***
Capitolo 3
Mi sveglio di soprassalto con la sensazione improvvisa di cadere.
Cadere.
Tuffo al cuore.
Mi reggo d’istinto: i residui della notte scorrono via sulla pelle in un lungo, intenso momento di luce.
Il sole rischiara il palmeto e la spiaggia brilla d’un colore dorato; sbatto le palpebre per abituare lo sguardo al candore del giorno. Mia madre dice che, appena sveglia, sembro ancora più incazzata del solito: affatto vero.
Non so come sono riuscita a dormire su una palma, forse la stanchezza, forse le paure. Il buio. Forse a un certo punto sono crollata e basta. Non ricordo.
“Buongiorno.”
Radiosa se ne sta seduta lì dove l’ho lasciata ieri sera, sull’albero dirimpetto, con la chioma poggiata contro il tronco e un certo sorriso sereno e rilassato, come fossimo in vacanza. Mi sale già il fastidio.
“Buongiorno un cazzo.”
“Io mi sento riposata.”
Io non ho ancora deciso; studio le sensazioni fisiche, impreco, aggiusto la posizione, stropiccio gli occhi, fisso il vuoto. La mia bocca deve avere gli angoli ancora più in basso del solito.
“Posso,” lei si fa seria di colpo, occhieggia intorno a disagio, “Farti una domanda intima?”
Mi risale il fastidio.
Domanda.
Intima.
Io già detesto le domande, quelle intime mi danno l’orticaria; iniziare la giornata con una domanda intima fatta da quell’anomalia di donna, di ragazza, è come un assalto di prurito. Disfo e ricompongo la coda dei capelli.
“Se proprio devi.”
“Ma tu,” arrossisce, “Hai fatto pipì da quando siamo qui?”
Vuoto. Storco le labbra, sbatto le palpebre, studio la situazione e ripercorro a flash i due giorni che abbiamo trascorso in Illumina e che sembrano, adesso, volati via in un batter d’occhio.
“Mi sa di no, sai?”
“Eh, neanche io.”
Non ha senso, in effetti. Ricordo di aver avuto lo stimolo, nel bunker, ma poi più niente. Dovrei avere una vescica che scoppia, invece nulla, sto bene, nessun fastidio, nessun problema. Forse perché non abbiamo mangiato e bevuto quasi niente.
Flash.
Non abbiamo mangiato e bevuto quasi niente.
Ora che ci penso non ho fame né sete. Non ricordo cosa ho mangiato l’ultima volta né dove. Una barretta prima di salire in elicottero, forse. Due giorni fa. Due giorni che non mangiamo e quasi non beviamo e non ne sento in alcun modo il bisogno.
Possibile?
“Magari tutte le emozioni forti hanno eliminato fame e sete,” azzarda lei, “Poi torneranno, spero.”
“Sì ma non è possibile stare due giorni senza pisciare. Ti scoppia tutto!”
“Però io non sento il bisogno.”
“Eh, neanche io, ma non è detto che sia una cosa positiva.”
“E allora che facciamo?”
“Niente, che facciamo? Ci tornerà, spero.”
Annuisce e tace.
Rimango a contemplare la distesa nuda delle mie gambe, collegando in colpevole ritardo i ricordi di ieri sera e la stupida tenuta succinta che mi hanno mandato; se era imbarazzante al buio, in piena luce l’effetto è triplicato.
Guardo in cielo, oltre le fronde del palmeto, con la consapevolezza che il mondo, oltre il mare, ci sta guardando, ci guarda ogni momento. Magari adesso no, magari è troppo presto. Che ore saranno in Italia?
Magari dormono tutti, tanto chi perderebbe il sonno per vedere due cretine sedute su un albero?
“Ohi,” rompo gli indugi, spezzo l’impasse, la stasi nella quale ci siamo confinate, “Abbiamo da fare stamattina.”
“Che cosa?”
“Se dobbiamo sopravvivere in qualche modo ci serve, primo, un rifugio sicuro; secondo, un fottuto piano. Cominciamo a cercare un rifugio, una grotta, un posto sopraelevato. Abbiamo la giornata, se non ci riusciamo dovremo fare un’altra notte su queste merde di palme. Ricevuto?”
Radiosa sorride, energica, felice che io abbia ripreso l’iniziativa.
