***
Siamo scese alla spiaggia e lì attendiamo, guardando il mare, che succeda qualcosa.
Dall’altra parte della distesa azzurra c’è casa, il mondo di prima, quello che ci siamo lasciate alle spalle, per scelta o necessità. C’è una realtà di cui ero stanca, che speravo di non rivedere e che ora mi manca, mi manca al punto d’aver paura di non poterci tornare.
Mi manca mia madre, le espressioni odiose di mia sorella.
Mi manca tutto, persino la vita che non avevo, un lavoro, i risparmi bruciati in gioco d’azzardo, i miei ventotto anni senza neppure l’ombra di una famiglia mia. Una casa mia. Una storia mia, una fatta di quel che sono fatte le vite ordinarie, giorno dopo giorno, fino a diventare vecchie e rincoglionite.
Mi sono ripetuta centinaia di volte che è tardi, che devo trovare la mia strada, e altrettante volte ho solo chiuso gli occhi e pensato vada come vada.
Un giorno mi guarderò indietro e penserò È andata così.
Lo diciamo tutte, alla fine.
È andata così.
Lo diciamo sempre.
È andata così.
Il rumore di un veicolo in avvicinamento ci fa guardare l’una con l’altra e poi verso la parte più lontana della spiaggia: un pick-up Mitsubishi verde smeraldo caracolla verso di noi sulla sabbia, si avvicina fino a fermarsi a pochi metri, a ridosso delle rocce. Sulle portiere ha il logo rosso di Superpredatori, la donna raccolta a creare la forma di un occhio.
Ne scende l’unica occupante, una ragazza sulla trentina, curvy, dal viso tondo, i capelli lisci e castani, un paio d’occhiali dalla montatura rosso corallo. Una Reflex appesa al collo.
Saluta con voce stridula, richiude la portiera due volte perché alla prima non c’è riuscita, si avvicina con passo tutt’altro che disinvolto e ridendo come fosse sbronza.
“Cloe!” si presenta stringendo mani a caso e con foga infantile, “Ragazze, non avete idea di quanto sono felice di conoscervi dal vero!”
Quando si pianta davanti a me ha un attimo d’esitazione, un entusiasmo febbrile che straborda da ogni poro. “Mercury,” mormora con voce stridula, da sit-com, “Oddio, Mercury, sei davvero tu?”
Alzo le sopracciglia, in imbarazzo, non so bene come rispondere alla domanda ma in realtà non occorre: caccia un sorriso smagliante e spalanca le braccia. “Posso… Posso abbracciarti?”
Gesù.
“Fai te, sono un po’ lercia, se la cosa non…”
“Oddio, grazie, ci tenevo.” M’abbraccia in una stretta orsina, che contraccambio con giusto la punta delle dita. “Sei straordinaria, io lo dicevo fin dall’inizio. Tu salverai questo show.”
Si stacca e mi riassetta con un paio di tocchi, come fossi un soprammobile. “Beh, grazie.”
“Io faccio il tifo per voi, ragazze: togliete di mezzo le Erinni, vi scongiuro. Mi danno il voltastomaco, ma proprio le odio, non le posso vedere, e poi…”
La interrompo con un agitare della mano, accenno verso il suo pick-up. “Scusa: tu da dove,” sto realizzando un istante alla volta la scena priva di senso che è appena avvenuta sotto i nostri occhi, “Da dove arrivi, esattamente?”
“Oh,” ride, “Dal QG.”
“No, aspetta, riformulo. Tu sei apparsa dal nulla su un pick-up: da dove arrivi, esattamente?”
“Dal QG.”
Scuoto le mani e la testa per il fastidio di non riuscire a farmi capire. “La produzione ha una base qui sull’isola?”
“Oh, no, no, no,” accenna oltre di noi, “Sul mare. C’è una nave alla fonda, noi stiamo lì, interveniamo quando serve.”
Scruto le onde e l’orizzonte per un breve attimo. “Una nave.”
“Sì, è una stazione mobile di monitoraggio.”
“E sei qui per…?”
