Palmanova, maggio 1968
Giulio, amico mio, non c’è bisogno che io continui a avere incubi sgradevoli e ripetitivi per farti intuire quanto sto male. Passare quindici mesi in questa caserma è come portarmi dietro, a lungo, una valigia di cemento. Impossibile per me cavarmela con un giro in piazza, la sera. La tristezza resta attaccata comunque, è come se avessi perso la vista, tutto l’intorno scompare.
Con il taglio dei capelli la mia testa ha preso la forma di un pallone da rugby, pure la sua ombra mi fa paura. Spero di rifarmi con te che hai avuto la fortuna di essere esonerato e alla prima licenza trovarti grasso e trasandato come un banchiere fallito. Bancario, perdonami, scherzo.
La caserma è rintanata nell’estremità occidentale di Palmanova, un posto squadrato, che con le sue linee rette si conquista la stessa impenetrabilità e noia di un museo egizio. Fortunato tu te ne stai a Pettinengo, un’oasi di pace che irradia cultura, amicizia, serenità e belle ragazze. Sto leggendo, nei pochi momenti di libertà, quindi la notte, un libro di Kerouac di cui avevo sentito molto parlare nella nostra striminzita associazione culturale di Pettinengo. Quando ho iniziato a leggerlo mi sono presa una mezza sbronza con il vino della mensa e mi sono trovato subito nei panni del protagonista.
Il narratore viaggia in autostop, un po’ come abbiamo fatto noi quando frequentavamo il centro sociale, stravaganti e cupi come animali notturni. Non te lo fare sfuggire.
Dai vetri appannati del bagno appare il panorama spettrale della caserma, ma questo è l’unico posto dove posso scrivere tranquillo, senza disturbare nessuno, che qui disturbi pure se respiri.
Domani la lezione quotidiana di scienze militari durerà due ore prive di interesse, almeno da parte mia. Mi rifarò dopo nello spaccio dove c’è un Joukebox di vecchia generazione, le canzoni che contiene farebbero storcere la bocca pure a mio nonno. Quando posso sto lì intorno a fumarmi una sigaretta a scrocco, e a ascoltare pezzi umiliati dall’età e dal volume basso.
Ho nascosto nello zaino le pillole per dimagrire e pure se scheletrico quando sono a pezzi ne mando giù una. Qui ho a disposizione tutto il tempo per lo sfacelo, una bella occasione per i miei piccoli vent’anni .
Non so quanto del mio passato contrapposto a questa vita inutile mi potrà aiutare.
Un caporale, al quale ho fatto scoprire Guccini, mi ha proposto una gita divertente a Grado, una specie di Rimini del nord. Gli ho risposto che se scavalcavo ancora il muro sarei finito nel carcere di Peschiera.
Dopo una sonora pacca sulle mie spalle esili ha aggiunto: ‘Penso a tutto io, tranquillo.’
La mattina dopo con la sua vecchia automobile abbiamo raggiunto Grado.
Prima di sfiorare il mare, il caporale si è esibito in una decina di ‘pipìììì’ con il clacson quando sfioravamo ogni essere femminile vivente. Un qualunquismo sbalorditivo che giustificava dicendo: ‘Qualcuna ci darà retta.’ Come se quello fosse per noi un diritto, farci dare retta.
A un certo punto, mentre il caporale arrestava l’auto per accendersi con comodo una sigaretta, sono sceso per sgranchirmi le gambe e me ne sono trovata una davanti. Ho provato a scusarmi per la volgarità e brutalità di quel richiamo sonoro, credo di essere pure arrossito. Lei incuriosita si è fermata. E mi ha spiazzato dicendo che lì lo fanno tutti, non era affatto grave. Tranquillizzato il mio spirito ho insistito nel chiederle un appuntamento per una pizza. Lei mi ha scritto il suo indirizzo su uno scontrino della spesa, aggiungendo un: ‘Vieni a trovarmi quando vuoi.’
Il caporale che aveva seguito la scena a breve distanza, colmo di scetticismo per quella conoscenza che avrebbe potuto aprire scenari futuri impensabili, senza mezze parole ha detto che sicuramente quella donna è una che ‘fa la vita’. Ho risposto che se faceva la vita o la morte a me non importava, era piacevole e gentile. Dopodiché con un lungo giro ce ne siamo ritornati in caserma, senza aver consumato nemmeno un caffè.