“E sia chiara una cosa,” aggiungo, “Comando IO. Tu fai quello che dico IO. Niente intuizioni, niente improvvisazioni, niente di niente.”
“Comandi tu,” fa lei aprendo le mani in segno di resa.
“Se incontriamo un’altra vecchia che non mi piace e decido di spaccarle la testa tu non fiati, non apri bocca, non voglio sentire un se, un ma, niente. È chiaro?”
“È chiaro.”
“Magnifico.”
Butto uno sguardo di sotto, al sottobosco e alla sabbia, dove il nuovo giorno si riflette sul verde delle frasche e sull’oro della spiaggia: è tutto un fottuto paradiso quando c’è il sole. Scendo dalla palma un movimento alla volta, senza fretta, coi muscoli ancora intorpiditi; Lucilla fa lo stesso pochi secondi dopo. Ha una buona agilità per aver vissuto diciassette anni dentro un convento, cose che un ordinario addestramento non possono insegnarti se non ci sei portata.
A terra ci sono decine e decine di impronte grosse quanto una mano, impronte come quelle dei piccioni, segno che i bastardissimi parlanti ci sono stati davvero, stanotte, non ce li siamo sognati.
Avrei preferito.
Raccogliamo le nostre poche cose, i mini zaini dentro i quali possiamo farci stare tutto e avanza ancora spazio: gli asciugamani che abbiamo lasciato ad asciugare da ieri sera, le barrette, l’acqua, i telefoni. Sono tutto ciò che abbiamo.
Guardo Radiosa ficcarsi la spada nel fodero a tracolla e lo zaino in spalle: tra l’ombelico di fuori, le gambe lucide e metà del culo che le spunta dagli shorts di jeans sembra veramente tutto fuorché una sopravvissuta, una che ha visto la morte in faccia, una che non ha niente da perdere e che sta per affrontare Illumina e le sue fottute creature, umane e non umane.
Lo stesso vale per me, anche se il mio, di culo, è un po’ più coperto in questa presa in giro di calzoncini tattici verde oliva. Allaccio il cinturone e aggiusto il coltello nel fodero: è l’unica arma che possiedo, è tutto ciò che mi separa dal peggio.
Mi vien da piangere se ci penso.
Invece che guerriere sembriamo due escursioniste, sempre e comunque nel contesto di un pessimo porno.
“Allora,” cerco di fare il punto mentre il rumore del mare e lo stridio dei volatili fanno sembrare tutto ancora più banale, “Dobbiamo andare in alto. Via dal bosco, via dalla portata delle cose grandi, di quelle piccole, di quelle che parlano e di quelle che urlano. Via da tutto.”
“Chiarissimo.”
La odio, ma è l’unica sulla quale possa contare, l’unica cosa non ostile in questo dannato posto.
Vorrei portare con noi anche la cassetta dei rifornimenti vuota, perché alla fine può servire, tutto può servire, ma ci rallenterebbe.
Ci avviamo nel palmeto con la consueta impressione di quiete, di tranquillità, che è solo una maschera per gli orrori di questo posto. Può succederci qualunque cosa in qualsiasi momento, ed è questo a rendere Illumina così terribile.
Non sai cosa può arrivare.
Non sai dove puoi andare.
Non sai.
Il sole scalda e tutto sembra magnifico.
***
Frammento 5 – Intervista a Sigrid Montego, concorrente Ondata 9
“Premetto col dirti,” l’applauso di rito del pubblico interrompe Nadia che, con un umettare di labbra, attende lo scemare delle percussioni, “Che in molti hanno osteggiato la tua presenza qui stasera, ma noi ti abbiamo voluta lo stesso: benvenuta Sigrid Montego, ragazza prodigio della Altaria bene, studentessa modello, sportiva e, possiamo dirlo? Diciamolo: la più giovane partecipante a Superpredatori che finora sia stata scritturata.”
Sigrid sorride, il viso ovale le si illumina di un bagliore freddo, nordico, ammaliante quanto gli occhi di un grigio-azzurro invernale. I capelli, lisci, biondi e lunghi a metà schiena, sembrano splendere nella luce calda dello studio. “Grazie.”
L’applauso del pubblico è smorzato da una sottile forma di contemplazione.