Sorride euforica e solleva la macchina fotografica. “Premiamo gli account Gold con il vostro calendario swimsuit!”
Calendario.
Swimsuit.
“Cioè, noi dovremmo…”
“Togliervi la robaccia lurida che avete indosso, fare un bel bagno, tornare da me. Sarà il calendario più incredibile della storia dei calendari.”
Senso di fastidio che parte dal basso.
“Un calendario sono tipo dodici mesi, noi siamo cinque.”
“Ne fate una da sole e le altre miste.”
“Non ci va tipo il nostro consenso?”
“Per niente. Era nel contratto: tutto ciò che non è un nudo integrale fa parte del marketing ufficiale.”
Sospiro. Rhonda mi scrolla per le spalle, un sorriso tanto solare quanto infantile. “Aiuto, è una figata!”
Dio Santo.
Cloe punta gli indici verso il bagnasciuga. In effetti siamo lerce, ma tanto.
“Ma in mare ci sono le bestie?” Obiezione legittima.
Lei inclina il capo come un tacchino. “Certo che sì, ma avete un Pass Bianco attivo, no? Sicurezza garantita.”
“Vedi? È come dico io: è tutto pilotato se possono garantire la nostra incolumità per ventiquattro ore.”
“Non proprio pilotato,” Cloe strizza un occhio, “Più calcolato: tu fidati di noi, che la matematica è il nostro forte.”
Di nuovo questa cosa del sistema, del calcolo, dell’equazione.
Mai amato la matematica.
“Dobbiamo proprio, sì?”
“Sì.”
“Senti,” abbasso il tono perché sia una cosa tra me e lei, “Va bene tutto, però tu mi inquadrerai solo dalle ginocchia in su.”
Stranisce, protende avanti le labbra. “Perché? Mica hai i piedi brutti.”
“Non c’entra. È una questione di rispetto personale.”
“Ma che dici?”
“Rispetto personale.”
“Non posso garantirtelo, cara. La fotografia è arte, e l’arte non ha compromessi.”
“Dalle-ginocchia-in-su.”
La guardo annuire divertita prima che Rhonda mi trascini verso il bagnasciuga.
“E sciacqua bene i capelli, Mercury! Mi servono del tuo colore naturale!”
***
Non sono tagliata per fare la modella.
Me lo hanno sempre detto: con quel corpo lì, quelle gambe lì, quel viso, quegli occhi, ti prenderebbero subito. Magari sarai famosa. Piena di soldi.
Ma non sono tagliata.
Mettiti così, più sdraiata, più qui, più lì, sorridi, non sorridere: dopo cinque minuti ho già voglia di dar fuoco a tutto.
Non
sono
tagliata.
Svestire il costume malconcio che fu di Foxx la Volpe è a suo modo una liberazione, così sciacquare il sangue di dosso, lavare i capelli nell’acqua di mare, tornare bionda: tornare me stessa.
Posiamo, tutte e cinque a turno, nei costosi bikini che la produzione ci vuol vedere indosso, per la gloria del pubblico Premium, per la fame della gente. Fame dei nostri corpi, di noi, per nutrire immaginazioni in più gradi perverse.
Per l’invidia, l’ammirazione, per rendere merce le nostre forme.
Siamo merce, lo siamo diventate quando abbiamo messo la firma sul contratto, ma forse lo eravamo anche prima.
Lo siamo sempre state.
È il nostro posto nel mondo.
Merce.
Materiale per immaginazione.
Per sogni.
Visioni.
Pulsioni.
Istinti.
Poso eretta nell’acqua bassa e cristallina, col mio due pezzi mimetico, un paio di piastrine al collo, le gambe divaricate, i capelli fradici buttati avanti e l’espressione più maestosa che trovo.
Cloe dice che sono divina mentre s’inzuppa nella battaglia per l’inquadratura più potente che riesce a catturare.
Divina.
Nessuno mi hai mai detto che sono divina.
Nessuno.
Divina.
Poso gattoni sulla sabbia calda, un bikini giallo evidenziatore dall’orlo griffato. Accanto, due poser professioniste come Taif e Rhonda.
