***
Attendo.
Attendo non so bene cosa, se un’ispirazione, uno stimolo, un motivo per abbandonare la catatonia.
Siedo nell’acqua fredda del ruscello, con le gambe raccolte al petto; nuda, come questa dannata isola mi vuole. Ho persino sciolto i capelli, e io odio portare i capelli sciolti: mi fanno ragazza acqua e sapone.
Se ne stanno abbandonati sulle spalle, fradici e lisci, i miei capelli biondi. Non trovo alcuna voglia di riannodarli nella coda.
“Vuoi restare lì ancora a lungo?” Radiosa se ne sta seduta su una pietra poco più in alto di me, raccolta a sua volta; sembra la Vergine delle Rocce con neanche un pezzo di stoffa addosso. La sua voce è mesta e tradisce un certo, profondo disagio.
Faccio spallucce fissando il vuoto.
“Cos’è successo dentro quell’albero?”
“C’era qualcuno.”
“Qualcuno?”
Inspiro forte. “Una donna. Continuava a vomitare. Lì dentro c’era la fiera del semidigerito. E io ci ho…”
Avrò lavato i piedi almeno una ventina di volte. Non cammino scalza neanche in casa.
Lei scuote la testa, il candore dei capelli platinati e folti le decora il viso con cura artistica. “Hai ragione: non possiamo fidarci di nessuno.”
Ci sto pensando da un po’, anzi da parecchio. “Forse era una concorrente.” Brivido. “Qualcuna delle Ondate passate. C’erano dei vestiti luridi, forse è stata rapita, chiusa lì dentro… magari è malata.”
Idea orribile d’un contagio.
Rabbrividisco ma è solo il freddo.
“E quella donna anziana? Anche lei una concorrente?”
Scuoto il capo fissando il nulla. “No, no, non può essere no. Così vecchia? Ci scritturano perché siamo fighe, quella chi la prenderebbe mai?”
“Allora chi è? Perché vive dentro l’albero?”
“C’è una sola spiegazione.” Lascio scorrere i secondi per dare più gravità alla cosa. “L’hanno messa lì quelli del network.”
“Tipo una comparsa?”
“Tipo.”
“E tu… tu hai dato un pugno a una comparsa?”
“Non mi piaceva, d’accordo? Zero, niente. E poi io penso che non sia una comparsa e basta, quella… quella l’hanno messa lì per fotterci, per prenderci alle spalle. Chi cazzo sa cosa ci avrebbe fatto se, metti caso, c’avesse trovate mezze morte nella foresta? No, no, no, dovevo romperle la testa, non dobbiamo correre rischi, non ce lo possiamo permettere.”
Radiosa annuisce appena. “Possiamo andare, per favore?”
Faccio segno di sì ma ho freddo e non trovo la forza o la voglia di alzarmi. Quando infine vinco l’inerzia esco dall’acqua abbracciata a me stessa, sgocciolante, senza un pezzo di stoffa da mettere addosso: mi faccio pietà da sola.
“E questo?” Radiosa raccoglie da terra il telefono che ho trovato, lo contempla per un momento. “Stava nell’albero?”
“Forse era di quella poveraccia. O magari di qualcuna che l’ha preceduta. Tanto qui è così, uno schifo unico, ogni cento metri c’è uno schifo.”
Lo accende, sembra funzionare, studia un paio di schermate. “Credo possa solo ricevere. Però…”
Non la sto ad ascoltare. Vorrei fosse già ora di cena, anche se non ho fame.
Pensiero di casa.
Mia madre che cucina, Alessandra che non aiuta perché deve studiare. Sul pad.
Casa.
Chiudo gli occhi: ero pronta a lasciare tutto, adesso mi sento persa. Vorrei la mia stupida tuta attillata da camera, le pantofole verdi, essere l’anti-sesso svaccata sul divano a guardare il wrestling.
Mi manca tutto, tutto quanto.
“Però ci sono dei video. Decine di cartelle di video, sembrano… un diario. Un resoconto.”
