata tra le costole e subito estratta, un grido, agitarsi per un istante, invano, ripiombare nel caos primordiale dei sensi.
Cadere a terra, sull’asfalto: altre mani o le stesse la afferrano ancora per le braccia, la conducono di peso strisciando gli scarponi sul suolo, lontano dalla folla, dalle pietre, scortata da un nugolo di altri miliziani, urla confuse.
Trasportata a forza dentro una delle abitazioni a bordo strada, trascinata sul pavimento, dentro un’anticamera poi un salotto abbandonato che fu un ricovero, alzata e scaraventata su una branda lurida di urina e sangue secco: sul muro scritte inneggianti alla rivoluzione.
Mani a reggerle i polsi, legarla col fil di ferro alla struttura del letto, inutile divincolarsi, agitarsi, scalciare, le gambe allargate a forza, i piedi assicurati con corde da lavoro.
“NO!”
Mani addosso, ovunque, a strappare la giacca mimetica, lacerare la maglietta, aprire il cinturone.
“NO, NO!”
I calzoni militari calati a strattoni, pelle scura a contorcersi e fremere sul lurido della branda, il sangue. Gli slip un’ultima barriera tagliata col coltello. Altri calzoni calati, un telefono sorretto a due mani per riprendere, catturare il momento.
Gridare sommesso, poi più forte quando il primo estraneo entra dentro, mani la percuotono, poi l’odore, cruento, che le invade i polmoni. L’odore della carne umana bruciata. L’odore di Nabila rimasta sull’asfalto, in strada, consumata dal fuoco.
Se Dio lo vorrà, un giorno, forse.
Aidah ha le braccia spalancate, come sul palco d’un piccolo teatro abbandonato, mentre i polsi le si lacerano per i continui strattoni ai legami.
Le luci sono quelle del pomeriggio, e il pubblico quello delle grandi occasioni.
La camicia camouflage è aperta e i suoi occhi guardano in alto, ispirati, disperati.
In alto ad un soffitto ammuffito che con un po’ di fantasia può diventare un cielo azzurro, cosparso di bianchi cirri.
Un cielo sotto il quale mettere in scena l’opera alla quale lavora da anni, nel tempo libero.
Ha già in mente un titolo d’effetto.
Aida delle Nuvole.
Qasim guardò con diffidenza la figura dell’emissario del parlamento, un uomo giovanile, ben vestito, ma dagli occhi di ghiaccio. Poche parole con il capitano della sezione, poi una breve visita alla camera della Negra.
“La rilasceranno?” chiese a Muktar, entrambi in disparte nel corridoio col viavai di guardie e attendenti.
“Non credo proprio.”
Il politico ripassò scortato dai suoi assistenti, parole carpite dal discorso.
Ora che il rais è morto serve un altro esempio, qualcosa d’effetto, per scoraggiare i suoi ultimi seguaci.
La donna.
La Negra.
Qasim sentì un brivido percorrergli la schiena.
La impicchiamo a Tripoli la settimana prossima, con l’insediamento del governo provvisorio.
Aidah giace distesa su un vecchio letto sfatto in un stanza che odora d’urina. Il suo viso è tumefatto, il suo corpo segnato dagli orrori di due settimane in mano ai miliziani di Al-Awari, segni che la camicia logora e sporca non può coprire che in minima parte. Catene da stalla le vincolano i piedi nudi alla rete del letto.
La impiccheranno a Tripoli la settimana che viene.
Immagini dei teatri più belli d’Italia, di Francia, immagini viste sui depliant dell’Opera, continuano a scorrerle in loop sulle retine. Quella di Nabila bruciata viva sull’asfalto, al contrario, non va mai via, neppure un istante, dal fondo più oscuro dell’anima.
È stata un’Amazzone, Aidah, una delle guardie del corpo del rais, quel colonnello Gheddafi che giace morto, dicono, in una cella frigorifera. Non ha scelto quella vita, l’hanno obbligata. Anche Nabila non ha mai scelto, per quel che conta.
La Libia ha cambiato volto, adesso è democratica, e alla democrazia serve un monito per chi ancora lotta in memoria del colonnello: l’ultima Amazzone rimasta in vita, non impiccata, lapidata o bruciata viva dalle milizie ribelli.
Aidah attende il suo momento senza più desiderio cosciente.