Dio, sembrano nate per questo.
Rhonda soprattutto.
Sorridono come divinità del costume da bagno, con corpi lavorati, ingegnerizzati, studiati a tavolino, creati e perfezionati un pezzo alla volta. C’è dietro il lavoro di artisti del fisico pagati migliaia di euro.
Il mio corpo, io, me lo sono costruita da sola. Non sarà levigato e luccicante in quel modo lì, ma cazzo, ci ho lavorato duro. Solo non ne ho fatto un’ossessione.
Non
un’ossessione.
Così posiamo, gattoni nella sabbia, coi culi alti, le schiene inarcate e le nostre belle facce baciate dal sole.
Mi sento una cretina, che Cloe chieda un’espressione seria o un sorriso sincero. Coi sorrisi soprattutto.
Son negata coi sorrisi: sembro o finta o stupida, a volte una combinazione di entrambe. Rhonda dice che basta essere sè stesse, ma per lei è facile; che ci vuole a essere sè stesse quando puoi concorrere per la donna più figa del mondo? Quando basta ravviare una cascata di capelli colorati a shatush?
In qualunque modo sorrida, anche con la lingua di fuori e gli occhi incrociati, sembra uscita da un dannato sogno erotico.
Ha solo poche tette.
Poche
tette.
Sorrido.
Di un sorriso genuino, quello che Cloe chiedeva.
Poso eretta nell’acqua bassa in un arrapante due pezzi nero a una spallina sola. Di schiena, perché il mio culo dev’essere molto richiesto dall’altra parte del mare.
A Sigrid, Artemis, ne hanno dato uno speculare ma bianco, così che, stando vicine, sembriamo le due facce del mondo, quella oscura e quella luminosa.
La brava ragazza e quella cattiva.
La biondina angelica e quella bestiale.
Di mio, non sono così sicura di chi sia chi in questo gioco di facili etichette.
Mi sorride in quel modo candido che hanno le bellissime figlie dell’alta società, senza una goccia di rimorso per quello che abbiamo passato, causato, provocato. A differenza mia, lei era qui per questo. Per premere il grilletto su una disperata in fuga.
A sangue freddo.
Mi sorride in quel modo che traspira ammirazione, l’ammirazione di chi cerca una sua simile solo di classe superiore, qualcuna da cui imparare. Studiare. Migliorare.
Non posso e non voglio insegnare niente su una via, quella dell’omicidio, che non ho scelto. In cui mi ci sono trovata, mio malgrado, su una polverosa strada di Kandahar.
Quest’algida principessa che sogna di cacciare esseri umani non ha nulla di speciale nel suo corpo esile, non un seno degno di nota, non un culo importante, non curve e forme allenate, solo un viso angelico e una pelle indorata: ma l’insieme funziona.
Funziona perché è la nostra controparte umana. Funziona perché sai che una Rhonda, una Cerbera, le puoi vedere solo su Instagram, coi loro corpi scolpiti al dettaglio, l’attitudine da poser, i volti ultraterreni.
Una Artemis, una Sigrid così, è reale. Esiste. Ce ne saranno tre o quattro per ogni scuola d’Italia, o nelle prime annate di qualsiasi facoltà universitaria.
È merce rara ma non una creatura mitologica.
Ed è questo, lo so, a renderla così irresistibile, persino con quella sinistra fame d’uccidere altri esseri umani.
In fondo c’è ovunque, dentro ognuno di noi, quella stessa fame.
Solo non tutti abbiamo il coraggio di nutrirla.
Non tutti.
Posiamo nell’acqua bassa, l’una accanto all’altra, col suo sorriso bianchissimo, la sua mano sul mio fianco e la mia sul suo.
Costume bianco, costume nero.
Bionda buona, bionda cattiva.
L’angelo e il diavolo.
Chi è chi: prospettive.
Giochi di luce sull’acqua cristallina.