“Buttalo. Tanto siamo morte.”
“Può essere utile, invece. E poi, è l’unica cosa che abbiamo.”
L’unica.
Ha ragione. È davvero l’unica cosa che possediamo: è come essere nate una seconda volta, o aver perso tutto, in blocco, tutto quanto. Non abbiamo niente, nulla, quando anche il più merdoso senzatetto ha dei cartoni e un impermeabile fetido.
Noi adesso abbiamo un telefono che riceve solo, e neanche una tasca in cui metterlo.
Grottesco.
Assurdo.
“Oh, è tutto protetto da password, non riesco ad aprire nulla.”
“Ecco, appunto.”
“Non abbatterti.” Il suo tono compassionevole dovrebbe confortarmi invece urta tutte le terminazioni nervose. “Dobbiamo solo resistere fino a stasera.”
“Vaffanculo.”
Espira. “Dovresti essere tu a dirmi che andrà tutto bene. Non sei un soldato? Io neanche ci sono mai stata in un bosco.”
“Fottiti. Sta’ zitta. Non sono un soldato, non sono niente. Anzi sono una cogliona che ha messo una firma pensando di venir qui a spaccare il mondo, ecco cosa sono. Perché non ho una cazzo di vita mia, e mia madre, mia sorella… e poi ho fatto un casino in Afghanistan, quella bastarda era armata, era armata, Dio, non mi hanno creduto!” Il petto mi comincia a singhiozzare, chiudo gli occhi, storco le labbra. Assecondo perché non ho nient’altro che questo: i rimorsi, i rimpianti. Tutto assieme.
“Non è vero”. Radiosa sorride appena e nei suoi occhi nocciola sembra baluginare una qualche forma di sincero sollievo. “Il telefono non è l’unica cosa che possediamo. Abbiamo anche questa.”
Solleva con due dita la croce che le pende tra i seni.
Vorrei riderle in faccia. Vorrei piangere.
Vorrei poter prendere uno per uno tutti i fervidi credenti che stanno dall’altra parte dello schermo e ricordare loro che il dannato Dio non esiste, o se esiste è una merda.
Tuttavia il bilancio provvisorio è Dio 1 - Scienza 0, e se adesso sto nuda dentro un bosco invece che a pezzi dentro lo stomaco del rettile è perché una piccola croce ha sfidato e battuto qualsiasi logica, ha fatto l’impossibile.
“So che non credi,” mormora, “O forse credi ma detesti Dio: però io voglio dirti che se è successo quello che è successo, è perché c’è un motivo. C’è sempre un motivo. Se hai fede, possono succedere cose che neanche immagini. Magari Dio ha altri progetti per noi.”
“E per Rita non ne aveva, neanche mezzo?”
Riaffiora l’immagine del cadavere dissezionato di lei, coricato nella sabbia, il sangue. L’espressione di sofferenza.
“Non sono in grado di risponderti.”
La croce protesa e il sauro che arretra. Quella luce assurda, illogica, che per un attimo ho visto sopra la testa chiomata di lei. Pare che quando stai per morire puoi vedere un po’ qualsiasi cosa, perché il tuo cervello smette di pensare razionalmente, o così avevo letto da qualche parte.
Non c’è niente di vero, nessun miracolo, nessun Dio che aiuta, che protegge, che ha piani e progetti: non c’è niente eppure so che c’è un seme piantato da qualche parte, dentro di me, che mi ripeterà la stessa domanda in altri momenti, quando ne sentirò di nuovo il bisogno.
E se un Dio ci fosse?
“L’hai fatto apposta,” mormoro collegando un nesso che avevo mancato fino a quel momento, “Non è vero? Piangevi, eri fuori di te sul canyon, hai chiesto di andare per ultima: ma facevi finta, era tutta una recita.”
“È l’unica cosa che mi è venuta in mente di fare, con l’aiuto di Dio. Tu,” esita, “Non mi sembravi avere un piano d’emergenza.”
“Che ne sai?”
