***
Mi trema la mano. La destra.
Trema da diversi minuti, anche se loro se ne sono andate, anche se il dolore è passato: potrebbe essere scarico di tensione, di frustrazione; potrebbe essere.
Il buio è calato, ormai da un po’.
Loro hanno acceso delle fiaccole, un falò nel mezzo dello spiazzo, e se ne sono andate. Ci guardiamo, legate agli stessi pinnacoli, senza dire nulla; la paura che siano ancora lì, che aspettino un pretesto per tornare e riprendere i giochi, ci tiene zitte e immobili, a fissare a terra con sguardo rassegnato.
Rita è la prima e l’unica a prendere l’iniziativa, a rompere il silenzio quando il ragionevole dubbio che le Erinni aspettino un pretesto s’incrina sotto lo scorrere del tempo.
“Ce la fai, tesoro?” chiede guardandomi come una madre guarderebbe sua figlia, ma non la mia, o non più da tempo.
Se considero Rita la migliore tra noi, l’unica che valga qualcosa, è anche per questo: non mi ha domandato Come stai? o Come ti senti?
Perché lo sa, Rita, che potrei risponderle solo con una cazzo di parola che non vuol dire nulla. Bene? Non sto bene, proprio per niente. Male? Sto male. Non me lo dovresti neanche chiedere come sto, si vede, anche al buio, si vede.
Invece Rita no, non mi ha chiesto Come stai?
Mi ha chiesto Ce la fai?
Ce la faccio?
Annuisco appena, con l’orribile sensazione del sangue che scorre in lenti rivoli giù per il mento. Sangue, il mio sangue. Posso farcela a sopportare, alla fine sono giochi: fanno male a farli, dopo è tutta discesa.
Annuisco appena, e la piccola cascata di monili che mi hanno infitto nel labbro inferiore, uno dopo l’altro, un buco scavato a mano alla volta, si muove e spande barbagli dorati nel lucore delle fiamme.
Ho un orecchio viola tempestato di orecchini, un grande anello da vacca al naso e una pletora di collanine auree appese al labbro, tutto infilato nella carne con ferri e punteruoli da terzo mondo.
Sanguino parecchio, tra naso e labbro che sbrodolano e scolano sul mento e poi giù per il collo fino a entrare nella giacca della divisa tattica.
Il dolore, soffuso, è una cappa che prende alla testa e pulsa. Pulsa come luce intermittente.
“Ce la faccio,” mormoro, un’occhiata distratta ai chiodi, grossi chiodi da carpentiere, che le hanno martellato nelle spalle, nelle braccia, tra le costole. Rita non sembra darvi alcuna importanza, per quanto il respiro le risulti più difficile, per quanto quei chiodi la facciano assomigliare a Gesù Cristo molto più di tanti Suoi volenterosi seguaci.
“Tu sei forte, ragazza,” prosegue, e vorrei che avesse ragione. “Forse abbiamo guadagnato la notte. Non dovrebbero tornare, non fino a domattina.”
“Tornare? Ma che tornino!” Rido amara, con i denti stretti e tutta la frustrazione del mondo, “Mica hanno finito con noi, no?!”
Candy abbassa lo sguardo e singhiozza, in silenzio, Rita s’offusca.
“Non hanno finito, no,” la voce mi si fa cruda, arrabbiata, viva, nonostante il fastidio e il gonfiore al labbro, “Ne manca una!”
Non c’è risposta, solo imbarazzo: lei, lei non mi guarda neanche.
“Io solo una cosa voglio sapere,” ringhio strattonando le corde, col sangue che scola giù per il mento, “Per quale cazzo di motivo a quella non l’hanno neanche sfiorata. Per quale cazzo di motivo!”
È solo in quel momento che la suora alza lo sguardo, uno sguardo vivo, sottilmente inquieto, carico di consapevole vergogna. Mi guarda, ci guardiamo, come cagne alla catena.
“Dai, su,” Rita media con uno sforzo di umanità, “Saranno superstiziose, temono la croce.”
“Un cazzo la croce! Questa ci ha vendute, questa merda, è una loro complice. Sta con le Erinni, va a finire, per questo ci hanno prese così facilmente, c’era una di noi che le aiutava, ecco cosa!”
Lei, la suora, mi scruta con due occhi feriti ma fieri. “Cos’hai contro di me? È dall’eliporto che ce l’hai con me, cosa ti ho fatto?”
“A me? A tutte, magari. Tutte quante.”
“Sei pazza.”
“Sono pazza?!” Strattono di nuovo le corde, ignorando il dolore. “Allora diccelo: perché non ti hanno toccata, ah? Neanche un graffio, niente, e guarda noi, guardaci cazzo! Allora?”