Poso sul bagnasciuga in un bikini elegante color cioccolato fondente e oro, in ginocchio nella sabbia, con le onde che mi lambiscono le cosce e il culo, onde tiepide, calde, che sanno di tropici e paradiso terrestre. Col sole non più intenso a irradiarmi per intero.
Lucilla s’inginocchia di fronte a me, guidata dall’esperta direzione di Cloe: il suo costume rosso acceso ne incorona il bel corpo candido. L’argento dei capelli riluce nel sole.
Mi guarda per un lungo attimo e ha un lieve sorriso; contraccambio, vagamente a disagio. C’è stato un tempo, lontanissimo, in cui eravamo vicine allo stesso modo e senza neanche un pezzo di stoffa addosso. Spedite a morire giù da un ponte di legno.
Brivido.
Un ponte di legno.
La bestia di sotto.
“Stai bene?” chiedo in un soffio.
“Sto bene.”
Mi sfugge un breve riso sincero. “Sei imbarazzata da matti,” e mi fa tenerezza: una suora, o ex suora, che posa in bikini su una spiaggia tropicale. Fa tenerezza.
Niente di umano mi ha mai fatto tenerezza al mondo, prima d’ora.
Niente.
“Un po’,” ammette con un altro sorriso teso. “Tu sembri così a tuo agio.”
“Figurati. Sto morendo di vergogna.”
Inspira, espira e sorride per esorcizzare l’imbarazzo.
“Lu,” ravvio i capelli fradici, “Sei,” ci vuole tutta la forza del mondo, ma per lei, per lei posso farlo, “Una splendida ragazza.”
Mai fatto complimenti che non fossero finti. Non è da me.
Mai stato.
Mai.
Per lei posso farlo.
Radiosa scuote per un attimo la testa, schiude le labbra come a dire qualcosa ma non dice nulla: fissa l’acqua che ci scorre e riverbera intorno, la sabbia tra le gambe, il sale sulla pelle.
La croce le ciondola sopra il seno.
Ha il sorriso dei bambini che si scoprono adulti, io quello di chi ha ritrovato un pezzo di sé.
“Alla fine,” mormora, “Non sei una cattiva persona.”
“Pensavi questo?”
Annuisce. “Mi facevi,” esita, “Paura.”
“E adesso?”
Fa segno di no. “Adesso è diverso.”
Diverso, me lo dice una suora, o ex suora, in bikini su una spiaggia tropicale.
Rimaniamo a guardarci come vecchie amiche, mezze nude su un bagnasciuga, una fotografa in sovrappeso che si arrota e inzacchera intorno a noi cercando gli scatti più riusciti.
Alla fine lei, Lucilla, Radiosa, è la cosa che più somiglia a un’amica che abbia mai avuto. Significherà pur qualcosa, qui, nel cuore verde di Illumina, dove non c’è altro che noi.
Soltanto noi.
Sento forte, più che mai, un bisogno antico di sentirmi meno sola, di avere qualcuno per cui provare affetto, preoccupazione. Per cui sentirmi viva.
Qualcuno la cui presenza dia un senso alla mia giornata.
Con cui dividere un momento, un attimo di leggerezza.
Qualcuno che possa mancarmi quando non ci sarà.
Tirare fuori tutto quanto ho seppellito da qualche parte, dentro, negli anni.
Nel vuoto.
Nella mancanza di legami.
“Vedi?” Lucilla mi guarda e sorride, radiosa come l’angelo che rappresenta. Poggia una mano sul cuore ed è il gesto più semplice del mondo. “Forse Dio aveva questo in serbo per me e per te. Per noi.”
Sorrido, a stento, per soffocare quella cruenta voglia di pianto che mi prende dal cuore e assalta i sensi. Dio non ha mai avuto in serbo per me altro che amarezze e lunghi vuoti.
“Fino ad oggi.”
Fino ad oggi, sì.
Allungo una mano per stringerle i capelli dietro la nuca, per portarla fronte a fronte, insieme, vicine, come su quel ponte ma adesso è diverso.
Diverso.
“Possiamo esserlo, se vuoi,” mormora cercando i miei occhi azzurri, i suoi sono scuri come il mogano, profondi.