In testa ha solo un vecchio progetto, qualcosa di teatrale, di moderno, una rivisitazione dell’opera di Verdi che aveva letto da bambina, che l’aveva affascinata: un’opera che porta il suo stesso nome.
Sopra di lei non c’è alcun cielo, ma con un po’ di fantasia il soffitto ammuffito della stanza può diventare un sogno azzurro imbiancato di cirri.
Aida delle Nuvole.
***
Aida delle Nuvole
Occhi chiusi.
Emersione graduale dall’abisso, vago senso di fastidio, poi dolore.
Bastone coltello fuoco fil di ferro.
Occhi aperti.
Occhi di donna scuri come l’ossidiana.
Silenzio.
Iridi vitree spaziarono per un momento intorno, febbrili, vagarono come animali in gabbia, poi le palpebre si socchiusero, fitta decisa al capo. Emise un verso, si contrasse, per un attimo sembrò recuperare sensibilità: percepì le lenzuola, il materasso, poi la parete.
Occhi aperti.
Visuale leggermente sfocata del soffitto grigio e marcio, un neon, nient’altro. Distesa. Impulso di moto, scosse le braccia sentendole insensibili, puntò i gomiti, tentò di alzarsi, dovette rinunciare. Prese un respiro profondo: nell’attimo di massima espansione dei polmoni uno scatto secco delle ossa la interruppe, cedere improvviso, fitta di dolore, una spada nel costato; premette la testa nel cuscino e lasciò fuggire dalle labbra un gemito lungo, feroce, gli occhi strizzati e umidi di lacrime.
Ansimò.
Mosse una mano, tastò la camicia al fianco, immerse le dita al di sotto, cercò la propria pelle: sfiorò l’inconfondibile deformazione di una o più costole rotte.
Il soffitto.
Occhi fissi in alto, al nulla, espirò, singhiozzi, strofinò una mano per levarsi le lacrime: notò una fasciatura malconcia attorno al polso, sporca di sangue secco. Lasciò ricadere il braccio con un soffio di disappunto. Alzò l’altra mano per trovare il medesimo, approssimativo bendaggio.
Dio, Dio.
Occhi chiusi.
L’alveare nella testa aumentò d’intensità e volume, urlò frasi sconnesse, sembrò prendere vita al punto da farle scoppiare il capo.
Ansimare.
C’è nessuno?
Non seppe dire se fosse riuscita a scandirlo. Umettò le labbra sentendole secche, toccò la coperta che aveva indosso, nulla più d’un vecchio lenzuolo logoro.
Le gambe.
Il pensiero la traversò come corrente, le suscitò un moto di sconforto e improvvisa paura.
Non le senti più.
Tentò di muoversi, un gemito, i polmoni contratti, con dita tremanti cercò l’orlo della coperta, le sfuggì, lo ritrovò.
Non le hai più, NON LE HAI PIÙ.
Brividi, occhi offuscati da lacrime pastose. A denti stretti ricacciò indietro un gemito di dolore e alzò il lenzuolo per guardarsi, il cuore a mille.
Ci sono ancora.
Espirare secco, il capo abbandonato sul cuscino, il dorso della mano a tergere le ciglia umide, defluire delle emozioni accumulate. Cercò di muovere i piedi, li sentì vincolati alla barra del letto con catene da stalla.
Bastone coltello fuoco fil di ferro.
Pianse. Prima un singhiozzo, poi un secondo.
Pianse.
Non un suono, solo il sussultare delle spalle e le mani premute sul volto.
Il fuoco.
Qualcosa di sé che, ne fu certa, non funzionava a dovere. Il dolore, soffuso, e il malessere di un corpo che faticava a riconoscere come suo.
Il vuoto.
Passi.
Poi silenzio.
Respiro interrotto, ripreso. Vagare d’iridi.
Bastone coltello fuoco fil di ferro PERCOSSE le mani sulla pelle RISA.
Due giri di chiave, la porta si aprì. Il cuore accelerò i battiti.
Ti prego.
Passi nella stanza. Istinto di chiudere le palpebre, fingere il sonno: non ubbidì al suo stesso organismo, gli occhi le rimasero sbarrati a fissare il soffitto.
Silenzio.
Momenti come eterni.