“Dico osteggiato perché, pur avendo tu neanche vent’anni, sei già una delle persone più invise di tutta la città. Almeno, questo si deduce dai tuoi social network, ma correggimi se sbaglio.”
Sigrid sorride ancora, abbassa il capo, sembra a disagio ma è solo un espediente da attrice consumata. “Tutto corretto: non sono molto simpatica.”
“Ma non t’importa.”
Fa spallucce con un gesto talmente rilassato, glaciale, da apparire artistico. “Se dovessi dar retta a tutto l’astio che c’è sui social non avrei una vita e non uscirei dalla mia camera da letto.”
“Invece tu di uscite ne fai tante, e anche molto lontano. Uno dei motivi per i quali sei particolarmente contestata dalla rete, già prima di iscriverti al reality, è che tu sei,” Nadia sbigottisce in maniera volutamente esagerata, “Appassionata di caccia.”
“Confermo.”
“Ma come si spiega la passione per la caccia di una ragazza neanche ventenne? Oltretutto, tu non vai a caccia di cinghiali, lepri e caprioli, tu partecipi a battute di caccia in Africa con animali esotici.”
Sigrid sorride, sbatte una volta le palpebre dalle ciglia curate. “È più stimolante.”
“Sulle tue pagine social ci sono foto che ti ritraggono accanto ai cadaveri di zebre, orici, antilopi e altri ancora. Ma è permesso uccidere questi animali?”
Lei si rianima leggermente, aggiusta le spalle esili, accavalla le gambe dentro lussuosi jeans grigi brillantinati. “Allora, io voglio precisare che sono state dette cose non vere sul conto dei miei safari in Africa. Non ho mai, e dico mai, abbattuto animali protetti dalla legge: ho cacciato solo bestie nei limiti consentiti e in accordo con le autorità locali, come molti altri occidentali fanno per diletto e in maniera del tutto legale. La differenza è che io sono donna e ho una vita social, cosa che permette ai frustrati e le frustrate di tutta Italia di prendersela con me pubblicamente.”
“Perché essere donna sarebbe una differenza?”
“Perché è così: se sei una donna ci vanno più pesante, di solito. E gli animalisti sanno essere molto offensivi.”
Sorride. Il pubblico si profonde in un mezzo applauso indeciso.
“Per un certo periodo ha girato in rete una tua foto in posa accanto a un leone ucciso, però.”
“Era un falso. Non ho mai abbattuto alcun felino.”
“Qui torniamo alla domanda iniziale: come fa una ragazza di vent’anni ad appassionarsi alla caccia?”
Sigrid liscia i capelli in un gesto studiato. “Mi ha sempre affascinato l’idea di mettermi alla prova con uno sport così difficile; tutti si concentrano sul fatto che nella caccia un animale muoia, ma nessuno pensa al fatto che la caccia è prima di tutto un test d’abilità, di riflessi, di resistenza, di pazienza. Spedire un proiettile lì dove stai mirando è un calcolo matematico dove il vento, l’altezza e l’inclinazione sono solo alcune delle variabili da considerare, nonché l’ultima parte di un appostamento, e a volte un inseguimento, che può durare ore se non giorni. Un cacciatore è un atleta a tutti gli effetti e merita la dignità di qualsiasi altro sportivo.”
Applauso non convinto.
“Ma il fatto che un animale venga ucciso avrà il suo peso, o no?”
“Solo per chi ha una mentalità ristretta. Guardi, io amo gli animali. Ho quattro cani, molti pesci e due tartarughe: uccidere un animale fa parte delle cose del mondo. L’importante, e su questo mi sono battuta più volte anche presso le apposite associazioni, è che non si arrechino inutili e sadiche sofferenze.”
Altro applauso non coeso.
“Ciononostante, la rete non ti perdona questo sport.”
“La rete è libera di pensare ciò che crede come io sono libera di praticare le attività che voglio, sempre nel rispetto delle leggi.”
“L’idea di partecipare a questo show può essere considerata un’evoluzione del tuo sport preferito?”
Le labbra ovali di Sigrid si rilassano in una sorta di sorriso posato, freddo. “Ammetto che l’idea di cacciare un essere umano mi ammalia e affascina.”
Silenzio in studio.
“Naturalmente perché è tutto consensuale, sì?”
“Naturalmente.”
“Non ti senti un po’… disumana nel fare un’affermazione di questo tenore?”
