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Cristo, che stanchezza, non vedo l’ora di arrivare.
Mi consola però il pensiero del luogo verso cui sto viaggiando. Ah, amata India, aspettami…
«Scusi, dove ci troviamo?»
La hostess mi guarda come fossi un idiota, poi rilascia un sorriso e indica il monitor sullo schienale davanti a me.
Ha ragione. Faccio finta di niente e premo il pulsante di accensione.
«Comunque siamo sulla Turchia» dice. Si allontana.
Sullo schermo appare l’immagine della traccia aerea. Siamo davvero sopra il territorio ottomano, quindi è meglio che dorma, visto che mancano almeno tre ore di volo. Spengo. Anche gli occhi.
Mi sveglio per il trambusto.
«Signori, restate ai vostri posti, per cortesia…» la voce della hostess ha una vena d’angoscia, «ora il comandante vi spiegherà la situazione.»
Che cacchio è successo?
«Signore e signori è il comandante che vi parla. Come avrete già capito, siamo in avaria e perdiamo quota costantemente. Tenteremo un atterraggio d’emergenza, rimanete con le cinture allacciate e cercate di non farvi prendere dal panico. Buona fortuna a tutti noi.»
Porca puttana…
Non fatevi prendere dal panico… come fosse semplice. Infatti qualcuno comincia a piangere, altri gridano e altri ancora, come me, restano immobili. Non so loro, ma io sono paralizzato dalla paura.
Eppure dovevo aspettarmelo prima o poi, un incidente.
E invece no, non mi aspettavo niente, e niente è esattamente quello che posso fare adesso.
«Non sembra neanche di cadere…»
Il pilota deve essere in gamba, sta riuscendo a tenere l’aereo, sebbene guardando fuori dal finestrino si veda il suolo avvicinarsi rapidamente. Infatti vengono subito oscurati tutti i vetri.
Cerco di rilassarmi e ricorro a tutte le tecniche che conosco, ma mica è facile…
Come sarà l’impatto? Spero di non soffrire troppo, ho una soglia del dolore molto alta, però…
Chissà quando e come mi reincarnerò, speravo di migliorare il mio karma, ma ormai temo di non avere alcuna possibilità.
Mi sto volutamente estraniando, ma grida e pianti mi giungono comunque, come le raccomandazioni delle hostess, pure loro in lacrime, che cercano di calmare i passeggeri più esagitati.
«State seduti, stiamo per impattare il terreno.» È il comandante.
Anche le assistenti di volo si siedono e allacciano, butto lo sguardo all’esterno: siamo su una città e i palazzi sono vicinissimi. Sento le urla di terrore di qualcuno.
Speriamo di non finire contro un grattacielo, sarebbe una strage.
«Tenetevi forte.» Ancora lui.
Isolamento totale, ci provo…
La botta non arriva più , mi sto stressando. Un’occhiata fuori e capisco che abbiamo oltrepassato l’abitato e la terra è vicina…
Sono ancora legato alla poltrona. Muovo la testa lentamente e piccoli lampi di dolore me la trafiggono, apro gli occhi e provo a capire.
Sono vivo…
La carlinga è squarciata in vari punti, probabilmente ali e coda si sono staccate.
E chi se ne frega? L’importante è essere qui…
Noto con piacere che buona parte dei passeggeri è sopravvissuta, è andata meglio di quanto potessi sperare. Vorrei alzarmi, ma i residui della tensione mi tengono inchiodato.
Qualcuno già si è mosso, invece.
«Mamma, sì, sono qui…»
Voci che si moltiplicano, sovrapponendosi. Pianti, grida. Rido di una risata liberatoria che diviene urlo e poi singhiozzo.
«Sicuramente poteva andare molto peggio» dice il comandante, «mi pare che solo in sette non ce l’abbiano fatta ed eravamo quasi duecento. Meno male che non è esploso il serbatoio.»
«Vero» dice con un filo di voce una delle hostess, «però Martha è una di quei sette.»
«Purtroppo. Quello che mi pare strano è che non siano ancora arrivati i soccorsi, sanno dove siamo caduti, ero in linea fino a pochi istanti prima, anche se qui pare non ci sia campo.»
Già, strano davvero.
Ho il cellulare in tasca. Lo prendo e confermo: niente campo.
Il rombo di alcuni motori ci fa voltare. Sorrido: «Li chiami e loro arrivano…» ma cambio espressione vedendo alcune moto avvicinarsi. Chi diavolo sono, questi?