‘ Se ti servono soldi te li presto io, al primo vaglia da casa me li ridarai.’ Ha detto contento di aver scongiurato la mia tristezza infinita.
Ho cominciato a guardarlo con occhio diverso. La generosità dell’invito, e della sua allegria non ha pari nella mia breve storia militaresca. E non ho voluto deluderlo dicendogli che di vaglia da casa ne arrivavano ben pochi, forse nessuno.
Il giorno dopo avevo la camicia già madida di sudore come a una fila all’ufficio postale prima di leggere la targhetta sul portone. Anche se l’apparizione della donna in abiti modesti, scongiurava tutti i miei timori che fosse davvero una professionista.
‘Dai entra’, altro non aveva detto dopo essersi appropriata del minuscolo bagaglio floreale che stringevo in mano, e del mio miglior sorriso.
Onestamente la sua figura in ambiente domestico sembrava meno carina. Fortuna che ho sempre avuto un debole per le donne poco carine, le trovavo più autentiche e stimolanti di quelle belle, sempre in posa.
La casa era molto essenziale, un divano mezzo sfondato, una scrivania di plastica, una moka su un fornello acceso. Un televisore vecchio modello appoggiato su una piattina di legno. La zuccheriera alla portata di chiunque. La mia impressione era che mi aveva accettato, materializzato all’improvviso, ma che nutriva un certo timore, non ce la faceva la mia divisa a scongiurarlo. Con i minuti abbiamo cominciato a spostarci nella zona buia della casa. Con i minuti lei cominciava a comportarsi come se mi volesse lì davvero, e io mi rasserenavo. Lei voleva farmi entrare almeno per un po’ nella sua vita, con la sua bocca soffiava sulla mia tazzina, null’altro mi interessava più. Eravamo una coppia non del tutto perfetta, ma funzionavamo. Lo capivo pure dal campanello che suonava più volte e che lei ignorava.
Tu Giulio tieni la bocca chiusa su questa confidenza, soprattutto con Irene.
Con molta franchezza ti dico che ho richiesto la visita medica, con la donna è stato un bel momento, ma quanti avranno avuto quel bel momento? Ho pensato pure che qualsiasi risposta del medico avrebbe avvalorato l’idea di non frequentarla più.
Poi, all’ultimo momento ho rinunciato alla visita e a non vederla più. Quando ci siamo rincontrati, oltre che sentirmi un verme mi sono dato un pugno in testa per assicurarmi che si fosse riempita di nuovo di cervello. Cosa poteva avermi attaccato oltre a un pizzico di pacata felicità?
Dopo essermi controllato per l’ennesima volta in bagno e aver riempito di schiuma il lavandino per l’ennesimo lavaggio mi sono convinto di non avere nulla di diverso, e che avrei dovuto solo imparare a vivere.
Da essere umano sostanzialmente insicuro ho sempre temuto le malattie veneree.
La sua leggerezza, il suo disordine che tanto mi erano piaciuti avevano amplificato la mia pena.
Più o meno verso le sette del mattino del giorno dopo mi stavo preparando per affrontare una giornata come tante altre, forse un po’ più serena.
Ho guardato fuori della finestra verso il distributore, quella di un buon caffè non era una cattiva idea, non ne potevo più del ‘bibitone’ della mensa. Stavo per uscire dalla camerata quando sento un urlo quasi animalesco. Mi giro e vedo il mio amico Marcello sul pavimento in preda a dei sussulti strani.
Mi prende un colpo, tremava tutto e aveva la bocca serrata, non riuscivo a normalizzarlo, cercavo di farlo respirare. Urlavo a ripetizione il suo nome, come un forte rimprovero. Lui aveva gli occhi sbarrati.
Capisco di colpo che non ne so nulla di come agire. Ci sono tanti militari intorno, ma sono solo.
Disperato chiedo: ‘Aiutatemi ! Aiutatemi!’
Tra un letto a castello e l’altro si fa spazio un soldato medico. ‘Bravo’, - mi dice, - ma ora fai fare a me.
Mi tolgo di mezzo, ma non troppo, non perdo di vista Marcello. Lo caricano su di una barella insieme a tutti i suoi sintomi, sembra agonizzante. La barella scompare dentro un’ambulanza.
Troppo forte la scena per me, cado sul pavimento, singhiozzando in posizione fetale.
Penso a mia madre, a mio padre, a mio fratello. Non c’è nessuno di loro lì.