“Perdonami se ho frainteso.”
Riesce a essere gentile, posata, anche dopo aver visto il male assoluto. Risale prepotente il desiderio di spaccarle la faccia assieme a un vago senso di rispetto. Di invidia. Forse avere Dio ti fa restare lucida anche sulla porta dell’inferno.
Camminiamo tra la vegetazione, nude come fottute ninfe dei boschi.
***
Gioele Palazzese aveva appena messo la giacca sull’appendiabiti quando la figura abbondante di Max aveva invaso il suo ufficio col consueto sorriso euforico.
“Mi sono perso qualcosa?” chiese infastidito. Aveva recuperato poco in termini di sonno in qualche ora a casa e non si sentiva riposato.
Per tutta risposta Max gli srotolò davanti un banner appena stampato, in stile anni Ottanta, sul quale il mezzobusto d’una donna dall’inconfondibile grinta di Mercury la soldatessa stava sparando un pugno da peso massimo sulla faccia di una vecchia. Sotto, la scritta in caratteri abbinati Fuck Off The Old Generation.
“Cosa,” Gioele sbatté una decina di volte le palpebre, “Cosa significa, che rappresenta?”
“Mercury,” Max rise nel suo modo polmonare, “Dio, quella ragazza è una fonte inesauribile di idee. Questo banner sai dove lo mettiamo? Lo facciamo girare sui principali social, tipo ice bucket challenge, e vediamo quante condivisioni prende. È spettacolare, io lo adoro, è appena uscito dalla grafica.”
“Ma si può sapere cosa è successo?”
“Ha preso a pugni la Masca dell’Est.”
“Chi?!”
“Mercury.”
“Ha a preso a pugni…”
“La Masca dell’Est. Va a sapere come, sono finite proprio davanti all’albero cavo, e tu sai che le Masche fanno cose se mettono le mani su una delle poveracce, sì? Neanche due parole e quella cazzo di donna le ha ficcato un pugno in testa che, Dio Santo, sono caduto dalla sedia dal ridere. Ha steso una Masca, capisci?! Ma stesa per terra! Senza motivo, così, perché le sono girate! Dio, Giò, quelle due sono uno show ambulante, ti prego, puntiamo tutto su di loro!”
Gioele rimase come paralizzato per un lungo attimo, lo sguardo fisso avanti. “Questo… questo non va bene. La strega si vendicherà, darà loro la caccia.”
“Sì, sì, ma nel frattempo cavalchiamo la cosa, facciamola sembrare un evento unico. E lo è! Anzi, se ben ricordo sfuggire a una Masca vale punti bonus, no? Faccio mettere loro un regalino nel kit di rifornimento come premio.”
Gioele guardò l’orologio, era pomeriggio inoltrato. “A proposito, a che ora mandi il drone?”
“Mah, per le nove, quando sarà buio.”
“Max.”
“Ti ascolto.”
“Ti prego di non prendere questa cosa troppo alla leggera. Superpredatori è uno show con un messaggio dietro, non una fiera del trash. Abbiamo deciso di dare una possibilità a Mercury e Radiosa? D’accordo, ma non intendo trasformare tutto in una pagliacciata.”
“Ah, andiamo, pagliacciata? La gente adora queste cose! Stemperano la tensione, rendono tutto meno grave di quello che sembra, almeno per un po’, e poi vanno nel dimenticatoio. È fisiologico.”
“Ogni volta che facciamo un post, una maglietta o un banner prendiamo minimo due denunce da Eleuteria per incitamento alla violenza e vilipendio della donna.”
“E hanno mai seguito? No. Siamo inattaccabili. Succede tutto fuori dal territorio nazionale, non indirizziamo in alcun modo le azioni delle concorrenti: non ti ha mai preoccupato Eleuteria, perché adesso sarebbe diverso?”
“Non è Eleuteria a preoccuparmi”.
“Cosa allora?”
Il silenzio di Gioele suonò anomalo nella sua consuetudine. Max increspò le sopracciglia, spalancò la bocca in un moto di stupore. “La croce? Sei ancora fissato con quella croce?”