Altre persone accanto a noi osservano incredule, scambiandosi sguardi carichi di interrogativi. Si crea un silenzio irreale, rotto solo dai motori delle moto. Sono enormi, simili a delle Harley Davidson, ma più grosse strutturalmente.
Si fermano a poche decine di metri. Da quella davanti a tutte scende un centauro in tuta e casco neri, parcheggia il mezzo e libera la testa. È una donna…
«C’è il comandante, fra voi?»
«Sono io.»
«Venga qui.»
La raggiunge. Lei lo guarda e parlano qualche istante a voce bassa, sufficiente a non farsi udire.
Dietro di me salgono mormorii: ma chi sono, io aspettavo i soccorsi, dove sono le ambulanze, che fa il comandante…
«Signori, ascoltatemi, per cortesia.»
Riesce a ottenere il silenzio.
«Bene. Sentite, per quanto possa apparirvi strano, dobbiamo salire su quelle moto.»
«Ma… e i soccorsi?» interrompe qualcuno.
«Sono loro. Sono qui per portarci in salvo. Non possiamo fare altro che accettare, non abbiamo scelta.»
«No! Io aspetto l’ambulanza, ho una gamba che credo sia rotta.»
«Anch’io aspetto…»
Altre voci si aggiungono. Io ascolto, guardo, ma non comprendo.
«Silenzio! Faremo come dico io, sono ancora responsabile di ognuno di voi. Ora ci mettiamo in fila, ognuna di loro si avvicinerà con la moto scegliendo uno di noi, che dovrà salire.»
«Sono tante moto, ma non credo ci stiamo tutti» dico io.
«No, infatti alcuni dovranno rimanere. Ci saranno più viaggi e dopo arriveranno altri aiuti. Lo so che non siete contenti, ma vi garantisco che possiamo solo dire sì.»
«Il comandante ha ragione, non siamo in grado di opporci a tale decisione e tanto meno di fare da soli. Ci sono bambini, donne, anziani… dobbiamo seguire le sue indicazioni.»
Un mormorio segue le parole uscite chissà come dalla mia bocca. Una pacca sulla spalla e capisco che sono stato apprezzato.
«Su» riprende, «fate come vi ho detto e ricordate che non si portano bagagli, arriveranno in seguito.»
Sono tutte donne.
Una si è avvicinata e mi ha fatto cenno di salire dietro di lei, dove sono ancora adesso.
Guida con calma, dolcemente, su strada sterrata che pare non avere fine. Degli altri nessuna traccia, ma ho dentro un senso di pace e tranquillità che da tempo non provavo. Sto bene.
Si è fermata. Scendo dal mezzo e guardo.
«Grazie» dico, «ma dove mi hai portato?»
Non risponde, ma con la testa mi accenna un punto, poi si gira e riparte.
Tutto intorno ho terre desolate, semidesertiche, ma dove lei ha indicato parte uno stretto sentiero, unica via percorribile. M’incammino.
Come tocco il sentiero tutto si trasforma, diviene una larga via pergolata, colma di gente, tra cui riconosco alcuni che erano sull’aereo con me. Sorpreso, ma non troppo, parto per non so dove.
Mia nonna è morta da vent’anni, eppure sono sicuro di averla vista poco fa. Ho cercato di avvicinarla, ma lei mi ha lanciato un sorriso ed è svanita. E se non sbaglio, a pochi metri c’è mio padre.
«Papà…» non riesco a dire altro.
Si avvicina e mi fa cenno con la mano di guardare alla mia sinistra. Mi volto e vedo aprirsi una finestra nel nulla. Papà si mette al mio fianco e insieme osserviamo i rottami ancora fumanti dell’aereo, i soccorritori che si danno da fare, polizia, ambulanze…
Mi giunge una voce: «Al momento sono sette i sopravvissuti all’incidente aereo avvenuto…»
«Ma sette erano i morti, non il contrario» dico.
«Vieni» dice finalmente mio padre, ridendo, «questa è la via per la rinascita e possiamo fare un po’ di strada insieme. Al prossimo svincolo devo uscire, tu lo saprai al momento opportuno.»
Mi prende per mano, come non ha mai fatto prima.
La finestra si è chiusa, è ora di aprire nuovamente la porta della vita.
«Sì, andiamo, devo trovare una porta.»