La suora abbassa nuovamente gli occhi, vaga le iridi per un lungo attimo. “Io non lo so.”
“Non lo sai.”
“Non lo so!”
Annuisco, teatrale. “E va bene, non lo sai. E non sai neanche cosa farò domattina, sì?”
“Non lo so.”
“Domani, se ci ammazzano, io chiedo a quelle streghe fottute che tu vai per prima. Solo per il gusto di vederti mangiare dalla bestia. Ci stai? Voglio vederti mentre ti sventra e ti mastica, così sarò sicura che non stai dalla loro parte. Non ti sembra un buon test?”
Lei espira, cupa. “Fai quello che ti pare.”
“Finitela,” il tono di Rita è grave, amaro, segnato da una venatura di profonda tristezza; Candy-Kane, in sottofondo, singhiozza. “Siamo tutte sulla stessa barca. Se ci ammazzano, ci ammazzano tutte, non importa chi prima e chi dopo. Cerchiamo di vivere queste ultime ore con dignità. Dignità, capito? Noi non siamo come loro.”
Silenzio.
Vorrei piangere, vorrei urlare. Vorrei svellere queste corde solo per potermi strappare tutta la bigiotteria che mi hanno cacciato nella carne. Le odio, odio le Erinni, odio Atreja, odio aver perso a questo fottuto, orribile gioco senza neanche aver giocato.
Chiudo gli occhi per un momento col pensiero di casa, casa con tutte le sue bruttezze, che valgono comunque più di Illumina.
“Io non voglio morire,” mormoro a mezza voce, ed è la prima volta che lo dico sul serio, a cuore aperto, senza dover nascondere niente dietro la maschera del mio ruolo. Non voglio morire, no.
Rita sorride, comprensiva. “Nessuna di noi lo vuole. Siamo venute qui ognuna per le sue ragioni, ma nessuna apposta per crepare.”
“Nessuna.”
Cala il silenzio. Il crepitio del falò, delle fiaccole, riempie il vuoto notturno e i suoni distanti di Illumina. Ci sono le stelle, sopra di noi, spruzzate con tale abbondanza da non lasciare quasi spazio al blu cobalto; sarebbe un cielo sotto il quale dormire, sognare, scopare o magari star soli a guardare con la giusta dose di meraviglia.
“Ci staranno guardando?” chiedo atona, “Le telecamere.”
“Di sicuro. Siamo sempre sorvegliate, ogni momento; ho sentito dire che ciascuna concorrente ha il suo canale video dedicato, così il pubblico può seguire quella che preferisce, o fare zapping tra tutte.”
“Dedicato?” scuoto il capo, rassegnata, “Dio, nella fase di preparazione ho ricevuto così tanti messaggi da orde di bastardi allupati che staranno godendo come animali in questo momento. Ma possono sentirci?”
“Non lo so,” Rita ammette, “Credo riprendano tutto dai satelliti. Non so se c’è anche l’audio, ma può essere. Magari solo per gli account Platinum.”
“E il telefonino? Quello con cui ci hanno riprese.”
“Sempre Platinum: paga la maggiorazione e hai diritto a vedere tutti i dettagli sul campo, in diretta. È così che funziona.”
Mi vien da ridere. “C’è gente che è disposta a pagare duemila euro al mese per vedere da vicino noi che veniamo tagliuzzate e date da mangiare a quei mostri?”
“A quanto ne so ne hanno venduti un macello.”
“Che cazzo ha la gente in testa?”
“Cosa avevamo noi quando abbiamo scelto di venire quaggiù?”
Silenzio. Cerco le parole migliori per dirlo senza trovarne. “Niente da perdere, credo.”
Rita sorride amara, il capo chinato e un’ombra sul viso. “Io ho tre figli da perdere.”
Noialtre ci fissiamo per un attimo, spaesate, e il fuoco sembra sfrigolare più forte.
“Che? Tre figli?” La guardo come si guardano gli scherzi della natura, “Vivi? Normali?”
“Vivi e normali. Due maschi e una femmina.”
“Te li hanno portati via?”
“No, no,” sorride con un misto di imbarazzo e comprensione, “Niente di tutto questo. Sono a casa, che aspettano il mio ritorno. C’è Claudio con loro, mio marito. Aspetta anche lui.”
“Siete separati? Ti odia? Ti ha ricattato?”
“No, accidenti,” sorride ancora, con occhi velati di dolore, “Non c’è nulla che non va, davvero.”
“E cosa cazzo ci fai qui allora?!”