“Mangiare.” Un braccio le apparve nel campo visivo, depose un piatto o una ceramica sul comodino che intuì affiancato al letto. “Se vuoi.”
Rimase raggelata, bloccata, iridi vitree fisse avanti. Occorse la forza del mare per farle spostare lo sguardo, lento, sulla presenza al suo fianco.
Bastone coltello fuoco.
Un ragazzino, quindici o sedici anni, arabo, camicia e calzoni, uno shemagh al collo e una bandoliera di traverso sul petto: sembrò squadrarla per un lungo momento con espressione offuscata.
“E acqua. Se vuoi.”
Labbra secche, dolenti.
“Acqua,” la sua voce un soffio, “Acqua…”
Lui solo un cenno del capo a indicare il comodino, lo stesso sguardo penetrante, dubbioso, carico di sensazioni discordi. Continuò a fissarla nel suo sofferto mettersi su un fianco, i denti stretti a sopportare il male, allungare un braccio verso il recipiente di latta: dita tremanti chiuse per un momento sulla superficie irregolare del bicchiere, un altro sforzo per sollevarlo dal mobile e fargli iniziare un lento viaggio verso di sé.
Bastone coltello.
Fitta al tendine, dolore aghiforme lungo il braccio e le dita. Perse la presa senza neppure accorgersene, clangore sul pavimento: acqua sparsa. Rimase a fissare la propria mano bloccata a metà del gesto, tremante, le dita ora vuote. Sentì un nuovo singhiozzo nascerle dal petto, storcerle i tratti in un prolungato momento di dolore psicologico.
“Acqua…”
“Non ce n’ho altra.”
“Acqua…!” Due iridi supplichevoli, desiderio di piangere, sfogare rabbia e frustrazione.
Il ragazzo scosse il capo, immobile, la stessa ipnosi sensoriale. Rimase a fissarla mentre tornava lentamente alla posizione originaria, il volto abbandonato al soffitto, gli occhi chiusi, serrati, le mani a brancicare il lenzuolo lurido.
“Qual è il tuo nome?” Lui lo chiese d’impeto, una nota stridula nella voce.
La donna rimase per un lungo momento come assente, poi aprì lentamente le palpebre, voltò appena il capo, un’espressione di sofferenza e rabbia repressa che sembrò intonata a quel viso deturpato dai segni delle percosse: lo guardò con gli stessi occhi di una creatura del deserto, della savana. Non rispose.
“Dimmelo. Ti chiamano la Negra: ma io non ti voglio chiamare così.”
Silenzio. Occhi amari inchiodati su di sé.
“Ti porterò altra acqua se me lo dici.”
La stanza in poca luce, pareti grigie.
“Aidah.”
“Aidah.” Pausa. “Qasim. Io. Qasim.”
Iridi vitree in cui lesse il dolore dei dannati.
“Acqua…”
Annuì. “La porterò.”
Un mormorio che non intese.
Bussare violento, sobbalzò, una figura apparsa nel vano della porta, “EHI!” Muktar il Guercio gli fece un cenno rabbioso della mano. “Non ci parlare con la Negra. Non ci devi parlare.”
“È caduta l’acqua!”
“Sta senza! Vieni fuori.”
“Sì.” Qasim s’affrettò all’uscita, un’ultima occhiata alla figura emaciata di lei.
“T’ho detto di non perderci tempo, l’ho detto?!”, la finta dell’uomo di rifilargli un manrovescio, “Se ti vede una delle guardie?!”
“Era solo per l’acqua!”
Sbattere della porta, due giri di chiave.
Le voci ora ovattate ad allontanarsi nel corridoio.
Aidah rimase a fissare il nulla, nuove forme di dolore fisico a metter radici in luoghi remoti del suo corpo stremato. Occhi socchiusi, qualche lacrima tra le ciglia.
Perché non mi fai morire?
Ricordi atroci.
Perché non fai finire tutto quanto?
Il pensiero fugace d’un piccolo teatro in disuso, abbandonato al suo destino, e quello stare davanti alla platea immaginaria. Gli applausi.
Le braccia aperte.
Il sorriso dei sogni.
Gli applausi.
Porta aperta e chiusa, Aidah guarda la compagna varcare la soglia e avvicinarsi con aria complice, composta nella divisa verde camouflage, il basco rosso sul capo.