Singhiozzando urlo di nuovo: ’ Marcello! Marcello!’
Il medico si occupa pure di me. Mi fa una puntura. L’angoscia sparisce.
Dopo un paio di ore un infermiere si siede accanto a me, mi misura la pressione.
‘Il tuo amico Marcello ha avuto un grave attacco epilettico, lo cureranno nell’ospedale militare di Udine, stai tranquillo, dice.’
A Marcello, dopo che si è ripreso, hanno raccontato tutto l’accaduto e soprattutto quanto fossi disperato nel vederlo star male commovendo tutti i cuori di pietra della caserma.
Lui non ricordava nulla. E ora era lui che si preoccupava per me, chiedendo informazioni continue.
Ciao, Andrea
Palmanova, Maggio 1968
Cara Irene,
sono andato in bagno in mutande mettendomi alle spalle l’aria satura di chiuso e disordine della camerata, non ci sono tende alle finestre ed è entrato ordinato tutto il paesaggio. Manca il pericolo di fili d’erba tra le dita, è fatto solo di asfalto, camion e camionette.
Mi sono immaginato l’espressione spaventata di mia madre nel vedermi apparire così, le sarebbe andata di traverso la colazione. L’ho combinata grossa a sottomettermi a questa triste circostanza del servizio militare, avrei dovuto trovarmi una vocazione migliore e prendere la fuga.
Non so nemmeno cosa sia la patria, mi sento un mercenario, un soldato di ventura a stare qui.
Non hanno mai ribollito di politica i nostri discorsi e se l’accennavo, la politica, ti facevo ridere e basta.
L’occupazione della scuola è stata comunque preziosa per conoscerci meglio, e annullare il gelo del distacco di età. Che poi non ho mai capito, nel nostro piccolo, perché i disastri tuoi si chiamassero ferite, e le sconfitte mie delusioni. Secondo me erano la stessa cosa, non la scampavi tu, non la scampavo io.
Ho visto in tv che in Francia fanno sul serio gli studenti, sono pure riusciti a coinvolgere la classe operaia in uno sciopero gigantesco. Adesso chi te lo spiega che l’Andrea che conosci è ridotto proprio male in un posto dove è obbligato a salutare pure chi non conosce e a tenere i capelli rasati come un monaco buddista?
Il capitano di ispezione mi ha scoperto mentre scavalcavo il muro di recinzione per uscire, sembrava aver catturato un pericoloso criminale. Non ce la facevo più a stare qui dentro.
Posso essere sincero? A me quando facevi la ribelle durante l’occupazione della scuola, eri sembrata esagerata. Come se tutto fosse studiato per vedere le mie reazioni, un test di controllo.
Ora il mio ruolo qual è? Mi autorizzi a volerti bene?
Questa notte ho sognato una mucca che mi guardava ferma in mezzo al piazzale della caserma. E io ero impaurito, ma non dalla mucca, dal fatto che potesse cadere e che avrei potuto fare ben poco per sollevarla. Poi ho avuto l’impressione che anche tu mi guardavi, ma eri leggera e avrei potuto sollevarti.
Non prendermi per pazzo. Che sogno strano. Quando ti sogno e quando ti scrivo mi sento meno solo.
Baci. Andrea.
Bologna, maggio 1968
Cara Irene ti ringrazio con ritardo per aver riportato il mio gatto a casa, suggerendo di tenerlo sotto controllo, altrimenti avrebbe continuato a fare la sua puzzolente pipì nel tuo giardino. Io ti ho detto che pure lui è uno spirito libero e mi hai mandato a quel paese. Credo che sia stata la prima volta che ci siamo conosciuti. Con l’occupazione tutto è cambiato, e hai cominciato a filare con il mio caro amico Andrea. Lui ha rilevato la mia quota d’affetto e tu hai abbandonato la mia carcassa come faceva il mio gatto nel tuo giardino con le sue piccole prede.
‘Voglio uscire in fretta da questa storia,’ hai detto durante l’ultima gita. Sei entrata nel bagno dell’autogrill con l’anello che ti avevo regalato all’anulare e ne sei uscita senza, dopo aver spinto il bottone dello scarico.
Spero tu non l’abbia buttato davvero nel water e sia stata solo finzione, mi era costato un occhio.