“Veramente no. Sa quanta gente, avendone la possibilità, darebbe la caccia a un altro essere umano?”
“Forse al mondo ci sono molte persone disumane.”
“O forse dovremmo ridefinire il concetto di cosa sia veramente umano.”
“Puoi spiegarti?”
“Volentieri. Abbiamo preso a definire come umana qualsiasi attitudine positiva, la comprensione, la pietà, il rispetto, come se queste fossero le vere caratteristiche dell’essere umano. Come si può ignorare che tutte queste qualità fanno invece parte di una ristretta minoranza di persone e che l’odio, la violenza, l’invidia e la malevolenza sono invece quelle più diffuse? Perché definire umane cose che sono solo in minima parte nella natura umana? Non dobbiamo vergognarci dei nostri istinti, dobbiamo saperli convogliare nella direzione migliore per tutti.”
Nadia cambia posizione, a disagio. “Faccio fatica a condividere posizioni così estremiste. Ma, d’altra parte, non sei nuova a esternazioni controverse che ti hanno attirato ulteriore antipatia via social.”
“Non amo le ipocrisie: se penso in un modo non vedo perché dovrei nasconderlo. Per avere qualche follower in più? No, grazie. C’è chi mi apprezza per questo.”
“Non lo metto in dubbio. Come quando hai scritto… posso citarti testualmente?”
“Prego.”
Nadia controlla la cartellina poggiata lì accanto con gesto teatrale, legge brevemente su un foglio, “Ci saranno intere aree delle nostre città che verranno perse e degradate se continueremo a permettere a questa immondizia umana di invadere il nostro Paese.”
“Essere contro l’immissione sregolata di stranieri è indice di senso civico.”
“Definire immondizia umana delle persone che hanno la pelle di un colore diverso è qualcosa di grave, non trovi?”
“Ho definito immondizia umana delle persone che vengono da un altro Paese e che hanno una cultura diversa, a prescindere dal colore della loro pelle.”
“Quindi definiresti immondizia umana anche un cittadino britannico che viene a risiedere in Italia?”
“Se fosse un nullatenente aggressivo, sporco e pericoloso, sì, senza dubbio.”
“Tu conosci uno per uno tutte le migliaia di disperati che sbarcano dal mare per sapere che sono sporchi e aggressivi?”
“Lei li conosce uno per uno per sapere che non lo sono?”
Respiro infastidito.
“Come spieghi che l’anno scorso sei stata fotografata nel fare il saluto nazista appena fuori Auschwitz?”
“Stavo salutando delle persone. La foto è stata fraintesa.”
“A molti non è sembrato. Hai ricevuto l’apprezzamento di parecchi simpatizzanti neofascisti e anche una tessera onoraria di Sogno Cremisi, partito di estrema destra che, come sai, ha trovato insperata fortuna alle ultime elezioni.”
“Tessera che ho rifiutato perché non sono interessata alla politica.”
“Non ti infastidisce quindi l’elogio di queste persone?”
“Non mi infastidiscono gli elogi. Ha dimenticato una cosa importante finora: quella foto, come quella del leone e molte altre, vere o finte che fossero, mi sono costate molti più insulti che elogi. Mi è stato augurato il cancro innumerevoli volte. A casa di mio padre hanno recapitato più d’una busta con un proiettile, e io stessa ho ricevuto via social svariate minacce di morte. Posso citarne una a titolo d’esempio?”
Sigrid toglie di tasca un biglietto e lo esibisce tra due dita con gesto plateale.
Il pubblico è avvolto in un silenzio carico di fermento. Nadia getta un’occhiata verso la regia, alla ricerca d’una conferma per quel che appare come un fuori programma. Riceve un assenso.
“Siamo tutt’orecchi.”
Sigrid sorride appena, nel suo modo alieno e distaccato. Apre il foglietto tra le dita snelle, ravvia il biondo dorato dei capelli. Schiarisce la voce con gesto teatrale.
“Quelli come te, ricchi razzisti che affamano il popolo, dovrebbero essere appesi in piazza. Fa’ attenzione perché un giorno la pacchia finirà, e spero di poter essere proprio io a tagliarti la gola. Ti piscerò addosso mentre ti guardo morire.”
Silenzio.