Sorride, Rita, con quella sottile forma di consapevolezza che le aleggia addosso dal primo momento che l’ho incontrata, nell’hangar. “Ho passato la vita sulle spalle di mio marito. Non ho mai lavorato. Ho speso anni viaggiando, da sola quando lui per lavoro non poteva seguirmi. Sono stata quasi ovunque nel mondo, provato ogni tipo di attività, di pratica, di emozione. Poi è arrivato qualcosa, come un senso di vuoto. Ho cominciato a pensare: adesso che il mondo è finito, cosa visiterai? Cosa farai per tenerti in vita? E sono finita qui, qui perché volevo dimostrare a me stessa che potevo fare anche questo. Potevo farcela da sola, senza i soldi di Claudio a pagare tutto, fare una cosa che fosse mia e solo mia.” Sospira, rassegnata. “Questo volevo fare. Una cosa mia e solo mia.”
Reclino la testa, attonita, la appoggio contro il pinnacolo e sbatto un paio di volte la nuca con sdegno. “Dio, Dio, hai tre figli, Cristo, una cazzo di esistenza da sogno, io non… Che cazzo avete nella testa, madonna, ti facevo una normale, una tosta, una che l’ha presa nel culo dalla vita ma era qui per… Dio, è assurdo,” scuoto la testa, occhi alle stelle, sconvolta, agitata, incredula, “Bisogna essere stupide per fare una cosa così, ma stupide proprio, Cristo d’un Dio.”
“Spiacente d’averti delusa, Mercury,” risponde lei con leggera indifferenza, “Non mi mancava niente, era solo una cosa mia. Un bisogno mio.”
“Io sono stata congedata con disonore! Mia madre ha giocato alle slot e ai botteghini tutti i miei cazzo di risparmi! Non ho un soldo, non ho una vita, ho quasi trent’anni, ho mia sorella che mi odia e non so fare altro nella vita che sparare con armi automatiche. Cristo, io pensavo di stare in mezzo alle disperate come me, peggio di me, invece… invece per voi qui è un gioco, un fottuto intrattenimento!”
“Ognuna ha le sue ragioni e tu non hai il diritto di giudicarle.”
“Ce l’ho eccome il diritto! Ci stanno per ammazzare, lo capite?! Ci faranno fare a pezzi da una bestia di dieci metri! E io ero qui per cercare di rifarmi una vita, mentre voi… voi eravate qui a giocare! A dimostrare qualcosa a voi stesse, cazzo!”
Atreja aveva ragione. Ragione, ragione da vendere. Mi basta guardarle, le altre due, per capire che non hanno un reale motivo per essere lì, solo qualcosa da dimostrare o noia da sconfiggere.
“E tu?” Rita si rivolge verso Candy col più quieto dei sorrisi, “Tu perché sei qui, tesoro?”
Lei tira su col naso, mi guarda, poi guarda lei. “Con delle amiche… una…”
Sta per dirlo. So che sta per dirlo.
Non può che essere quella parola, quella che mi ricorda mia madre più dell’infuso di girasole.
“Una scommessa…”
Sbatto di nuovo la nuca sulla pietra per diverse volte di fila, attirando lo sguardo attonito di Candy-Kane, il suo viso vira sul senso di colpa e di vergogna.
Questa merda umana è qui per scommessa, per una fottuta scommessa.
Si è addestrata ed è stata messa nella gloriosa Ondata 9 solo per una dannata scommessa.
“Sei spazzatura,” sibilo con il più rassegnato degli odi, “E se mai ce la caviamo io ti strappo gli occhi.”
“Ogni motivazione,” il tono di Rita si fa più forte, più deciso, “È sacra. Non hai il diritto di giudicarla.”
Giaccio atona, frustrata, contro il pinnacolo di pietra. Vorrei morire qui, ora, e assieme sento quel bisogno irrefrenabile di vivere, di andare avanti, di superare la notte e il giorno che verrà, e quello dopo ancora.
Vorrei non aver mai accettato di venire qui e assieme vorrei averlo fatto altre cento volte, solo lottando per un finale diverso. Per avere la mia occasione.
Non mi interessano le motivazioni della suora, la ex suora, che non saranno mai migliori di quelle delle altre; m’importa solo che il nostro tempo corre e vola, e non c’è modo di fermarlo.
“Buongiorno, buongiorno,” Max Tambori entrò in ufficio con addosso la soddisfazione che solo le ottime notizie potevano dare; scaricò sul tavolo della sala comune un vassoio colmo di brioches da pasticceria ridendo degli sguardi perplessi di segretarie e collaboratori. “Grande nottata, questa,” recitò senza riuscire a smettere di sorridere, “Grande nottata,” prima di fiondarsi verso l’ufficio di Gioele con il giornale nella mano.
Lui attendeva seduto alla scrivania, atono ma col pallore del viso che tradiva un certo latente compiacimento, e lo sguardo rivolto allo schermo ultra-slim del pc.
“Guarda qui,” esordì Max senza neppure togliersi la giacca, il quotidiano brandito con ambo le mani, come i Comandamenti. La prima pagina splendeva di una foto di folla e d’un titolo imperativo: Risparmiatele.