Abbiamo perso due notti in camera doppia senza sfiorarci, alimentando solo il rancore, di cui ancora mi sfugge la ragione. Dicevi che io non facevo abbastanza per te, troppo preso dal mio lavoro in banca, e che ero insolente come tutti i bancari. Io, scoraggiato, ti ho chiesto di sollevare i tacchi perché ci stavi mettendo sotto la mia giovane vita.
Che poi quel lavoro in banca che così ti faceva schifo mi permetteva di invitare una ragazzina come te a cena in un buon ristorante, di avere una bella automobile, e di passare un paio di giorni in hotel, invece che in campeggio con una scomoda, soffocante e ridicola tenda canadese.
Chissà se Andrea conosce la nostra storia, sono certo che non gli hai raccontato niente.
Quando ritornerò dal corso per lavorare in cassa, spero di rivederti , e spero pure che tu la smetta di negarti al telefono, io nella scrittura neppure sono troppo bravo a esprimermi.
A poterlo fare ti raggiungerei, pure con una macchina a pedali. Baci, Giulio
Pettinengo, maggio 1968
Caro Andrea mio, non ho dimenticato le settimane di occupazione passate insieme.
All’inizio sembravi uno che stesse lì per caso, non avevi nemmeno i jeans a campana come gli altri e non ti puzzava l’alito di fumo. Pensavi solo a concludere la scuola e a andartene in vacanza con la tua ombra, il tuo compagno di banco Giulio. Mi chiamavi spesso ‘piccola’, per rassicurarmi non per sminuirmi.
Ero io a corteggiarti, io a cercare le tue mani grandi mentre facevamo finta di dormire nel sacco a pelo. O meglio, tu non avevi il sacco a pelo, dormivi nel mio. Per non essere troppo alto piegavi le ginocchia e la tua bocca si incollava alla mia tutta la notte. Non riesco a capire come non ci mancasse il respiro.
E continuavano pure nel bagno della scuola, i baci, lì dove era tutto possibile.
Sono molto fiera di te, Andrea. Sul serio. C’è un mondo in ogni cosa che mi racconti, e quando finirai il servizio militare te lo dimostrerò. Chiamami più spesso, pure mia madre sa che stiamo insieme. Voglio sentire la tua voce, voglio capire perché in caserma sei tanto infelice.
Non puoi immaginare quanto ho pianto nel leggere la tua richiesta di autorizzazione per volermi bene. Nessuno mai mi aveva chiesto una cosa simile, nessuno mai mi aveva detto parole simili.
Sei di un altro pianeta, Andrè. Che Dio ti benedica.
Non so se è un buon segno che tu in sogno mi accosti a una mucca, ma conoscendo quanto sei buono e ingenuo, mi sono commossa.
Baci, Irene
Bologna, maggio 1968
Caro Andrea,
in banca sto cercando di mettere su una specie di sindacato alternativo, di base. Un sindacato che ci aiuti a superare problemi incresciosi, tipo che per lavorare in cassa sono a Bologna da quasi due mesi per un corso.
Anche se l’impresa sta diventando impossibile e rischio pure il licenziamento. Qui fanno presto a darti un calcio nel culo. Per questo vogliono tenermi lontano.
Ci vorrebbe pure qui Mario Capanna, lui è una forza della natura. Ma di noi si occupa mai nessuno, siamo considerati dei privilegiati. Io dico che siamo sfigati.
Comincio a avere nostalgia della nostra piccola Pettinengo. Andrè ti ricordi quando facevamo collezione di ragazze che non ci salutavano? Una collezione anomala che ci faceva ammazzare dalle risate, seduti fino a notte fonda, d’estate e d’inverno sui gradini sbeccati della chiesa, in compagnia di un pacchetto striminzito di sigarette da dieci.
Ti voglio bene, Andrè. C’è un posto da militare pure per me?
Giulio
Palmanova, Maggio 1968
Giulio, ti ricordi di Marcello, quell’amico di cui ti ho parlato a lungo? Dopo una bella cura in ospedale e che credo dovrà seguire per molto, è tornato in caserma. Come mi ha visto mi ha abbracciato e si è commosso. Mi sono commosso pure io.
Mi fa uno strano effetto averlo qui, è come se avessi paura che riaccada di nuovo la sua malattia e ora tendo a allontanarmi. Sono un vigliacco pauroso.
Lui che ha fatto l’artistico, ha voluto farmi un ritratto prima di tornare a casa congedato.