“Ti piace proprio qui, ah?,” Nabila sorride ancora, saetta lo sguardo intorno, al piccolo teatro di palazzo, del tutto abbandonato, trascurato, sporco.
Vuoto, con le poltroncine ingombre di materiale edilizio dall’ultima ristrutturazione dell’ala est, pure pregno d’un certo fascino all’occidentale, forse per le quattro colonnine che reggono le minuscole navate, forse il grande lucernario a piramide che imbianca la scena di luce naturale.
Nabila guarda Aidah intenta a sgombrare il modesto palco, trascinare giù i sacchi di calce, le sedie coperte dal cellophan. “Ce l’ho,” scandisce.
Lei si ferma, si volta: il volto le si illumina, “Veramente?”
Una mano cacciata nell’interno della divisa, l’oggetto avvolto nel panno blu: Aidah lo accoglie con mani incerte, emozionate, lo libera dall’incarto. Sorride ammirando il diadema dorato, lo solleva con gesto sacrale.
“Non vale niente,” precisa Nabila, “Non è d’oro.”
“Che importa? Lo sembra.” Aidah lo indossa sul capo, sulla fronte, sotto la grande chioma riccia e nera. Socchiude gli occhi in un’espressione ispirata. Sbottona la giacca camouflage su una canotta grigia, apre le braccia.
Un moto come di danza, scarponi anfibi sul palco impolverato.
“Un esercito di valorosi da me guidato, e la vittoria, e il plauso di Menfi tutta.”
Aidah si muove come un cigno: è una venere dalla pelle color terra, le braccia sono ali dischiuse. Nabila si siede su una delle poltroncine in prima fila.
“E a te, mia dolce Aida, tornar di allori cinto…”
Gambe flessuose in pantaloni mimetici sollevati alle ginocchia si muovono con la grazia dell’artista, della danzatrice.
“…Dirti: per te ho lottato, per te ho vinto.”
Gli occhi socchiusi sognano un palco più grande, un teatro più grande, le luci, gli ori. La platea raccolta. La musica di Verdi. Il cielo fuori dal lucernario, azzurro, imbiancato di cirri.
Un’Aida immaginata.
Un’Aida delle Nuvole.
C’è solo Nabila che applaude, divertita, che scuote il capo, “Sei così bella, tesoro. Perché non te ne vai in Occidente, in Italia, in Francia?”
Aidah sorride, un’altra sequenza di passi eleganti, artistici, di braccia aperte come a danzare.
“A far la cantante, o la ballerina. O la modella, perché no? Col corpo che ti ritrovi! Ma qui, che fai qui? Quando mai diventerai qualcuno qui?”
Alzar di spalle, lei, il bel viso stretto dalle labbra piene e gli occhi sottili. “Se Dio lo vorrà, un giorno, forse.”
Intorno il teatro abbandonato, la polvere.
Il sogno di un’altra vita.
“Un giorno.”
Girare di chiavi, la porta aperta un centimetro alla volta.
Il viso del ragazzetto si disegnò sulla soglia, due occhi acuti su tratti mediorientali: entrò e richiuse dietro di sé.
“Acqua,” sollevò la mano entro cui stringeva una mezza bottiglietta di plastica. “Te l’ho riportata.”
Guardò le iridi della donna volgersi lentamente su di sé, profonde e aliene anche dietro lo schermo del dolore, le tumefazioni, la stanchezza. Si avvicinò, raggiunse la branda su cui giaceva, immobile, poi il comodino, il piatto rimasto al suo posto. “Non hai mangiato?” Non ci fu risposta, solo quelle due gemme d’ossidiana puntate su di sé. “Io Qasim, ricordi?” Le riempì la ciotola d’acqua. “Tu… Aidah.”
Un lungo momento di nulla, poi la guardò tentare di alzarsi pietosamente, tendere il braccio verso il recipiente di latta, il polso fasciato.
“Aspetta.” Un’occhiata alla porta, poi di nuovo a lei. Raccolse la scodella e gliela offrì, gliela resse anche quando lei l’accolse tra mani tremanti; la guardò bere un sofferto sorso alla volta, rivoli d’acqua lungo il collo, gli occhi strizzati in un moto di profondo dolore e sollievo. Un colpo di tosse al termine della tirata.
“Meglio?”