“Ieri notte, all’una, qualcuno ha organizzato in piazza un sit-in in solidarietà di quelle quattro disgraziate, e sai perché? Perché c’era un fottio di gente collegata al confessionale. Hanno sentito le loro chiacchiere lamentose, la storia dei figli: l’hai sentita la faccenda dei tre figli, no? Hai avuto una grande idea, sì. L’abbiamo sfruttato poco il confessionale nelle Ondate scorse, abbiamo fatto parlare poco le poveracce che stavano per morire, invece la gente va matta per queste cose, adora sentire le lamentele pre-morte quasi quanto guardare le uccisioni in diretta. E quelle quattro sono andate avanti parecchio, e sono spaventate, la combinazione perfetta per smuovere le acque.”
Max scosse il capo, gettando il giornale sulla scrivania di lui, si tolse la giacca ora che l’enfasi del discorso gli stava facendo salire la calura.
“Stamattina alle otto ne hanno fatto un altro sempre in piazza, e prova a indovinare? Sì! Sono arrivati quelli di Eleuteria che hanno cominciato ad attaccare coi soliti slogan, Vi impietosite per delle volontarie e non per i disperati che arrivano dal mare. Le solite cose. Ma c’era la tv e quindi, bum, abbiamo di nuovo rubato la scena, per non parlare della petizione! Stanno raccogliendo firme, senti questa, senti, per mandare una richiesta ufficiale alle Erinni,” esibì i palmi e si mise in una posa da teatrante, “Affinché grazino le bellezze dell’Ondata 9.”
Rise da solo, divertito, di fronte all’espressione atona di Gioele Palazzese.
“Io non so cosa è successo, Giò, ma queste quattro stanno salvando tutto. Io fossi in te un pensiero lo farei, a tenercele buone dico, a dar loro,” fece una pausa d’effetto, “Una seconda possibilità.”
Gioele inarcò appena le sopracciglia. “Non si interferisce con Illumina. Le regole…”
“…sono regole, lo so, lo so. Eh, allora niente, speriamo che il pubblico non prenda male la fine di quelle poveracce. Che ore sono? Le nove. Manca poco, giusto? Nove e mezza inizia lo show, le terminano oggi, sì?”
“Pare di sì.”
“Hanno già scelto la bestia? Le danno all’Onyx?”
“Non ne ho idea.”
“Eh, peccato, peccato,” Max affondò le mani nelle tasche, ciondolò sulle gambe, “Certo se si potesse riutilizzare queste quattro stronze, almeno solo per un altro po’, il network ne guadagnerebbe.” Ancora una pausa. “Proprio no a fare una telefonata, no? Concordare un rilascio o due, magari, magari ecco! Ci pensavo proprio stanotte, simulare una fuga, giocare un po’ alla caccia all’uomo, anzi alla donna… Sai come s’infervora il pubblico?”
L’espressione attenta pure impassibile di Gioele gli disse che non c’erano possibilità d’infrangere il protocollo.
“D’accordo, d’accordo,” sospirò alzando le spalle, “Niente interferenze. Peccato, peccato davvero. Niente, allora vado a prendere i popcorn e mi metto davanti al pc: odio i tagliuzzamenti ma le fighe mangiate vive non me le perdo per nulla al mondo. Ci vediamo dopo. Ho da sottoporti un paio di idee, delle magliette, ti piaceranno: ci stampiamo sopra le quattro facce delle moriture, tipo Che Guevara, e ci scriviamo MARTIRI a caratteri rosso sangue. Edizione limitata, disponibili per un weekend nei grandi store di elettronica: faremo tutto esaurito.”
“Valuterò.”
Max recuperò la giacca e si congedò con un cenno, lasciò l’ufficio diretto al proprio.
Gioele rimase solo, finalmente nel silenzio; giunse le mani davanti alle labbra, inseguendo un pensiero che era lo stesso di poco prima, prima dell’interruzione forzata. Aveva seguito tutto, quella notte, ogni parola spesa, ogni piagnisteo, ogni vana speranza.
Quattro donne, quattro anime, al cospetto delle loro ultime ore di vita; quattro condannate senza processo, senza legge, senza neanche una ragione. L’anarchia di Illumina in tutto il suo splendore.
Aveva ascoltato le loro parole gonfie d’amarezza e riletto più e più volte le loro schede personali dal database, ma non aveva trovato alcuna risposta plausibile per la domanda che lo tormentava dalla sera prima.
Prese il telefono, aprì Whatsapp, scelse la chat di Max, ingombrante nell’elenco quasi quanto lui dal vivo.
Digitò la domanda, quella domanda, con dita furiose.
Perché non hanno toccato la suora?