Cristo, che stanchezza, non vedo l’ora di arrivare.
Mi consola però il pensiero del luogo verso cui sto viaggiando. Ah, amata India, aspettami…
«Scusi, dove ci troviamo?»
La hostess mi guarda come fossi un idiota, poi rilascia un sorriso e indica il monitor sullo schienale davanti a me.
Ha ragione. Faccio finta di niente e premo il pulsante di accensione.
«Comunque siamo sulla Turchia» dice. Si allontana.
Sullo schermo appare l’immagine della traccia aerea. Siamo davvero sopra il territorio ottomano, quindi è meglio che dorma, visto che mancano almeno tre ore di volo. Spengo. Anche gli occhi.
Mi sveglio per il trambusto.
«Signori, restate ai vostri posti, per cortesia…» la voce della hostess ha una vena d’angoscia, «ora il comandante vi spiegherà la situazione.»
Che cacchio è successo?
«Signore e signori è il comandante che vi parla. Come avrete già capito, siamo in avaria e perdiamo quota costantemente. Tenteremo un atterraggio d’emergenza, rimanete con le cinture allacciate e cercate di non farvi prendere dal panico. Buona fortuna a tutti noi.»
Porca puttana…
Non fatevi prendere dal panico… come fosse semplice. Infatti qualcuno comincia a piangere, altri gridano e altri ancora, come me, restano immobili. Non so loro, ma io sono paralizzato dalla paura.
Eppure dovevo aspettarmelo prima o poi, un incidente.
E invece no, non mi aspettavo niente, e niente è esattamente quello che posso fare adesso.
«Non sembra neanche di cadere…»
Il pilota deve essere in gamba, sta riuscendo a tenere l’aereo, sebbene guardando fuori dal finestrino si veda il suolo avvicinarsi rapidamente. Infatti vengono subito oscurati tutti i vetri.
Cerco di rilassarmi e ricorro a tutte le tecniche che conosco, ma mica è facile…
Come sarà l’impatto? Spero di non soffrire troppo, ho una soglia del dolore molto alta, però…
Chissà quando e come mi reincarnerò, speravo di migliorare il mio karma, ma ormai temo di non avere alcuna possibilità.
Mi sto volutamente estraniando, ma grida e pianti mi giungono comunque, come le raccomandazioni delle hostess, pure loro in lacrime, che cercano di calmare i passeggeri più esagitati.
«State seduti, stiamo per impattare il terreno.» È il comandante.
Anche le assistenti di volo si siedono e allacciano, butto lo sguardo all’esterno: siamo su una città e i palazzi sono vicinissimi. Sento le urla di terrore di qualcuno.
Speriamo di non finire contro un grattacielo, sarebbe una strage.
«Tenetevi forte.» Ancora lui.
Isolamento totale, ci provo…
La botta non arriva più , mi sto stressando. Un’occhiata fuori e capisco che abbiamo oltrepassato l’abitato e la terra è vicina…
Sono ancora legato alla poltrona. Muovo la testa lentamente e piccoli lampi di dolore me la trafiggono, apro gli occhi e provo a capire.
Sono vivo…
La carlinga è squarciata in vari punti, probabilmente ali e coda si sono staccate.
E chi se ne frega? L’importante è essere qui…
Noto con piacere che buona parte dei passeggeri è sopravvissuta, è andata meglio di quanto potessi sperare. Vorrei alzarmi, ma i residui della tensione mi tengono inchiodato.
Qualcuno già si è mosso, invece.
«Mamma, sì, sono qui…»
Voci che si moltiplicano, sovrapponendosi. Pianti, grida. Rido di una risata liberatoria che diviene urlo e poi singhiozzo.
«Sicuramente poteva andare molto peggio» dice il comandante, «mi pare che solo in sette non ce l’abbiano fatta ed eravamo quasi duecento. Meno male che non è esploso il serbatoio.»
«Vero» dice con un filo di voce una delle hostess, «però Martha è una di quei sette.»
«Purtroppo. Quello che mi pare strano è che non siano ancora arrivati i soccorsi, sanno dove siamo caduti, ero in linea fino a pochi istanti prima, anche se qui pare non ci sia campo.»
Già, strano davvero.
Ho il cellulare in tasca. Lo prendo e confermo: niente campo.
Il rombo di alcuni motori ci fa voltare. Sorrido: «Li chiami e loro arrivano…» ma cambio espressione vedendo alcune moto avvicinarsi. Chi diavolo sono, questi?