Su una cartellina verde presa in fureria, ha disegnato me a matita, seduto. Tutto in cinque minuti.
Che io in cinque minuti non riuscirei a disegnare nemmeno una fetta di mortadella.
Tutti hanno cambiato atteggiamento con me, è come se il mio dolore tremendo per l’ epilessia di Marcello fosse stato qualcosa di eroico. Mi salutano e mi vogliono bene.
Al bar non riesco a pagarmi un caffè, e pure quando sono solo, il barista, che è un militare come me, dice: Pagato.
Il ritratto è talmente fatto bene che Marcello deve avermi scattato una foto.
Ciao.
Andrea
Giulio, amico mio, non c’è bisogno che io continui a avere incubi sgradevoli e ripetitivi per farti intuire quanto sto male. Passare quindici mesi in questa caserma è come portarmi dietro, a lungo, una valigia di cemento. Impossibile per me cavarmela con un giro in piazza, la sera. La tristezza resta attaccata comunque, è come se avessi perso la vista, tutto l’intorno scompare.
Con il taglio dei capelli la mia testa ha preso la forma di un pallone da rugby, pure la sua ombra mi fa paura. Spero di rifarmi con te che hai avuto la fortuna di essere esonerato e alla prima licenza trovarti grasso e trasandato come un banchiere fallito. Bancario, perdonami, scherzo.
La caserma è rintanata nell’estremità occidentale di Palmanova, un posto squadrato, che con le sue linee rette si conquista la stessa impenetrabilità e noia di un museo egizio. Fortunato tu te ne stai a Pettinengo, un’oasi di pace che irradia cultura, amicizia, serenità e belle ragazze. Sto leggendo, nei pochi momenti di libertà, quindi la notte, un libro di Kerouac di cui avevo sentito molto parlare nella nostra striminzita associazione culturale di Pettinengo. Quando ho iniziato a leggerlo mi sono presa una mezza sbronza con il vino della mensa e mi sono trovato subito nei panni del protagonista.
Il narratore viaggia in autostop, un po’ come abbiamo fatto noi quando frequentavamo il centro sociale, stravaganti e cupi come animali notturni. Non te lo fare sfuggire.
Dai vetri appannati del bagno appare il panorama spettrale della caserma, ma questo è l’unico posto dove posso scrivere tranquillo, senza disturbare nessuno, che qui disturbi pure se respiri.
Domani la lezione quotidiana di scienze militari durerà due ore prive di interesse, almeno da parte mia. Mi rifarò dopo nello spaccio dove c’è un Joukebox di vecchia generazione, le canzoni che contiene farebbero storcere la bocca pure a mio nonno. Quando posso sto lì intorno a fumarmi una sigaretta a scrocco, e a ascoltare pezzi umiliati dall’età e dal volume basso.
Ho nascosto nello zaino le pillole per dimagrire e pure se scheletrico quando sono a pezzi ne mando giù una. Qui ho a disposizione tutto il tempo per lo sfacelo, una bella occasione per i miei piccoli vent’anni .
Non so quanto del mio passato contrapposto a questa vita inutile mi potrà aiutare.
Un caporale, al quale ho fatto scoprire Guccini, mi ha proposto una gita divertente a Grado, una specie di Rimini del nord. Gli ho risposto che se scavalcavo ancora il muro sarei finito nel carcere di Peschiera.
Dopo una sonora pacca sulle mie spalle esili ha aggiunto: ‘Penso a tutto io, tranquillo.’
La mattina dopo con la sua vecchia automobile abbiamo raggiunto Grado.
Prima di sfiorare il mare, il caporale si è esibito in una decina di ‘pipìììì’ con il clacson quando sfioravamo ogni essere femminile vivente. Un qualunquismo sbalorditivo che giustificava dicendo: ‘Qualcuna ci darà retta.’ Come se quello fosse per noi un diritto, farci dare retta.
A un certo punto, mentre il caporale arrestava l’auto per accendersi con comodo una sigaretta, sono sceso per sgranchirmi le gambe e me ne sono trovata una davanti. Ho provato a scusarmi per la volgarità e brutalità di quel richiamo sonoro, credo di essere pure arrossito. Lei incuriosita si è fermata. E mi ha spiazzato dicendo che lì lo fanno tutti, non era affatto grave. Tranquillizzato il mio spirito ho insistito nel chiederle un appuntamento per una pizza. Lei mi ha scritto il suo indirizzo su uno scontrino della spesa, aggiungendo un: ‘Vieni a trovarmi quando vuoi.’