Trema da diversi minuti, anche se loro se ne sono andate, anche se il dolore è passato: potrebbe essere scarico di tensione, di frustrazione; potrebbe essere.
Il buio è calato, ormai da un po’.
Loro hanno acceso delle fiaccole, un falò nel mezzo dello spiazzo, e se ne sono andate. Ci guardiamo, legate agli stessi pinnacoli, senza dire nulla; la paura che siano ancora lì, che aspettino un pretesto per tornare e riprendere i giochi, ci tiene zitte e immobili, a fissare a terra con sguardo rassegnato.
Rita è la prima e l’unica a prendere l’iniziativa, a rompere il silenzio quando il ragionevole dubbio che le Erinni aspettino un pretesto s’incrina sotto lo scorrere del tempo.
“Ce la fai, tesoro?” chiede guardandomi come una madre guarderebbe sua figlia, ma non la mia, o non più da tempo.
Se considero Rita la migliore tra noi, l’unica che valga qualcosa, è anche per questo: non mi ha domandato Come stai? o Come ti senti?
Perché lo sa, Rita, che potrei risponderle solo con una cazzo di parola che non vuol dire nulla. Bene? Non sto bene, proprio per niente. Male? Sto male. Non me lo dovresti neanche chiedere come sto, si vede, anche al buio, si vede.
Invece Rita no, non mi ha chiesto Come stai?
Mi ha chiesto Ce la fai?
Ce la faccio?
Annuisco appena, con l’orribile sensazione del sangue che scorre in lenti rivoli giù per il mento. Sangue, il mio sangue. Posso farcela a sopportare, alla fine sono giochi: fanno male a farli, dopo è tutta discesa.
Annuisco appena, e la piccola cascata di monili che mi hanno infitto nel labbro inferiore, uno dopo l’altro, un buco scavato a mano alla volta, si muove e spande barbagli dorati nel lucore delle fiamme.
Ho un orecchio viola tempestato di orecchini, un grande anello da vacca al naso e una pletora di collanine auree appese al labbro, tutto infilato nella carne con ferri e punteruoli da terzo mondo.
Sanguino parecchio, tra naso e labbro che sbrodolano e scolano sul mento e poi giù per il collo fino a entrare nella giacca della divisa tattica.
Il dolore, soffuso, è una cappa che prende alla testa e pulsa. Pulsa come luce intermittente.
“Ce la faccio,” mormoro, un’occhiata distratta ai chiodi, grossi chiodi da carpentiere, che le hanno martellato nelle spalle, nelle braccia, tra le costole. Rita non sembra darvi alcuna importanza, per quanto il respiro le risulti più difficile, per quanto quei chiodi la facciano assomigliare a Gesù Cristo molto più di tanti Suoi volenterosi seguaci.
“Tu sei forte, ragazza,” prosegue, e vorrei che avesse ragione. “Forse abbiamo guadagnato la notte. Non dovrebbero tornare, non fino a domattina.”
“Tornare? Ma che tornino!” Rido amara, con i denti stretti e tutta la frustrazione del mondo, “Mica hanno finito con noi, no?!”
Candy abbassa lo sguardo e singhiozza, in silenzio, Rita s’offusca.
“Non hanno finito, no,” la voce mi si fa cruda, arrabbiata, viva, nonostante il fastidio e il gonfiore al labbro, “Ne manca una!”
Non c’è risposta, solo imbarazzo: lei, lei non mi guarda neanche.
“Io solo una cosa voglio sapere,” ringhio strattonando le corde, col sangue che scola giù per il mento, “Per quale cazzo di motivo a quella non l’hanno neanche sfiorata. Per quale cazzo di motivo!”
È solo in quel momento che la suora alza lo sguardo, uno sguardo vivo, sottilmente inquieto, carico di consapevole vergogna. Mi guarda, ci guardiamo, come cagne alla catena.
“Dai, su,” Rita media con uno sforzo di umanità, “Saranno superstiziose, temono la croce.”
“Un cazzo la croce! Questa ci ha vendute, questa merda, è una loro complice. Sta con le Erinni, va a finire, per questo ci hanno prese così facilmente, c’era una di noi che le aiutava, ecco cosa!”
Lei, la suora, mi scruta con due occhi feriti ma fieri. “Cos’hai contro di me? È dall’eliporto che ce l’hai con me, cosa ti ho fatto?”
“A me? A tutte, magari. Tutte quante.”
“Sei pazza.”
“Sono pazza?!” Strattono di nuovo le corde, ignorando il dolore. “Allora diccelo: perché non ti hanno toccata, ah? Neanche un graffio, niente, e guarda noi, guardaci cazzo! Allora?”
La suora abbassa nuovamente gli occhi, vaga le iridi per un lungo attimo. “Io non lo so.”