Nadia ha un gesto conciliante per spezzare l’impasse. “In rete c’è di tutto.”
“Trova che discriminare un essere umano per il suo reddito sia meno grave che per la sua provenienza geografica?”
“Certo che no, anche se qui non c’è discriminazione, al massimo diffamazione.”
“Ne è sicura? Devo rileggerla?”
“Per carità.”
“Forse trova che discriminare un essere umano per le sue idee o la sua cultura sia meno grave che per la sua provenienza?”
“Hai denunciato questa persona?”
“Non ho mai denunciato nessuno. Credo nella libertà di espressione e questa,” esibisce il foglietto con gesto soave, “È libertà d’espressione tanto quanto la mia.”
Mugugni del pubblico.
“E non hai paura delle minacce che hai ricevuto?”
“Come ho detto all’inizio, se avessi paura non uscirei più di casa. Invece non solo esco, non solo pretendo che la guardia del corpo mi stia a debita distanza, ma ora mi sono iscritta a Superpredatori, con buona pace di chi mi ha più volte sfidata a farlo. Le minacce che ricevo provengono sempre da leoni da tastiera che non avrebbero il coraggio di uscire la sera da soli, figurarsi rischiare la vita per ciò in cui credono.”
“La tua famiglia come l’ha presa? Sei pur sempre una Montego.”
“Alla fine hanno accettato la mia decisione.”
Nadia respira a fondo, un modo per stemperare la tensione.
“Ho notato una certa somiglianza tra alcuni dei discorsi che hai trattato questa sera e la controversa filosofia di Atreja, che molte volte ha esternato, nei mesi scorsi, specie durante le folli esecuzioni che ha messo in piazza.”
Sigrid sbatte le palpebre con aria compassata. “Atreja è una donna che rispetto molto e per la quale non ho mai nascosto la mia ammirazione. Condivido buona parte del suo pensiero.”
“Non ti turba l’idea di doverla affrontare?”
“Affatto, anzi, sono orgogliosa di poterle dare la caccia.”
“A proposito di dare la caccia,” Nadia si volta verso la regia, “Mi dicono che abbiamo qui un fucile del tipo che usi abitualmente, anzi, il fucile che porterai con te sulle isole. Giuriamo che è scarico.”
Un assistente calvo si avventura in scena reggendo una moderna carabina da caccia rivestita in carbonio, la consegna alla ragazza; Sigrid ringrazia con un sorriso mellifluo, maneggia l’arma, la controlla con sguardo clinico. L’assistente si allontana.
“Quindi in Illumina porterai questo arnese qui.” Nadia occhieggia dubbiosa sulla silhouette dell’arma.
“Sì,” sorride lei, a suo agio con il Sako tra le mani, “Questo arnese qui.”
“Puoi farci vedere come si… insomma, come faresti se…”
Lei si alza con calma studiata, il suo fisico snello esaltato dagli abiti aderenti, jeans e maglietta che dissimulano il loro reale valore economico, così gli stivaletti corti di pelle. Si appoggia il calcio del fucile sulla spalla con un gesto quasi sensuale, prima di mettersi in una posizione di tiro volutamente accentuata, statuaria, che fa mormorare il pubblico di ammirazione mista a timore.
Qualche applauso rompe il silenzio.
Nadia annuisce fingendo impressione. “Non temete, è scarico,” scandisce verso la platea con tono sottilmente polemico. Sigrid appare persa, per un singolo attimo, dietro qualsiasi punto immaginario stia fissando nella lente del mirino.
Ritorna con un espirare leggiadro e un sorriso assieme gelido e ammaliante, abbassando l’arma e tenendola lungo il fianco.
“Impressionante,” commenta Nadia con un certo fastidio. “Povere allora le Erinni che staranno dall’altra parte di quel mirino.”
“Io,” la voce di Sigrid si fa di un tono più fredda, tagliente, “Ucciderò Atreja con quest’arma qui. È una sfida personale, un impegno che prendo davanti a tutti”. Bacia il calcio con lenta enfasi. “E farò un selfie accanto al suo cadavere.”
Il pubblico accenna un applauso insicuro, indeciso, diviso tra questioni etiche e istintiva ammirazione.
Sigrid Montego ringrazia con un cenno e strizza un occhio, mentre il suo algido sorriso si allarga come un bianco e ipnotico miraggio.