Il caporale che aveva seguito la scena a breve distanza, colmo di scetticismo per quella conoscenza che avrebbe potuto aprire scenari futuri impensabili, senza mezze parole ha detto che sicuramente quella donna è una che ‘fa la vita’. Ho risposto che se faceva la vita o la morte a me non importava, era piacevole e gentile. Dopodiché con un lungo giro ce ne siamo ritornati in caserma, senza aver consumato nemmeno un caffè.
‘ Se ti servono soldi te li presto io, al primo vaglia da casa me li ridarai.’ Ha detto contento di aver scongiurato la mia tristezza infinita.
Ho cominciato a guardarlo con occhio diverso. La generosità dell’invito, e della sua allegria non ha pari nella mia breve storia militaresca. E non ho voluto deluderlo dicendogli che di vaglia da casa ne arrivavano ben pochi, forse nessuno.
Il giorno dopo avevo la camicia già madida di sudore come a una fila all’ufficio postale prima di leggere la targhetta sul portone. Anche se l’apparizione della donna in abiti modesti, scongiurava tutti i miei timori che fosse davvero una professionista.
‘Dai entra’, altro non aveva detto dopo essersi appropriata del minuscolo bagaglio floreale che stringevo in mano, e del mio miglior sorriso.
Onestamente la sua figura in ambiente domestico sembrava meno carina. Fortuna che ho sempre avuto un debole per le donne poco carine, le trovavo più autentiche e stimolanti di quelle belle, sempre in posa.
La casa era molto essenziale, un divano mezzo sfondato, una scrivania di plastica, una moka su un fornello acceso. Un televisore vecchio modello appoggiato su una piattina di legno. La zuccheriera alla portata di chiunque. La mia impressione era che mi aveva accettato, materializzato all’improvviso, ma che nutriva un certo timore, non ce la faceva la mia divisa a scongiurarlo. Con i minuti abbiamo cominciato a spostarci nella zona buia della casa. Con i minuti lei cominciava a comportarsi come se mi volesse lì davvero, e io mi rasserenavo. Lei voleva farmi entrare almeno per un po’ nella sua vita, con la sua bocca soffiava sulla mia tazzina, null’altro mi interessava più. Eravamo una coppia non del tutto perfetta, ma funzionavamo. Lo capivo pure dal campanello che suonava più volte e che lei ignorava.
Tu Giulio tieni la bocca chiusa su questa confidenza, soprattutto con Irene.
Con molta franchezza ti dico che ho richiesto la visita medica, con la donna è stato un bel momento, ma quanti avranno avuto quel bel momento? Ho pensato pure che qualsiasi risposta del medico avrebbe avvalorato l’idea di non frequentarla più.
Poi, all’ultimo momento ho rinunciato alla visita e a non vederla più. Quando ci siamo rincontrati, oltre che sentirmi un verme mi sono dato un pugno in testa per assicurarmi che si fosse riempita di nuovo di cervello. Cosa poteva avermi attaccato oltre a un pizzico di pacata felicità?
Dopo essermi controllato per l’ennesima volta in bagno e aver riempito di schiuma il lavandino per l’ennesimo lavaggio mi sono convinto di non avere nulla di diverso, e che avrei dovuto solo imparare a vivere.
Da essere umano sostanzialmente insicuro ho sempre temuto le malattie veneree.
La sua leggerezza, il suo disordine che tanto mi erano piaciuti avevano amplificato la mia pena.
Più o meno verso le sette del mattino del giorno dopo mi stavo preparando per affrontare una giornata come tante altre, forse un po’ più serena.
Ho guardato fuori della finestra verso il distributore, quella di un buon caffè non era una cattiva idea, non ne potevo più del ‘bibitone’ della mensa. Stavo per uscire dalla camerata quando sento un urlo quasi animalesco. Mi giro e vedo il mio amico Marcello sul pavimento in preda a dei sussulti strani.
Mi prende un colpo, tremava tutto e aveva la bocca serrata, non riuscivo a normalizzarlo, cercavo di farlo respirare. Urlavo a ripetizione il suo nome, come un forte rimprovero. Lui aveva gli occhi sbarrati.
Capisco di colpo che non ne so nulla di come agire. Ci sono tanti militari intorno, ma sono solo.