“Non lo sai.”
“Non lo so!”
Annuisco, teatrale. “E va bene, non lo sai. E non sai neanche cosa farò domattina, sì?”
“Non lo so.”
“Domani, se ci ammazzano, io chiedo a quelle streghe fottute che tu vai per prima. Solo per il gusto di vederti mangiare dalla bestia. Ci stai? Voglio vederti mentre ti sventra e ti mastica, così sarò sicura che non stai dalla loro parte. Non ti sembra un buon test?”
Lei espira, cupa. “Fai quello che ti pare.”
“Finitela,” il tono di Rita è grave, amaro, segnato da una venatura di profonda tristezza; Candy-Kane, in sottofondo, singhiozza. “Siamo tutte sulla stessa barca. Se ci ammazzano, ci ammazzano tutte, non importa chi prima e chi dopo. Cerchiamo di vivere queste ultime ore con dignità. Dignità, capito? Noi non siamo come loro.”
Silenzio.
Vorrei piangere, vorrei urlare. Vorrei svellere queste corde solo per potermi strappare tutta la bigiotteria che mi hanno cacciato nella carne. Le odio, odio le Erinni, odio Atreja, odio aver perso a questo fottuto, orribile gioco senza neanche aver giocato.
Chiudo gli occhi per un momento col pensiero di casa, casa con tutte le sue bruttezze, che valgono comunque più di Illumina.
“Io non voglio morire,” mormoro a mezza voce, ed è la prima volta che lo dico sul serio, a cuore aperto, senza dover nascondere niente dietro la maschera del mio ruolo. Non voglio morire, no.
Rita sorride, comprensiva. “Nessuna di noi lo vuole. Siamo venute qui ognuna per le sue ragioni, ma nessuna apposta per crepare.”
“Nessuna.”
Cala il silenzio. Il crepitio del falò, delle fiaccole, riempie il vuoto notturno e i suoni distanti di Illumina. Ci sono le stelle, sopra di noi, spruzzate con tale abbondanza da non lasciare quasi spazio al blu cobalto; sarebbe un cielo sotto il quale dormire, sognare, scopare o magari star soli a guardare con la giusta dose di meraviglia.
“Ci staranno guardando?” chiedo atona, “Le telecamere.”
“Di sicuro. Siamo sempre sorvegliate, ogni momento; ho sentito dire che ciascuna concorrente ha il suo canale video dedicato, così il pubblico può seguire quella che preferisce, o fare zapping tra tutte.”
“Dedicato?” scuoto il capo, rassegnata, “Dio, nella fase di preparazione ho ricevuto così tanti messaggi da orde di bastardi allupati che staranno godendo come animali in questo momento. Ma possono sentirci?”
“Non lo so,” Rita ammette, “Credo riprendano tutto dai satelliti. Non so se c’è anche l’audio, ma può essere. Magari solo per gli account Platinum.”
“E il telefonino? Quello con cui ci hanno riprese.”
“Sempre Platinum: paga la maggiorazione e hai diritto a vedere tutti i dettagli sul campo, in diretta. È così che funziona.”
Mi vien da ridere. “C’è gente che è disposta a pagare duemila euro al mese per vedere da vicino noi che veniamo tagliuzzate e date da mangiare a quei mostri?”
“A quanto ne so ne hanno venduti un macello.”
“Che cazzo ha la gente in testa?”
“Cosa avevamo noi quando abbiamo scelto di venire quaggiù?”
Silenzio. Cerco le parole migliori per dirlo senza trovarne. “Niente da perdere, credo.”
Rita sorride amara, il capo chinato e un’ombra sul viso. “Io ho tre figli da perdere.”
Noialtre ci fissiamo per un attimo, spaesate, e il fuoco sembra sfrigolare più forte.
“Che? Tre figli?” La guardo come si guardano gli scherzi della natura, “Vivi? Normali?”
“Vivi e normali. Due maschi e una femmina.”
“Te li hanno portati via?”
“No, no,” sorride con un misto di imbarazzo e comprensione, “Niente di tutto questo. Sono a casa, che aspettano il mio ritorno. C’è Claudio con loro, mio marito. Aspetta anche lui.”
“Siete separati? Ti odia? Ti ha ricattato?”
“No, accidenti,” sorride ancora, con occhi velati di dolore, “Non c’è nulla che non va, davvero.”
“E cosa cazzo ci fai qui allora?!”