Saliva tra le labbra. “Ancora…”
“Non ne ho altra.” Un’occhiata alla patacca d’orologio di plastica al polso, “Ma tra due ore ritorno.”
Lei sprofondò di nuovo il capo sul cuscino lercio, la grande chioma schiacciata o incollata al viso segnato dal dolore.
Qasim diede una rimescolata al piatto del cibo, lo coprì con un pezzo di carta. Tornò a guardare la donna distesa, abbandonata, i segni delle torture visibili sul corpo, intuibili anche dove il lenzuolo la copriva. Le labbra piene. I folti capelli ricci. Lo sguardo vitreo, pure sottilmente consapevole.
Non trovò le parole da dire: lasciò la stanza, a disagio, in qualche modo toccato dalla bellezza austera di lei anche dietro i lividi, le ferite, i segni dell’orrore attraverso il quale era suo malgrado passata.
Acceleratore premuto a fondo, piegare in curva: il fuoristrada s’imbarca sulle sospensioni, strisciate di gomma sull’asfalto, ritorna in equilibrio. Un pick-up bianco completa la stessa manovra dietro le spalle. La strada è un inferno di gente che corre, di urla, gli spari un crepitare selvaggio.
Colpi. Uno, due, proiettili contro il portellone posteriore, buchi nella carrozzeria, metallo scheggiato.
Il cuore un battito più forte.
“Corri!”
Cunetta, sobbalzo, urtare l’interno della portiera; Aidah si volta, respiri affannosi, pick-up bianco in coda, cinque dita strette sul calcio della Beretta. Le mani tremano d’adrenalina.
Corri!
Un proiettile infrange il lunotto, attraversa l’abitacolo, fora il parabrezza nel mezzo. Abbassarsi istintivo di entrambe, adrenalina. Nabila frena e sterza brusca, prende la prima a sinistra, si lancia nella stradina ingombra di detriti. Gente che corre, si scansa, si butta nei portoni aperti o dietro le auto parcheggiate. Il pick-up irrompe nella stessa via, stridere di gomme sull’asfalto, un secondo lo segue pochi metri dietro.
Un’altra sterzata, prendere a destra e buttarsi sullo slargo, la piazzetta alberata davanti all’ex hotel della stampa.
Due uomini armati alzano gli AK, urla subitanee, una raffica a coprire le voci, proiettili in volo contro cofano e parabrezza, l’orrore sui volti. “Non sterzare!” Aidah le inchioda il volante con un mano, “AMMAZZALI PER DIO, AMMAZZALI!” Chiudere gli occhi, parole a caso nella testa, accelerare a fondo: i miliziani si scansano imprecando, il sole sul mare, voltare a destra, la litoranea di nuovo aperta.
Nabila perde per un attimo il controllo, il Pajero sobbalza sulla passeggiata, sfronda i cespugli d’agave, panico tra i passanti, le urla. Urto d’una testa sulla carrozzeria, sobbalzo secco su un corpo che finisce schiacciato sotto le grandi ruote del fuoristrada: scia di pneumatico rosso sangue sul piastrellato candido.
Inseguitori a immettersi sulla medesima via in uno stridere furioso di gomme.
Aidah si volta ancora indietro, sudore sul viso, la pistola in mano, la giacca camo aperta, il riflesso del volto nello specchietto, la pelle color terra.
“Se arriviamo al porto… Se arriviamo al porto ci saranno ancora dei soldati, se…”, saliva tra le labbra, il cuore un maglio.
Schianto secco, un singolo proiettile d’alto calibro fora il portellone e il pianale, crea un vuoto d’aria che fa perdere aderenza al fuoristrada, scossone, il motore Mitsubishi alza di giri a vuoto per un attimo prima di tornare in assetto.
“MERDA!”
Aidah guarda furiosamente indietro, occhi sbarrati, l’artigliere sul vano del secondo pick-up e la sua arma pesante ora a tiro.
“Confondilo, sterza, sterza!”
Nabila piega il volante a destra, poi a sinistra, zigzaga disperata, il cuore a mille, occhi fissi in avanti e i respiri affannosi. Aidah sporge dal proprio finestrino, punta la pistola dietro di sé, apparire e sparire continuo del bersaglio, Avanti, avanti!, la paura di sbagliare, solo un paio di colpi a disposizione.