Altre persone accanto a noi osservano incredule, scambiandosi sguardi carichi di interrogativi. Si crea un silenzio irreale, rotto solo dai motori delle moto. Sono enormi, simili a delle Harley Davidson, ma più grosse strutturalmente.
Si fermano a poche decine di metri. Da quella davanti a tutte scende un centauro in tuta e casco neri, parcheggia il mezzo e libera la testa. È una donna…
«C’è il comandante, fra voi?»
«Sono io.»
«Venga qui.»
La raggiunge. Lei lo guarda e parlano qualche istante a voce bassa, sufficiente a non farsi udire.
Dietro di me salgono mormorii: ma chi sono, io aspettavo i soccorsi, dove sono le ambulanze, che fa il comandante…
«Signori, ascoltatemi, per cortesia.»
Riesce a ottenere il silenzio.
«Bene. Sentite, per quanto possa apparirvi strano, dobbiamo salire su quelle moto.»
«Ma… e i soccorsi?» interrompe qualcuno.
«Sono loro. Sono qui per portarci in salvo. Non possiamo fare altro che accettare, non abbiamo scelta.»
«No! Io aspetto l’ambulanza, ho una gamba che credo sia rotta.»
«Anch’io aspetto…»
Altre voci si aggiungono. Io ascolto, guardo, ma non comprendo.
«Silenzio! Faremo come dico io, sono ancora responsabile di ognuno di voi. Ora ci mettiamo in fila, ognuna di loro si avvicinerà con la moto scegliendo uno di noi, che dovrà salire.»
«Sono tante moto, ma non credo ci stiamo tutti» dico io.
«No, infatti alcuni dovranno rimanere. Ci saranno più viaggi e dopo arriveranno altri aiuti. Lo so che non siete contenti, ma vi garantisco che possiamo solo dire sì.»
«Il comandante ha ragione, non siamo in grado di opporci a tale decisione e tanto meno di fare da soli. Ci sono bambini, donne, anziani… dobbiamo seguire le sue indicazioni.»
Un mormorio segue le parole uscite chissà come dalla mia bocca. Una pacca sulla spalla e capisco che sono stato apprezzato.
«Su» riprende, «fate come vi ho detto e ricordate che non si portano bagagli, arriveranno in seguito.»
Sono tutte donne.
Una si è avvicinata e mi ha fatto cenno di salire dietro di lei, dove sono ancora adesso.
Guida con calma, dolcemente, su strada sterrata che pare non avere fine. Degli altri nessuna traccia, ma ho dentro un senso di pace e tranquillità che da tempo non provavo. Sto bene.
Si è fermata. Scendo dal mezzo e guardo.
«Grazie» dico, «ma dove mi hai portato?»
Non risponde, ma con la testa mi accenna un punto, poi si gira e riparte.
Tutto intorno ho terre desolate, semidesertiche, ma dove lei ha indicato parte uno stretto sentiero, unica via percorribile. M’incammino.
Come tocco il sentiero tutto si trasforma, diviene una larga via pergolata, colma di gente, tra cui riconosco alcuni che erano sull’aereo con me. Sorpreso, ma non troppo, parto per non so dove.
Mia nonna è morta da vent’anni, eppure sono sicuro di averla vista poco fa. Ho cercato di avvicinarla, ma lei mi ha lanciato un sorriso ed è svanita. E se non sbaglio, a pochi metri c’è mio padre.
«Papà…» non riesco a dire altro.
Si avvicina e mi fa cenno con la mano di guardare alla mia sinistra. Mi volto e vedo aprirsi una finestra nel nulla. Papà si mette al mio fianco e insieme osserviamo i rottami ancora fumanti dell’aereo, i soccorritori che si danno da fare, polizia, ambulanze…
Mi giunge una voce: «Al momento sono sette i sopravvissuti all’incidente aereo avvenuto…»
«Ma sette erano i morti, non il contrario» dico.
«Vieni» dice finalmente mio padre, ridendo, «questa è la via per la rinascita e possiamo fare un po’ di strada insieme. Al prossimo svincolo devo uscire, tu lo saprai al momento opportuno.»
Mi prende per mano, come non ha mai fatto prima.
La finestra si è chiusa, è ora di aprire nuovamente la porta della vita.
«Sì, andiamo, devo trovare una porta.»