Sorride, Rita, con quella sottile forma di consapevolezza che le aleggia addosso dal primo momento che l’ho incontrata, nell’hangar. “Ho passato la vita sulle spalle di mio marito. Non ho mai lavorato. Ho speso anni viaggiando, da sola quando lui per lavoro non poteva seguirmi. Sono stata quasi ovunque nel mondo, provato ogni tipo di attività, di pratica, di emozione. Poi è arrivato qualcosa, come un senso di vuoto. Ho cominciato a pensare: adesso che il mondo è finito, cosa visiterai? Cosa farai per tenerti in vita? E sono finita qui, qui perché volevo dimostrare a me stessa che potevo fare anche questo. Potevo farcela da sola, senza i soldi di Claudio a pagare tutto, fare una cosa che fosse mia e solo mia.” Sospira, rassegnata. “Questo volevo fare. Una cosa mia e solo mia.”
Reclino la testa, attonita, la appoggio contro il pinnacolo e sbatto un paio di volte la nuca con sdegno. “Dio, Dio, hai tre figli, Cristo, una cazzo di esistenza da sogno, io non… Che cazzo avete nella testa, madonna, ti facevo una normale, una tosta, una che l’ha presa nel culo dalla vita ma era qui per… Dio, è assurdo,” scuoto la testa, occhi alle stelle, sconvolta, agitata, incredula, “Bisogna essere stupide per fare una cosa così, ma stupide proprio, Cristo d’un Dio.”
“Spiacente d’averti delusa, Mercury,” risponde lei con leggera indifferenza, “Non mi mancava niente, era solo una cosa mia. Un bisogno mio.”
“Io sono stata congedata con disonore! Mia madre ha giocato alle slot e ai botteghini tutti i miei cazzo di risparmi! Non ho un soldo, non ho una vita, ho quasi trent’anni, ho mia sorella che mi odia e non so fare altro nella vita che sparare con armi automatiche. Cristo, io pensavo di stare in mezzo alle disperate come me, peggio di me, invece… invece per voi qui è un gioco, un fottuto intrattenimento!”
“Ognuna ha le sue ragioni e tu non hai il diritto di giudicarle.”
“Ce l’ho eccome il diritto! Ci stanno per ammazzare, lo capite?! Ci faranno fare a pezzi da una bestia di dieci metri! E io ero qui per cercare di rifarmi una vita, mentre voi… voi eravate qui a giocare! A dimostrare qualcosa a voi stesse, cazzo!”
Atreja aveva ragione. Ragione, ragione da vendere. Mi basta guardarle, le altre due, per capire che non hanno un reale motivo per essere lì, solo qualcosa da dimostrare o noia da sconfiggere.
“E tu?” Rita si rivolge verso Candy col più quieto dei sorrisi, “Tu perché sei qui, tesoro?”
Lei tira su col naso, mi guarda, poi guarda lei. “Con delle amiche… una…”
Sta per dirlo. So che sta per dirlo.
Non può che essere quella parola, quella che mi ricorda mia madre più dell’infuso di girasole.
“Una scommessa…”
Sbatto di nuovo la nuca sulla pietra per diverse volte di fila, attirando lo sguardo attonito di Candy-Kane, il suo viso vira sul senso di colpa e di vergogna.
Questa merda umana è qui per scommessa, per una fottuta scommessa.
Si è addestrata ed è stata messa nella gloriosa Ondata 9 solo per una dannata scommessa.
“Sei spazzatura,” sibilo con il più rassegnato degli odi, “E se mai ce la caviamo io ti strappo gli occhi.”
“Ogni motivazione,” il tono di Rita si fa più forte, più deciso, “È sacra. Non hai il diritto di giudicarla.”
Giaccio atona, frustrata, contro il pinnacolo di pietra. Vorrei morire qui, ora, e assieme sento quel bisogno irrefrenabile di vivere, di andare avanti, di superare la notte e il giorno che verrà, e quello dopo ancora.
Vorrei non aver mai accettato di venire qui e assieme vorrei averlo fatto altre cento volte, solo lottando per un finale diverso. Per avere la mia occasione.
Non mi interessano le motivazioni della suora, la ex suora, che non saranno mai migliori di quelle delle altre; m’importa solo che il nostro tempo corre e vola, e non c’è modo di fermarlo.
***
“Buongiorno, buongiorno,” Max Tambori entrò in ufficio con addosso la soddisfazione che solo le ottime notizie potevano dare; scaricò sul tavolo della sala comune un vassoio colmo di brioches da pasticceria ridendo degli sguardi perplessi di segretarie e collaboratori. “Grande nottata, questa,” recitò senza riuscire a smettere di sorridere, “Grande nottata,” prima di fiondarsi verso l’ufficio di Gioele con il giornale nella mano.
Lui attendeva seduto alla scrivania, atono ma col pallore del viso che tradiva un certo latente compiacimento, e lo sguardo rivolto allo schermo ultra-slim del pc.
“Guarda qui,” esordì Max senza neppure togliersi la giacca, il quotidiano brandito con ambo le mani, come i Comandamenti. La prima pagina splendeva di una foto di folla e d’un titolo imperativo: Risparmiatele.