“Essere cosa?”
“Amiche.”
L’acqua è calda come il brivido che mi percorre la schiena.
Come il luccichio che m’imperla gli occhi.
Qui, nel luogo dove si muore in modi orribili, qui, dove i legami sono corde sfilacciate, sono sabbia nel vento: che senso ha un’amicizia, un affetto?
Che senso ha?
“Per il tempo che dureremo,” scandisce, “Un senso ce l’ha.”
Rivedo in un flash tutto quello che abbiamo passato, noi, assieme.
Noi.
Assieme.
“Ho,” e ammetterlo pesa come le montagne, come il singulto che porto nel petto, “Paura.”
“Ne ho anch’io. Ma in due, magari,” increspa le labbra coi capelli che le spiovono sul viso, “Non la sentiremo.”
Chiudo gli occhi ed è per un attimo casa, lontano, il mondo al di là del mare.
È un convento perso tra i boschi e le colline, un giardino curato.
È la sua figura in una tunica bianca che mi attende, la croce sul petto: radiosa, come il nome che porta.
La mia è una divisa logora e un volto stanco.
Una mano in sangue.
Insieme.
Non ho mai avuto legami.
Non uno.
Insieme.
“Possiamo esserlo,” sorride delicata, “Se vuoi.”
La guardo come si guardano le cose belle, quelle preziose.
Ho ancora i suoi capelli stretti tra le dita, la fronte contro la sua.
Insieme.
La bacio sulla guancia.
Insieme.
“Spettacolari,” Cloe immortala il momento, “Sul serio. Adesso guardate me, per favore. Mani nell’acqua, così, tette in fuori.
Fatemi lo sguardo più truce e sexy che potete.
Così.
Divine.
Mamma mia, ragazze.
Divine.”
***
Celebriamo con grida sguaiate e qualche passo di ballo l’arrivo della cassa di rifornimenti, paracadutata sulla spiaggia da un drone che intravvediamo appena, nel cielo dai colori ormai tendenti all’arancio e al rosa.
Cloe applaude divertita. “Io tifo per voi,” lo dice con un gran sorriso, “Mai piaciute quelle là.”
La cassa è più grande di quella che ci hanno mandato qualche giorno fa, grigia e rossa; la trasciniamo sulla sabbia a diversi metri dall’acqua, tagliamo via i resti del paracadute.
Apriamo i sigilli ed è come Natale, di nuovo.
Rhonda s’improvvisa smistatrice: tira fuori le scatole, legge i nomi, le distribuisce.
Il completo che la produzione vuol vedere indosso al mio dannato personaggio non è poi molto diverso da quello che avevo prima: un top stavolta nero e non scollato, dei calzoncini militari mimetici tinta grigia, con cinturone nero e persino due bretelle con porta-caricatori e scarselle tattiche.
Anche un paio di guanti neri senza dita.
Tutto sommato, sono meno troia camouflage di prima.
La cosa divertente è che stavolta i panni che ci hanno dato sembrano simili un po’ per tutte, roba che va sul mimetico a tinte piombo. Roba militaresca.
Come se fossero uniformi.
Come se avessimo ora tutte un colore di squadra.
Il nostro colore.
Come le Erinni.
Come
le
Erinni.
“Aiuto, guardate qua!” Rhonda ha in mano un sacchetto di nylon e lo sguardo eccitato. Ne tira fuori degli elastici neri; Lucilla ne prende uno, sgrana gli occhi, mi guarda.
“Silvy…”
Osservo senza capire quello che mi sta mostrando, poi capisco. Mi sfugge un sorriso incredulo.
“Veramente?”
Ogni elastico ha cucito un badge di tessuto, rosso, con sopra il nostro nuovo emblema in bianco.
L’emblema della squadra.
Ferox Pious.
Disegnato come lo ha disegnato Radiosa sulla colonna, solo con la fottuta cura di un lavoro fatto a macchina.
Bello.
Perfetto.
Dieci elastici con il nostro appena creato logo.