Sparo.
Un secondo proiettile pesante perfora il portellone, i sedili posteriori, il sedile guida, esplode attraverso la carne, getto di sangue sul parabrezza, s’incunea nella cassa dello sterzo, poi nel motore.
Momento di vuoto.
“Aidah…!”
Aidah rimase di nuovo sola, lo sguardo vacuo al soffitto, il dolore una consuetudine cui non si sarebbe abituata mai, anche l’avessero lasciata in quella stanza per sempre.
Nabila.
Il pensiero le si impose, un lucore torbido.
Nabila!
Si mosse, brevemente, le mani rigide come a cercare di spostare le lamiere, il parabrezza infranto, ripetere movenze che sapeva di aver già fatto, in un’altra vita.
“No, no…!”
Mormorò parole sconnesse, masticate, un filo di saliva tra le labbra. Il respiro accelerato, dolente.
Il porto è vicino, è vicino.
Brancicò le lenzuola, si contrasse. I polmoni pieni, carichi, la schiena inarcata come a sopportare un male infinito, troppo più grande di lei.
Nabila!
Pianse. Lacrime su gote nere e ferite.
Singhiozzò, in silenzio, a lungo.
“NO!” Aidah torna dentro, fissa la compagna rimasta con le mani serrate al volante e gli occhi sgranati, il buco cremisi in mezzo al ventre, i pezzi d’interiora sulle gambe.
“Aidah…” Un rigurgito di sangue la inchioda al sedile, l’oscillare furioso del capo sotto l’ordalia del dolore e del panico, shock violento.
“NO, NO!” Occhi sbarrati, l’impulso d’allungare una mano, afferrare il volante, reggerlo, tenere il fuoristrada diritto. “RESISTI, RESISTI!”
Le risponde solo il balbettare incoerente di lei, impietrita, il sangue addosso, la nuvola amaranto che ha irrorato il parabrezza.
Dio Onnipotente.
Aidah si protende, caccia un piede sui pedali, preme l’acceleratore che era stato rilasciato.
Dio, Dio, aiutaci.
Una mano per guidare, l’orrore di essere centrata dal prossimo colpo, il parabrezza umido di sangue, il rantolo di Nabila nelle orecchie.
Ti prego.
Schianto: il pick-up dietro dà gas e sperona il fuoristrada sul laterale del posteriore, attimo di confronto tra lamiere e forze.
Ti prego.
Abbrancare il volante con ambo le mani, tentare un inutile controsterzo: il Pajero si mette di traverso, urla delle gomme sull’asfalto, fumo bianco, odore feroce di bruciato.
Un attimo lungo come i secoli.
Il fuoristrada si ribalta.
Sbalzata, scagliata da forze più grandi di lei, il mondo cambia inclinazione e colore, il corpo di Nabila le finisce addosso, cristalli di vetro: il porto un ricordo rimasto sulle retine, al fondo di un respiro mai concluso.
La carcassa dell’auto si arena, entrambe giacciono, spezzate, tra le lamiere. Uno spicchio di cielo si scorge dal finestrino divelto: è azzurro e bianco di cirri.
Le braccia di Aidah sono aperte, come sul palco.
Un’Aida delle Nuvole.
“Muktar,” Qasim raggiunse a piccoli passi il vecchio sorvegliante, intento a lavarsi il volto nel lurido bagno del piano.
“Che vuoi ora?”
“Mi chiedevo,” esitò, “Ma chi è la Negra? Perché la teniamo qui, lontana dagli altri feriti?”
Muktar s’asciugò con un panno logoro, lo gettò lì accanto. “Te sei solo un ragazzino, certe cose non le sai, ed è meglio.”
“Ma io voglio sapere.”
Muktar gli strattonò la bandoliera in un gesto quasi affettuoso. “La Negra è una persona importante, una che il parlamento vuole tenersi stretta. Tutto qui. Per questo,” gesto severo del pollice contro la gola, “Nessuno la deve vedere e tu non ci devi parlare. Capito?”
“Ho capito, sì.”
Occhi chiusi.
Buio, una goccia di sangue sulla palpebra.
Respiro. Istinto primordiale, sensibilità delle dita, della mano, delle braccia.
Occhi aperti.