Disperato chiedo: ‘Aiutatemi ! Aiutatemi!’
Tra un letto a castello e l’altro si fa spazio un soldato medico. ‘Bravo’, - mi dice, - ma ora fai fare a me.
Mi tolgo di mezzo, ma non troppo, non perdo di vista Marcello. Lo caricano su di una barella insieme a tutti i suoi sintomi, sembra agonizzante. La barella scompare dentro un’ambulanza.
Troppo forte la scena per me, cado sul pavimento, singhiozzando in posizione fetale.
Penso a mia madre, a mio padre, a mio fratello. Non c’è nessuno di loro lì.
Singhiozzando urlo di nuovo: ’ Marcello! Marcello!’
Il medico si occupa pure di me. Mi fa una puntura. L’angoscia sparisce.
Dopo un paio di ore un infermiere si siede accanto a me, mi misura la pressione.
‘Il tuo amico Marcello ha avuto un grave attacco epilettico, lo cureranno nell’ospedale militare di Udine, stai tranquillo, dice.’
A Marcello, dopo che si è ripreso, hanno raccontato tutto l’accaduto e soprattutto quanto fossi disperato nel vederlo star male commovendo tutti i cuori di pietra della caserma.
Lui non ricordava nulla. E ora era lui che si preoccupava per me, chiedendo informazioni continue.
Ciao, Andrea
Palmanova, Maggio 1968
Cara Irene,
sono andato in bagno in mutande mettendomi alle spalle l’aria satura di chiuso e disordine della camerata, non ci sono tende alle finestre ed è entrato ordinato tutto il paesaggio. Manca il pericolo di fili d’erba tra le dita, è fatto solo di asfalto, camion e camionette.
Mi sono immaginato l’espressione spaventata di mia madre nel vedermi apparire così, le sarebbe andata di traverso la colazione. L’ho combinata grossa a sottomettermi a questa triste circostanza del servizio militare, avrei dovuto trovarmi una vocazione migliore e prendere la fuga.
Non so nemmeno cosa sia la patria, mi sento un mercenario, un soldato di ventura a stare qui.
Non hanno mai ribollito di politica i nostri discorsi e se l’accennavo, la politica, ti facevo ridere e basta.
L’occupazione della scuola è stata comunque preziosa per conoscerci meglio, e annullare il gelo del distacco di età. Che poi non ho mai capito, nel nostro piccolo, perché i disastri tuoi si chiamassero ferite, e le sconfitte mie delusioni. Secondo me erano la stessa cosa, non la scampavi tu, non la scampavo io.
Ho visto in tv che in Francia fanno sul serio gli studenti, sono pure riusciti a coinvolgere la classe operaia in uno sciopero gigantesco. Adesso chi te lo spiega che l’Andrea che conosci è ridotto proprio male in un posto dove è obbligato a salutare pure chi non conosce e a tenere i capelli rasati come un monaco buddista?
Il capitano di ispezione mi ha scoperto mentre scavalcavo il muro di recinzione per uscire, sembrava aver catturato un pericoloso criminale. Non ce la facevo più a stare qui dentro.
Posso essere sincero? A me quando facevi la ribelle durante l’occupazione della scuola, eri sembrata esagerata. Come se tutto fosse studiato per vedere le mie reazioni, un test di controllo.
Ora il mio ruolo qual è? Mi autorizzi a volerti bene?
Questa notte ho sognato una mucca che mi guardava ferma in mezzo al piazzale della caserma. E io ero impaurito, ma non dalla mucca, dal fatto che potesse cadere e che avrei potuto fare ben poco per sollevarla. Poi ho avuto l’impressione che anche tu mi guardavi, ma eri leggera e avrei potuto sollevarti.
Non prendermi per pazzo. Che sogno strano. Quando ti sogno e quando ti scrivo mi sento meno solo.
Baci. Andrea.
Bologna, maggio 1968
Cara Irene ti ringrazio con ritardo per aver riportato il mio gatto a casa, suggerendo di tenerlo sotto controllo, altrimenti avrebbe continuato a fare la sua puzzolente pipì nel tuo giardino. Io ti ho detto che pure lui è uno spirito libero e mi hai mandato a quel paese. Credo che sia stata la prima volta che ci siamo conosciuti. Con l’occupazione tutto è cambiato, e hai cominciato a filare con il mio caro amico Andrea. Lui ha rilevato la mia quota d’affetto e tu hai abbandonato la mia carcassa come faceva il mio gatto nel tuo giardino con le sue piccole prede.