Lo tolgo di mano alla suora, guardo Cloe con un mix di assurdità e agitazione. “Come hanno fatto? Abbiamo inventato questo simbolo neanche due ore fa, come hanno fatto a stampare questa roba e mandarcela qui in così poco tempo? Il tizio al telefono ha detto che le scorte erano già in viaggio quando ci siamo sentiti!”
Cloe sorride, imperturbabile, alza di spalle. “Fuso orario.”
Silenzio.
Soppeso la fesseria anche più del dovuto.
“Fuso orario un cazzo. Questo è impossibile!”
“L’isola, Mercury,” la fotografa inclina il capo, “Non è proprio in linea con lo scorrere del tempo come lo intendiamo di solito.”
Ci guardiamo in cinque senza uno straccio di comprensione.
“Cioè?”
Lei sospira. “Non dovrei dirvelo, in realtà, ma penso non vi cambi poi molto saperlo: a volte capita che il tempo, qui, si comprima. Cioè, passi più veloce di quanto vi rendiate conto. Non fidatevi solo dei vostri orologi, quelli non si accorgono di questi fenomeni. Si chiamano Alcove: le stanno studiando da mesi, sono una scoperta scientifica immensa.”
“Alcove.”
“Già. Tanto tempo, compresso in poco.”
Vago lo sguardo, spersa. “Come quando sono tornata dall’albero cavo? Dieci minuti che per me erano ore?”
Annuisce. “Temo di sì.”
Quindi non sono pazza e non lo erano Lucilla e Sigrid.
Alcove.
È pazzo questo posto.
Senza senso.
Folle.
Impossibile.
“A volte capitano,” taglia corto Cloe, “Non c’è modo di prevederle. Succedono e basta. Voi non pensateci: tanto non potete farci nulla.”
“Confortante.”
“Ne vuoi una prova?”
Sorride sorniona e ho paura di sentire cosa sta per dire.
Mi prende un braccio, accenna col mento, ma non vedo altro che la mia pelle.
La mia pelle dorata dal sole.
La mia
pelle
dorata
dal
sole.
Ho un flash, capisco, mi guardo la spalla con gesto frenetico, sollevo la spallina del reggiseno.
Dio santo.
“Non c’è…”
“…il segno.”
Sorride.
Sono abbronzata.
Un’abbronzatura da diversi giorni, uniforme, bella, dorata, di quelle che ti fai dopo una settimana stesa sulla spiaggia dalle otto del mattino a quelle di sera. Siamo qui da cinque giorni e di certo non li ho passati svaccata in costume da bagno.
“Capisci, ora?”
Guardo Radiosa e lei no, lei ha sempre il suo candore erotico, la pelle di chi è qui da poco.
Siamo state sempre assieme, abbiamo fatto grossomodo le stesse cose.
“Capisci, ora?”
Non capisco ma non importa. Non ne ho le facoltà.
Non ne ho i mezzi.
La questione cade al sollevarsi di un fucile a pompa, nuovo di zecca, dalla cassa delle meraviglie. C’è il nome di Rhonda sul bigliettino, come al luna park; ne aveva uno anche prima che perdessimo tutto nella foresta, prima che le Erinni ci saltassero addosso.
Lucilla contempla le due pistole che le hanno inviato, pistole semiautomatiche col calcio bianco e una croce d’argento cesellata. Anche lei ne aveva un paio simile prima che ci prendessero.
E poi caricatori, tracolle, accessori, acqua, bustine colorate che sono alimenti in polvere.
Sieri medicinali.
Non dico che siamo pronte a una guerra, ma cazzo, adesso ha un senso parlarne.
“Mercury,” Taif legge il bigliettino, mi allunga una scatola bianca, larga e piatta. Il regalino.
Del Gallo Cedrone.
Non oso immaginare. Non voglio immaginare.
Odio la perversione maschile. Odio la perversione in generale.
Odio questo show.
Odio tutto.
“Beh? Non apri?”
No che non apro.
Sì che mi sta salendo l’ansia.
No che non ho voglia di far ridere il mondo con qualsiasi porcheria ci sia dentro questa confezione.