Boccheggiare improvviso, ritorno prepotente della ragione: letto di lamiera, lenzuola di vetri rotti, il sangue, l’olio, i pezzi dell’abitacolo.
Sussulto.
Aidah ha una contrazione, uno spasmo, scalcia per liberarsi dal sedile senza realizzare di star languendo sul tettuccio interno del Mitsubishi ribaltato: arranca sui gomiti, “Nabila…”, avverte fluido sulla tempia, una mano a tamponarsi il sangue che cola. Scorge un basco rosso abbandonato. “Nabila…” Il corpo di lei riverso, insanguinato, postura innaturale. “NABILA!” Voce che esce rotta, quasi un singhiozzo, nelle orecchie un rimbombare sordo del cuore.
Passi.
Scarponi, sandali, scarpe da ginnastica compaiono nel già ridotto campo visivo, voci echeggiate, distorte: portiere aperte o scardinate.
La pistola.
Tastare a caso intorno, tra schegge di vetro e detriti.
La pistola.
Mani.
Mani raspano sull’asfalto, afferrano, brancicano abiti e arti: vede Nabila essere presa, trascinata fuori dall’abitacolo.
LA PISTOLA.
Secondi al ritmo selvaggio del cuore.
Si sente cingere una caviglia, trascinare indietro. Altre mani le afferrano le gambe, la giacca: portata fuori di peso, sfregata sui cristalli infranti, scaraventata di schiena sulla strada, il sole negli occhi.
Dio proteggimi.
Occhi spalancati, i respiri in fiamme, sdraiata sull’asfalto caldo; intorno una marea di voci, di urla, d’insulti. La compagna portata a braccia, buttata lì accanto, qualcosa di simile a un barlume di vita negli occhi scuri sgranati, vitrei. Accorrere di una folla, una calca, uomini e donne come fantasmi urlanti.
Aidah guarda la gente raccogliere sassi e rifiuti, scagliarli loro addosso, con ingiurie e sputi. Miliziani ribelli fanno schermo, imprecano, sparano in aria.
Una cacofonia di versi e latrati.
Nabila si alza a sedere: ha il sangue che le sbrodola dalla bocca e pezzi di interiora che emergono dal basso ventre. Li guarda con quel poco di sprezzo, di sfida, che ancora le riesce di mostrare nell’abisso del dolore.
I miliziani ridono e imprecano: una tanica passa di mano, viene rovesciata addosso alla donna in sangue. Uno schioccare reiterato d’accendino e la benzina si trasforma in fiamma, così Nabila.
Brucia, nel verde della divisa, seduta, quasi senza contorcersi, in un turbine di fuoco che sfoca il profilo della folla. Cade, su un fianco, consumandosi sull’asfalto accanto alla carcassa del fuoristrada ribaltato.
Aidah non ha voce per chiamarla, per convincersi che è solo un incubo.
Un uomo appare, bandana sul capo, la sovrasta, ha in mano un martello da cantiere.
Perché non te ne vai in Occidente, in Italia, in Francia?
Colpo secco, violento, al lato sinistro del viso. L’attimo del dolore, il fischio nelle orecchie, le mani portate a coprirsi il volto.
A far la cantante, o la ballerina. O la modella, perché no? Col corpo che ti ritrovi! Ma qui, che fai qui? Quando mai diventerai qualcuno qui?
“Deve aver visto cose brutte,” Qasim un brivido, l’immagine mentale del corpo emaciato di lei, “Che ha fatto per meritarsele?”
Muktar sorride, tetro. “Cose brutte a sua volta.”
Afferrata per le braccia, trascinata sul cemento, intorno le urla, i sassi scagliati. La maglietta già lurida le si alza scoprendo il ventre. Vacillare tra coscienza e incoscienza, il capo abbandonato: sollevata in piedi, sorretta, esibita come un trofeo, mani a reggerle i folti capelli arricciati. Dolore acuto: la lama di un piccolo coltello cacciata tra le costole e subito estratta, un grido, agitarsi per un istante, invano, ripiombare nel caos primordiale dei sensi.
Cadere a terra, sull’asfalto: altre mani o le stesse la afferrano ancora per le braccia, la conducono di peso strisciando gli scarponi sul suolo, lontano dalla folla, dalle pietre, scortata da un nugolo di altri miliziani, urla confuse.