Gioele si scostò brusco, avviato alla scrivania.
“Ma sei serio? La dannata croce di Radiosa?”
“Max, è una cosa senza senso. Un problema.”
“Perché un problema?”
“Perché non era previsto. Non era possibile che capitasse.”
“Ma chissenefrega? Ci ha portato solo vantaggi e benefici, perché non prendiamo le cose così come vengono, non era la tua filosofia?”
“Tu non hai capito cos’è quella croce, vero?” Gioele si voltò severo, negli occhi piccoli una luce spiritata.
Espirare stanco. “No.”
“Una falla nel sistema.”
Tambori alzò di spalle, scosse la testa con sguardo ilare. “Una falla nel sistema.”
“Una falla nel sistema, sì.”
Secondi di silenzio.
Max spernacchiò una risata teatrale e fece un gesto della mano. “Ma finiscila. Sai qual è l’unico lato negativo di quell’episodio? Ah? Che adesso la Chiesa Cattolica smetterà finalmente di darci addosso e troverà magnifico che il potere di Dio,” gesticolò con ambo le mani grassocce, “Si sia manifestato in quel luogo infernale. Ho reso l’idea?”
Gioele non rispose; sedette alla scrivania e accese i monitor della postazione fissandoli con sguardo torvo.
“Smettila di stare a pensarci,” mediò Max con tono conciliante, “Fa parte dell’ordine delle cose. Illumina è come il mondo: è un posto da sogno e da incubo, e non ci metterei la mano sul fuoco che queste cose non possano succedere, dentro o fuori da quelle isole.”
Si congedò con un cenno ma sapeva che lo sguardo fisso, cupo, di Gioele Palazzese stava di nuovo percorrendo le strade contorte del dubbio.
***
Il mare.
Temevo non lo avremmo mai raggiunto, per un motivo qualsiasi. Lo temevo, è il mio pessimismo, l’abitudine.
Invece il mare c’è. Lo abbiamo sentito di lontano, il rumore adorabile della risacca, e abbiamo accelerato il passo. Se il mare è salvezza amo il mare.
Gli alberi sono diventati un misto di palme e altre piante a fusto, diradando e infine aprendosi su una spiaggia immensa; si stende a destra e sinistra per chilometri seguendo il profilo frastagliato dell’isola. La sabbia è ovunque, per decine di metri dalla foresta fino al bagnasciuga; una sabbia dorata, diversa dal biancore dei paradisi tropicali che vedi in foto, su internet, nelle agenzie di viaggio, una sabbia tiepida e morbida nella quale affondare i piedi è liberatorio, confortante.
È quasi orgasmo.
Anche la caviglia non duole più.
Il sole sta calando. Tinte arancio e rosate si sovrappongono in uno spettacolo che potrebbe essere più grandioso se le paure, le inquietudini, non smorzassero tutto. Ho visto altri tramonti in posti meno esotici, ma è sempre la stessa cosa. È sempre la stessa emozione indotta, finta, che non vale le belle parole spese per descriverla.
È un momento, nulla più.
Radiosa procede spedita poco più avanti di me, si volta a guardare la linea degli alberi, cammina a ritroso, poi torna diritta. Le labbra le si tendono in un sorriso genuino mentre la brezza le scompiglia di tanto in tanto i capelli giocando con infinite ciocche color del platino.
Apre le braccia e si guarda i piedi mentre danzano sulla sabbia: sembra una bambina, una creatura in qualche modo innocente, diversa da chiunque altra io abbia mai incontrato, prima e durante Superpredatori. Mi trovo a non sapere se compatirla o ammirarla.
Il mare, blu come uno zaffiro, si distende e contrae in un continuo respiro che sa di salsedine.
“Sembra che tu non abbia mai visto una cazzo di spiaggia.”
Lei sorride, inebriata, si scosta i capelli dal viso. “È la prima volta.”