Fanculo.
Spacchetto col fastidio che monta e gli angoli della bocca anche più giù del solito.
Odio la perversione.
La odio davvero.
La odio.
Odio.
Oddio.
Una mano mi si poggia da sola sulla bocca e gli occhi sgranano.
Oddio.
Dentro la scatola, avvolti in nientemeno che un panno di seta, c’è il più incredibile paio di stivali che io abbia mai visto in vita mia.
Il
più
incredibile.
Alti quasi al ginocchio, neri, con la suola rinforzata, uno scudo di kevlar grigio lungo tutto lo stinco, cinghia alta, cinghia bassa, doppio strappo.
Mai vista una roba del genere in qualsiasi negozio, boutique o outlet.
Sono
gli
stivali
più
cazzuti
di
sempre.
Mi brillano gli occhi mentre guardo intorno come una scema cercando una telecamera che non troverò, solo per dire a quel tacchino cedrone il mio muto grazie.
Grazie.
Sul serio.
Il telefono vibra, è un messaggio.
Te li sei meritati.
Sono felice.
Li indosso col paio di calze lunghe incluse nel pacco ed è come rinascere. La cosa più comoda del mondo.
Ci posso camminare sul fuoco.
Ci posso scalare le montagne.
Ci posso sfondare i crani a calci.
Come si fa a non amare gli stivali fatti bene?
“Una foto con le vostre nuove divise, tesori?” Cloe sorride giuliva.
E così finiamo di vestirci, mettiamo l’elastico col nostro nuovo simbolo di battaglia al braccio, e posiamo, tutte e cinque, mani sulle spalle come grandi amiche, un sorriso genuino. Le nostre uniformi camouflage grigie sono la fine del mondo.
Noi siamo la fine del mondo.
Di questo mondo.
Il nostro mondo.
Quello che c’è al di là del mare.
Quello che dobbiamo costruire qui.
Da sole.
Insieme.
“Allora buona fortuna,” Cloe saluta tutte, una per una, “Fategli un culo così, a quelle.”
Mi si pianta davanti con gli occhi che, dietro i fondi di bottiglia delle lenti, sembrano ancora più tondi e vividi.
“Ce la metteremo tutta.”
Mi stringe la mano con foga, poi mi guarda e formicola le dita in aria. “Posso…?”
Espiro e annuisco seccata.
Mi abbraccia con la foga di un panda, non sento il bisogno di contraccambiare.
“Resta ferma, solo un attimo…”
Stranisco, increspo lo sguardo. Realizzo con un istante di ritardo, incredula, che una delle sue mani è appena andata all’orlo dei miei slip. Se non esplodo in una reazione vulcanica è solo perché sento qualcosa di cartaceo infilarsi tra culo e mutanda.
“Non farti vedere mentre lo leggi, non potrei aiutarvi, sto violando le regole,” sussurra nell’atto di ritrarsi, un accenno impercettibile alle telecamere e il mondo che guarda, “Trova il posto che è indicato sul biglietto.”
La fisso allucinata, colta di sorpresa, mentre lei sorride e torna verso il pick-up, ripone borse e attrezzatura nel vano di carico.
“Cosa,” abbasso il tono, spaesata, fingo di guardare a terra, “C’è laggiù?”
Cloe sorride, appoggiata al veicolo. “Risposte.”
Sale a bordo e richiude la portiera, due volte perché alla prima non c’è riuscita. La guardiamo fare inversione sulla spiaggia e guidare via, nell’ultimo sole, fino a sparire alla vista oltre il costone del litorale.
Rhonda mi s’avvicina, mi squadra per un attimo, perplessa, le mani sui fianchi. “Ti ha veramente infilato un biglietto nelle mutande?”
“A quanto pare.” Guarda accigliata l’area al fondo della mia schiena e non posso che darle uno sguardo di fuoco. “Lo recupero io, beninteso.”
Alza le mani ironica.
Raccogliamo tutte le cose nuove e vecchie che sono i nostri averi, poi la cassa, e facciamo ritorno alla torre.
***