Trasportata a forza dentro una delle abitazioni a bordo strada, trascinata sul pavimento, dentro un’anticamera poi un salotto abbandonato che fu un ricovero, alzata e scaraventata su una branda lurida di urina e sangue secco: sul muro scritte inneggianti alla rivoluzione.
Mani a reggerle i polsi, legarla col fil di ferro alla struttura del letto, inutile divincolarsi, agitarsi, scalciare, le gambe allargate a forza, i piedi assicurati con corde da lavoro.
“NO!”
Mani addosso, ovunque, a strappare la giacca mimetica, lacerare la maglietta, aprire il cinturone.
“NO, NO!”
I calzoni militari calati a strattoni, pelle scura a contorcersi e fremere sul lurido della branda, il sangue. Gli slip un’ultima barriera tagliata col coltello. Altri calzoni calati, un telefono sorretto a due mani per riprendere, catturare il momento.
Gridare sommesso, poi più forte quando il primo estraneo entra dentro, mani la percuotono, poi l’odore, cruento, che le invade i polmoni. L’odore della carne umana bruciata. L’odore di Nabila rimasta sull’asfalto, in strada, consumata dal fuoco.
Se Dio lo vorrà, un giorno, forse.
Aidah ha le braccia spalancate, come sul palco d’un piccolo teatro abbandonato, mentre i polsi le si lacerano per i continui strattoni ai legami.
Le luci sono quelle del pomeriggio, e il pubblico quello delle grandi occasioni.
La camicia camouflage è aperta e i suoi occhi guardano in alto, ispirati, disperati.
In alto ad un soffitto ammuffito che con un po’ di fantasia può diventare un cielo azzurro, cosparso di bianchi cirri.
Un cielo sotto il quale mettere in scena l’opera alla quale lavora da anni, nel tempo libero.
Ha già in mente un titolo d’effetto.
Aida delle Nuvole.
Qasim guardò con diffidenza la figura dell’emissario del parlamento, un uomo giovanile, ben vestito, ma dagli occhi di ghiaccio. Poche parole con il capitano della sezione, poi una breve visita alla camera della Negra.
“La rilasceranno?” chiese a Muktar, entrambi in disparte nel corridoio col viavai di guardie e attendenti.
“Non credo proprio.”
Il politico ripassò scortato dai suoi assistenti, parole carpite dal discorso.
Ora che il rais è morto serve un altro esempio, qualcosa d’effetto, per scoraggiare i suoi ultimi seguaci.
La donna.
La Negra.
Qasim sentì un brivido percorrergli la schiena.
La impicchiamo a Tripoli la settimana prossima, con l’insediamento del governo provvisorio.
Aidah giace distesa su un vecchio letto sfatto in un stanza che odora d’urina. Il suo viso è tumefatto, il suo corpo segnato dagli orrori di due settimane in mano ai miliziani di Al-Awari, segni che la camicia logora e sporca non può coprire che in minima parte. Catene da stalla le vincolano i piedi nudi alla rete del letto.
La impiccheranno a Tripoli la settimana che viene.
Immagini dei teatri più belli d’Italia, di Francia, immagini viste sui depliant dell’Opera, continuano a scorrerle in loop sulle retine. Quella di Nabila bruciata viva sull’asfalto, al contrario, non va mai via, neppure un istante, dal fondo più oscuro dell’anima.
È stata un’Amazzone, Aidah, una delle guardie del corpo del rais, quel colonnello Gheddafi che giace morto, dicono, in una cella frigorifera. Non ha scelto quella vita, l’hanno obbligata. Anche Nabila non ha mai scelto, per quel che conta.
La Libia ha cambiato volto, adesso è democratica, e alla democrazia serve un monito per chi ancora lotta in memoria del colonnello: l’ultima Amazzone rimasta in vita, non impiccata, lapidata o bruciata viva dalle milizie ribelli.
Aidah attende il suo momento senza più desiderio cosciente.
In testa ha solo un vecchio progetto, qualcosa di teatrale, di moderno, una rivisitazione dell’opera di Verdi che aveva letto da bambina, che l’aveva affascinata: un’opera che porta il suo stesso nome.
Sopra di lei non c’è alcun cielo, ma con un po’ di fantasia il soffitto ammuffito della stanza può diventare un sogno azzurro imbiancato di cirri.
Aida delle Nuvole.
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