“Ieri notte, all’una, qualcuno ha organizzato in piazza un sit-in in solidarietà di quelle quattro disgraziate, e sai perché? Perché c’era un fottio di gente collegata al confessionale. Hanno sentito le loro chiacchiere lamentose, la storia dei figli: l’hai sentita la faccenda dei tre figli, no? Hai avuto una grande idea, sì. L’abbiamo sfruttato poco il confessionale nelle Ondate scorse, abbiamo fatto parlare poco le poveracce che stavano per morire, invece la gente va matta per queste cose, adora sentire le lamentele pre-morte quasi quanto guardare le uccisioni in diretta. E quelle quattro sono andate avanti parecchio, e sono spaventate, la combinazione perfetta per smuovere le acque.”
Max scosse il capo, gettando il giornale sulla scrivania di lui, si tolse la giacca ora che l’enfasi del discorso gli stava facendo salire la calura.
“Stamattina alle otto ne hanno fatto un altro sempre in piazza, e prova a indovinare? Sì! Sono arrivati quelli di Eleuteria che hanno cominciato ad attaccare coi soliti slogan, Vi impietosite per delle volontarie e non per i disperati che arrivano dal mare. Le solite cose. Ma c’era la tv e quindi, bum, abbiamo di nuovo rubato la scena, per non parlare della petizione! Stanno raccogliendo firme, senti questa, senti, per mandare una richiesta ufficiale alle Erinni,” esibì i palmi e si mise in una posa da teatrante, “Affinché grazino le bellezze dell’Ondata 9.”
Rise da solo, divertito, di fronte all’espressione atona di Gioele Palazzese.
“Io non so cosa è successo, Giò, ma queste quattro stanno salvando tutto. Io fossi in te un pensiero lo farei, a tenercele buone dico, a dar loro,” fece una pausa d’effetto, “Una seconda possibilità.”
Gioele inarcò appena le sopracciglia. “Non si interferisce con Illumina. Le regole…”
“…sono regole, lo so, lo so. Eh, allora niente, speriamo che il pubblico non prenda male la fine di quelle poveracce. Che ore sono? Le nove. Manca poco, giusto? Nove e mezza inizia lo show, le terminano oggi, sì?”
“Pare di sì.”
“Hanno già scelto la bestia? Le danno all’Onyx?”
“Non ne ho idea.”
“Eh, peccato, peccato,” Max affondò le mani nelle tasche, ciondolò sulle gambe, “Certo se si potesse riutilizzare queste quattro stronze, almeno solo per un altro po’, il network ne guadagnerebbe.” Ancora una pausa. “Proprio no a fare una telefonata, no? Concordare un rilascio o due, magari, magari ecco! Ci pensavo proprio stanotte, simulare una fuga, giocare un po’ alla caccia all’uomo, anzi alla donna… Sai come s’infervora il pubblico?”
L’espressione attenta pure impassibile di Gioele gli disse che non c’erano possibilità d’infrangere il protocollo.
“D’accordo, d’accordo,” sospirò alzando le spalle, “Niente interferenze. Peccato, peccato davvero. Niente, allora vado a prendere i popcorn e mi metto davanti al pc: odio i tagliuzzamenti ma le fighe mangiate vive non me le perdo per nulla al mondo. Ci vediamo dopo. Ho da sottoporti un paio di idee, delle magliette, ti piaceranno: ci stampiamo sopra le quattro facce delle moriture, tipo Che Guevara, e ci scriviamo MARTIRI a caratteri rosso sangue. Edizione limitata, disponibili per un weekend nei grandi store di elettronica: faremo tutto esaurito.”
“Valuterò.”
Max recuperò la giacca e si congedò con un cenno, lasciò l’ufficio diretto al proprio.
Gioele rimase solo, finalmente nel silenzio; giunse le mani davanti alle labbra, inseguendo un pensiero che era lo stesso di poco prima, prima dell’interruzione forzata. Aveva seguito tutto, quella notte, ogni parola spesa, ogni piagnisteo, ogni vana speranza.
Quattro donne, quattro anime, al cospetto delle loro ultime ore di vita; quattro condannate senza processo, senza legge, senza neanche una ragione. L’anarchia di Illumina in tutto il suo splendore.
Aveva ascoltato le loro parole gonfie d’amarezza e riletto più e più volte le loro schede personali dal database, ma non aveva trovato alcuna risposta plausibile per la domanda che lo tormentava dalla sera prima.
Prese il telefono, aprì Whatsapp, scelse la chat di Max, ingombrante nell’elenco quasi quanto lui dal vivo.
Digitò la domanda, quella domanda, con dita furiose.
Perché non hanno toccato la suora?
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