***
“Pausa.”
Radiosa si ferma a ridosso di un tronco caduto e coperto di muschio; toglie lo zaino di spalla e siede platealmente.
Camminiamo da qualche ora. Per quanto la ragazza abbia delle gambe toniche probabilmente non ha il fiato per andare avanti più a lungo: chiaro, mica potevano darmi delle compagne di squadra alla mia altezza, no, troppo impegnativo.
Quando mi hanno fatto il provino, quando mi hanno confermato l’iscrizione, m’avevano detto che ero stata inserita nell’Ondata 9. Donne con gli attributi, forse la migliore Ondata che fosse mai stata messa in piedi.
Siete le prescelte per abbattere le Erinni e mettere fine al loro dominio su Illumina: così avevano detto, testuali parole.
Mi sono gasata, chiaro, chi non lo avrebbe fatto al mio posto? Migliore Ondata, prescelte; mi aspettavo il top: forze speciali, esercito, marina, contractor, donne che avessero esperienza con le armi, la fatica, le privazioni. Pensavo di dover sgomitare per riuscire a mettermi in mostra in mezzo a tanto talento.
Invece no.
Stando al bollettino avrei avuto a fianco un’esploratrice di professione, una tiratrice scelta, una galeotta, sì, una fottuta galeotta, e altre cose del genere. E una fanatica religiosa. Una suora. Una ex suora.
Lì ho cominciato a capire che c’era qualcosa che non andava, ma credevo fosse parte dello show, un fare atmosfera, creare personaggi.
Non avevo idea che mi avrebbero affiancato delle perfette idiote, gente presa dalla strada o dalle loro ricche vite agiate e buttate lì, dopo un addestramento di qualche mese, con la missione di uccidere le Erinni.
Follia.
Anzi no, calcolo. Ci hanno usate come carne da spettacolo, ma dopotutto è giusto così. Nessuno ci ha promesso vittorie facili, nessuno ha garantito niente: sconfiggete le Erinni e alla fine del gioco avrete il più grosso assegno della vostra vita.
Facile.
Lineare.
Non avevo neanche mai visto lo show prima di entrarci, mai, solo qualche video su YouTube, roba registrata dalla diretta. Sembravano immagini talmente finte che avrei giurato fossero cinematografia pura e semplice. Bestie che si immergono nel fogliame, grida disperate, donne avvinghiate in una lotta all’arma bianca. C’era anche un video incredibile con una ragazza armata di tutto punto che corre, corre fuori dagli alberi, grida un avvertimento a chiunque la stia riprendendo e poi, poi viene presa da qualcosa, qualcosa di grosso e infuriato, che la trascina nel bosco urlante e si sentono solo più le grida e il fuggi fuggi delle sue compagne.
Una scena da film.
Scena.
Da.
Film.
Tutto finto. Terribilmente finto. Quando mi sono iscritta pensavo non ci fosse niente di vero, pensavo di dover recitare; ma anche se dovevo fare sul serio andava bene: sparare a qualcuno, che sarà mai?
E le bestie, d’accordo, le bestie esistono, sono reali, ma quasi sicuramente sono dei robot. Isole piene di animali preistorici? Dove? Nel Pacifico? Nell’Atlantico?
Già che non ti dicono dove siamo, che non ci sono coordinate: è tutto finto. Per forza.
Solo non riesco a capire come, in che modo. Magari un giorno ce lo spiegheranno.
Quando il gioco finirà ci chiameranno, ci diranno andate nel punto lì, e saranno tutti ad attenderci; le telecamere, il rinfresco, spareranno una doccia di coriandoli, ci applaudiranno e Brave, mongoloidi, era tutto un film! Effetti speciali pazzeschi! E voi siete sopravvissute, applausi alle campionesse!
Ci saranno tutti, anche Rita. Viva e in salute. Mi farò spiegare dov’era il trucco, come sono riusciti a far sembrare che quel mostro l’abbia fatta a pezzi; Dio, ci va talento a fare una recita del genere. Anche le grida, davvero realistiche.
Atreja invece la pesterò a sangue. Per avermi umiliata, denudata e tutto il resto. Solo perché sappia che porto rancore. Parecchio rancore, di solito per molto meno.
“Continuo a non avere fame e non dover fare pipì,” Radiosa ravvia i capelli in un gesto morbido, “Non è normale.”