Gli occhi mi si stringono in un moto di sorpresa. “Stai scherzando?”
Fa segno di no con la testa; la guardo chinarsi a terra, raccogliere la sabbia in una mano e lasciarla cadere come da una clessidra, perdersi in un gesto infantile: sembra una ritardata.
“Non hai mai visto il mare?”
“Solo in foto.”
Mi viene da ridere ma è un riso patetico. “E come cazzo si spiega una cosa del genere?”
“Ho passato diciassette anni in un convento, senza mai uscire.”
“Cosa?” Brivido allucinato. È o era una suora, forse sul serio: avrei giurato fosse solo un personaggio, un background evocativo. Uno stereotipo. “Sei seria?”
“Sì.” Ma è un sì di chi crede in quello che dice, un sì di chi non si vergogna di nulla, di chi ha vissuto con la più assoluta normalità qualcosa che normale non è. Si rialza in piedi e per un attimo il suo corpo candido si colora delle ultime luci del tramonto. Ci saranno migliaia di cose che per lei saranno la prima volta, eppure è lì, per nulla spaventata, a sfidare dei limiti che devono essere sembrati insormontabili.
Ricordo bene la sua voce sicura quando, tutte insieme, l’Ondata 9, guardavamo l’orrore di Illumina in una donna scheletrica legata a un albero; la sua voce che chiedeva di porre fine alle sofferenze di quell’essere miserabile, di non aiutarla perché sarebbe stato inutile e pericoloso.
Aveva ragione.
Ragione e noi torto.
Non c’entra la carità, l’umanità: è solo sopravvivenza. Dovere morale. Resistenza ai limiti imposti dal mondo che conoscevamo, quello che ci siamo lasciate dietro le spalle.
Passeggio, stanca e provata, con un improvviso bisogno di riposo, di sonno, di un letto, lenzuola, cuscino, shorts attillati, una maglietta slargata. Voglia di casa.
Di normalità.
Non vorrei incontrarla, Radiosa, nell’altra vita, nel mondo che conoscevo, o forse vorrei. La immagino vagare in una veste bianca, col velo sul capo, in un giardino botanico dai pochi ma forti colori, tra le colonne di un santuario dimenticato sulle colline, nel verde, nel nulla.
Non vorrei incontrarla perché forse mi sentirei in soggezione, diversa, peggiore.
Peggiore.
Ci saranno mille cose che per lei saranno la prima volta e che la faranno sorridere come sorride adesso. Io non riesco più, non sorrido più, non riesco a provare meraviglia. Io sto perdendo me stessa.
Sto perdendo tutto quello che ero, la normalità, se mai l’ho conosciuta.
“Stai bene?”
La voce di lei suona accigliata; le do la schiena perché non mi guardi in volto, un cenno della mano a far cadere la cosa. “Spero mandino quel fottuto kit di soccorso. Altrimenti…”
“Altrimenti?”
Il freddo punge, l’orrore, il vuoto. L’abbandono. Ci hanno prese in giro, non manderanno nulla, resteremo come siamo, nude e indifese: qualcosa mi dice che è così, è tutto un grosso, colossale inganno, un espediente per continuare a servirci come carne fresca al depravato mondo della rete.
La intuisco sorridere, avvicinarsi a piccoli passi. “Mi è stato insegnato,” mormora come se potesse davvero confortarmi, ridarmi anche solo una goccia di calore nel freddo che da tempo, anche prima dell’isola, sento dentro, “Che quando vuoi veramente qualcosa, il modo migliore è chiederlo per favore.”
Mordo il labbro, vorrei ridere. Vorrei piangere.
Volto appena il capo quando la scorgo comparirmi a fianco: in viso ha tutta la serenità del mondo, la più profonda consapevolezza di quello che sta facendo lì e in quel momento, a differenza mia.
Poggia a terra il telefono che abbiamo trovato e giunge le mani davanti al viso.
Mi guarda.
“No,” scuoto la testa, i capelli che ho di nuovo raccolto nella coda, “No, io non faccio quelle cose, no. Non prego nessuno, col cazzo, no.”