Vero. Anche io non ho fame né devo pisciare.
Niente.
“Sarà il cambio di clima, di latitudine.”
Mai successo, neanche in Iraq o in Afghanistan. Siedo anche io sul tronco.
La guardo tirar fuori dallo zainetto lo smartphone, quello che ci hanno dato nel kit, accenderlo, controllare le pochissime icone disponibili.
“Tu hai idea di dove siamo?”
Scuoto il capo. “Solo vagamente.”
Sullo schermo compare la mappatura dell’isola. Sono tre isole, tre agglomerati di terra poco distanti l’uno dall’altro, che compongono l’arcipelago di Illumina: Galena è l’isola principale, la nostra. Le altre due sono inesplorate, per ora, o questa è la versione ufficiale.
Galena è un nome del cazzo. Mi ricorda dove avrei potuto finire se l’Esercito non ci avesse messo una buona parola: galera, carcere, infamia, disonore, tutto per essermi difesa. Regole d’ingaggio un cazzo.
Odio l’Afghanistan, tutto intero, vorrei lo facessero sparire con una bomba all’idrogeno.
“Che bello,” Lucilla sorride come una demente contemplando la piccola mappa che, nello schermo, si sposta seguendo il suo tocco.
Galena ha grossomodo la forma di una mezzaluna obesa e appiattita, con un contorno frastagliato e un intenso colore verde dalle molte sfumature che termina nel candore aureo delle sue spiagge. La mappa dell’isola è una delle poche cose sulle quali mi sono sprecata a studiare prima della partenza; volevo avere le idee chiare, non essere impreparata. Volevo vincere, come tutte, ma io di più.
Volevo essere un esempio. Dimostrare che so fare il mio lavoro. Che sono un buon soldato.
Volevo.
L’indicatore di posizione oscilla per un momento poi si ferma da qualche parte lungo la costa sul lato est della laguna, grossomodo dove immaginavo di essere.
“Stiamo scendendo,” le spiego controvoglia, “Restiamo sulla costa per non andare nella foresta più densa, ma voglio allontanarmi da qui,” punto il dito sulla massa grigia e beige che sono le alture e i canyon del Massiccio d’Orca, che è poi il dannato posto dove stavamo per diventare mangime per sauri e dove le Erinni hanno più di un covo.
“Lontane da qui, capito,” risponde come volesse davvero imparare qualcosa.
Ingrandisco la nostra zona cercando quei punti dove il colore della mappa, in moderna computer-grafica, suggerisce la presenza di piccoli rilievi. “Dobbiamo trovare qualcosa di sicuro da queste parti, in alto, tra le rocce, come fanno loro. È l’unico modo per sopravvivere.”
Il telefono ha una leggera vibrazione nelle sue mani; l’icona di un messaggio appare in alto a sinistra del display. La guardo accigliarsi, poi togliere la schermata della mappa, aprire la piccola busta.
Ore 12:00 invio videomessaggio pubblico obbligatorio, contenuto libero.
QG Superpredatori.
“Che significa?”
“L’avevano detto,” Lucilla increspa le labbra, “A volte occorre mandare dei videomessaggi al pubblico, per salutare, dire le proprie impressioni, cose così.”
“Ma perché obbligatori?”
“Eh, non so, ma di sicuro è nel contratto. Lo faranno per imitare gli altri reality.”
Fastidio. Guardo l’ora segnata dal dispositivo: undici e trenta. “Beh, fallo tu, io non ho voglia di perdere tempo con queste cagate.”
“Dobbiamo esserci entrambe, figurati se posso farlo solo io!”
Ancora fastidio.
“E cosa dovremmo dire in questo fottuto messaggio?”
“Ma non lo so, inventiamo qualcosa.”
Sbuffo.
Stupido reality.
Stupide cose da reality.
Qua si rischia la vita e loro pensano ai videomessaggi.
Maledetti.
Stramaledetti.
Sarà meglio per loro che sia tutto una recita, tutto finto, perché sennò io faccio una strage.
“Alzati. Camminiamo ancora una mezzora poi manderemo questo fottuto messaggio.”
Ubbidisce controvoglia.
“Se non troviamo nessun rifugio?”
“Io mi affogo in mare. Tu fa’ cosa vuoi.”
***