“Che hai da perdere?”
Scuoto ancora la testa, il freddo, la paura. Il mondo ci guarda o forse no, ma non importa.
“Io non…”
Accenna col capo, bonaria, come se la bambina fossi io, la sprovveduta, l’incosciente, la cretina, la spaventata, la sola e sola davvero.
Giungo le mani e non so perché, so che tremano, che non riesco a farle stare ferme. “Per favore, non voglio.”
“Non devi dire niente. Chiudi gli occhi e basta.”
Li chiudo davvero, e non so perché. Non so per quale ragione sto facendo una cosa che non facevo più da secoli, da che ho memoria. Tremo e sento freddo, un freddo d’inverno.
Non so cosa devo dire, pensare, fare, non so nulla. Non ricordo nulla.
Mi vergogno, ho paura.
Sono sola, nuda, nel nulla di una spiaggia tropicale. La notte.
Radiosa al mio fianco mormora qualcosa che non comprendo, e se sta pregando lo sta facendo anche per me.
Vorrei piangere, ma non posso.
Vorrei andarmene lontano, vorrei dimenticare. Morire, piuttosto, magari nel sonno.
Non svegliarmi più.
Vorrei tornare a casa.
Casa e soltanto casa.
Radiosa prega e la sua voce si confonde con la brezza.
Sembra il suono del vento e forse lo è davvero, almeno in principio. Poi diventa qualcos’altro, diventa un ronzio leggerissimo, un fruscio prolungato.
Non è possibile.
Apro gli occhi di scatto e guardo in cielo, perché è dal cielo che arriva qualcosa, se non è l’immaginazione, la frustrazione, il miraggio d’una vita migliore.
Passa oltre di noi invisibile nel buio incipiente, ma ciò che lascia ha la forma rossa d’un piccolo paracadute e la silhouette d’una cassa.
“Non è possibile,” mormoro incredula, attonita, “Non è possibile.”
Radiosa sorride, ride senza suono con le mani ancora giunte sulla bocca, ride bonaria mentre cado in ginocchio e guardo il kit di rifornimenti oscillare nella brezza e scendere verso terra.
Non è possibile, ma dentro, nel petto, nel cuore, il freddo ha allentato la presa.
Mordo il labbro per trattenere, invano, la lacrima che scende sulla guancia, rotola, si perde nella sabbia.
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Frammento 4 – Intervista a Kabanda, fondatore di Eleuteria (parte 3)
Nadia osserva con certo, celato disagio la figura ammantata di nero e mascherata di rosso. La stanzetta è illuminata solo da una lampada da tavolo.
“Credo che una parte consistente,” scandisce dopo aver schiarito la voce, “Del pubblico, che abbia assistito o meno alla scena, sia rimasto coinvolto nel dibattito tra Dio sì e Dio no che sta lacerando l’opinione pubblica. Non potevamo esimerci dal sentire il fondatore di Eleuteria su una tematica così delicata.”
Respiro profondo.
Lieve gesto elegante della mano guantata.
“Parto da una considerazione tutt’altro che secondaria. La tematica è delicata soltanto perché, nel ventunesimo secolo, ancora non abbiamo fatto quel passo doveroso che è il liberarsi dall’oppio delle religioni. Se il Cristianesimo fosse stato superato come i tanti culti che hanno oppresso la storia dell’Uomo, ora mi avresti fatto una domanda differente, perché il mero gesto di alzare un amuleto di metallo non può proteggere da una creatura aggressiva e affamata senza una concausa di supporto.”
“Non c’è dunque nella tua ottica alcuno spazio marginale per il legittimo dubbio.”
“Un dubbio è legittimo solo in presenza di prove scientificamente valide. Non siamo neppure certi che le cose che accadono laggiù siano veritiere, o che il network non le manipoli a discrezione, pertanto una mente aperta e consapevole non può porsi alcun legittimo dubbio sull’episodio cui ti riferisci.”
“Sarebbe stato quindi un caso.”
“Il mondo è dominato dal caso e dalla matematica in eguale misura: niente che sfugga a queste due verità assolute può trovare spazio in questa realtà.”
“Forse un mondo privo di religioni sarebbe un mondo più razionale e meno passionale, eppure gli ultimi anni hanno visto piuttosto un aumento della religiosità e del sentimento di fede, come se le insicurezze del nostro tempo avessero alimentato il bisogno di conforto ultraterreno: non potremmo considerarlo un comportamento naturale e istintivo?”
“Dissento. La religione è un falso culturale, un retaggio del passato: finché i giovani nasceranno e saranno anche solo alla lontana a contatto con la religione, avranno piantato dentro di sé un seme di barbarie che nessuna educazione successiva potrà mai realmente cancellare. Dio è un dubbio atavico: se lo si instilla nel momento più fragile della vita, la giovinezza, esso non potrà mai più essere eliminato. Dio è la più raffinata forma di giogo mentale che l’uomo abbia mai saputo inventare. Se si applicasse una disintossicazione sistematica ci vorrebbero generazioni per riuscire a debellarlo.”
Nadia accenna verso la parete. “Eppure in giornata si sono tenute veglie di preghiera in tutta Italia per quello che è stato definito il miracolo della croce di Illumina. Pur mantenendo il consueto veto sullo show Superpredatori, persino esponenti della Chiesa hanno considerato l’episodio come un grande atto di generosità cristiana e un caso da vagliare circa la possibilità di un effettivo miracolo.”
“E non mi stupisce. Vedere interventi di presunte entità laddove ci sono solo leggi naturali, o manipolazione umana, è iconico delle menti limitate.”
“Non vogliamo considerare gli effetti benefici e aggregativi che la religione ha sulle persone?”
“Se per aggregativi ci si riferisce alla discriminazione diffusa che, quotidianamente, i Cristiani applicano nei confronti di altri esseri umani dalla pelle più scura allora no, non vedo effetti benefici apprezzabili. Al contrario, mi preoccupa l’emulazione che questi comportamenti suscitano negli strati meno acculturati della popolazione; meglio sarebbe stato se la bestia avesse divorato la giovane concorrente e la sua croce: sarebbe stato un ottimo esempio di come la superstizione dei secoli passati, con i suoi fallimenti, possa finalmente lasciare il posto all’uso della ragione.”
“Cosa intendi per emulazione?”
“Che si riprenda ad attribuire ad amuleti e preghiere un potere salvifico che non possiedono. Ma non solo: sai cosa è capitato stamattina, proprio stamattina, alla stazione? Un gruppetto di minorenni, tutte ragazze, ha assalito una donna anziana, e una di esse l’ha colpita con un pugno al volto, per imitare quanto accaduto di recente nel reality. Tutto ovviamente ripreso coi telefoni. Capisci cosa intendo quando parlo di emulazione pericolosa? Se l’ignoranza della religione unisce le forze con il becero bullismo, la miscela è esplosiva, e i signori del network cavalcano quest’onda con tutto il gusto di cui sono capaci. Non è solo la violenza esposta su internet il problema, è anche il contorno, la celebrazione, la normalizzazione dei comportamenti. Sono certo, poiché lo conosco di fama, che Gioele Palazzese non volesse spettacolarizzare la violenza fine a se stessa, ma renderla educativa: egli deve però stare attento a che la creatura non gli sfugga di mano, o le conseguenze potrebbero essere nefaste, specie in tempi difficili come quelli che viviamo.”
Silenzio riflessivo.
“In un Paese con Eleuteria al governo,” Nadia sceglie l’affondo diretto, “Non esisterebbe quindi la libertà di culto.”
“La religione non deve essere una libertà tanto quanto non lo deve essere l’ignoranza. La religione è da considerarsi un’opinione, ma un’opinione che non sia supportata da un’adeguata conoscenza non è tale. E non va rispettata.”
Assenso composto. Nadia liscia una piega del vestito.
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