‘Voglio uscire in fretta da questa storia,’ hai detto durante l’ultima gita. Sei entrata nel bagno dell’autogrill con l’anello che ti avevo regalato all’anulare e ne sei uscita senza, dopo aver spinto il bottone dello scarico.
Spero tu non l’abbia buttato davvero nel water e sia stata solo finzione, mi era costato un occhio.
Abbiamo perso due notti in camera doppia senza sfiorarci, alimentando solo il rancore, di cui ancora mi sfugge la ragione. Dicevi che io non facevo abbastanza per te, troppo preso dal mio lavoro in banca, e che ero insolente come tutti i bancari. Io, scoraggiato, ti ho chiesto di sollevare i tacchi perché ci stavi mettendo sotto la mia giovane vita.
Che poi quel lavoro in banca che così ti faceva schifo mi permetteva di invitare una ragazzina come te a cena in un buon ristorante, di avere una bella automobile, e di passare un paio di giorni in hotel, invece che in campeggio con una scomoda, soffocante e ridicola tenda canadese.
Chissà se Andrea conosce la nostra storia, sono certo che non gli hai raccontato niente.
Quando ritornerò dal corso per lavorare in cassa, spero di rivederti , e spero pure che tu la smetta di negarti al telefono, io nella scrittura neppure sono troppo bravo a esprimermi.
A poterlo fare ti raggiungerei, pure con una macchina a pedali. Baci, Giulio
Pettinengo, maggio 1968
Caro Andrea mio, non ho dimenticato le settimane di occupazione passate insieme.
All’inizio sembravi uno che stesse lì per caso, non avevi nemmeno i jeans a campana come gli altri e non ti puzzava l’alito di fumo. Pensavi solo a concludere la scuola e a andartene in vacanza con la tua ombra, il tuo compagno di banco Giulio. Mi chiamavi spesso ‘piccola’, per rassicurarmi non per sminuirmi.
Ero io a corteggiarti, io a cercare le tue mani grandi mentre facevamo finta di dormire nel sacco a pelo. O meglio, tu non avevi il sacco a pelo, dormivi nel mio. Per non essere troppo alto piegavi le ginocchia e la tua bocca si incollava alla mia tutta la notte. Non riesco a capire come non ci mancasse il respiro.
E continuavano pure nel bagno della scuola, i baci, lì dove era tutto possibile.
Sono molto fiera di te, Andrea. Sul serio. C’è un mondo in ogni cosa che mi racconti, e quando finirai il servizio militare te lo dimostrerò. Chiamami più spesso, pure mia madre sa che stiamo insieme. Voglio sentire la tua voce, voglio capire perché in caserma sei tanto infelice.
Non puoi immaginare quanto ho pianto nel leggere la tua richiesta di autorizzazione per volermi bene. Nessuno mai mi aveva chiesto una cosa simile, nessuno mai mi aveva detto parole simili.
Sei di un altro pianeta, Andrè. Che Dio ti benedica.
Non so se è un buon segno che tu in sogno mi accosti a una mucca, ma conoscendo quanto sei buono e ingenuo, mi sono commossa.
Baci, Irene
Bologna, maggio 1968
Caro Andrea,
in banca sto cercando di mettere su una specie di sindacato alternativo, di base. Un sindacato che ci aiuti a superare problemi incresciosi, tipo che per lavorare in cassa sono a Bologna da quasi due mesi per un corso.
Anche se l’impresa sta diventando impossibile e rischio pure il licenziamento. Qui fanno presto a darti un calcio nel culo. Per questo vogliono tenermi lontano.
Ci vorrebbe pure qui Mario Capanna, lui è una forza della natura. Ma di noi si occupa mai nessuno, siamo considerati dei privilegiati. Io dico che siamo sfigati.
Comincio a avere nostalgia della nostra piccola Pettinengo. Andrè ti ricordi quando facevamo collezione di ragazze che non ci salutavano? Una collezione anomala che ci faceva ammazzare dalle risate, seduti fino a notte fonda, d’estate e d’inverno sui gradini sbeccati della chiesa, in compagnia di un pacchetto striminzito di sigarette da dieci.
Ti voglio bene, Andrè. C’è un posto da militare pure per me?
Giulio
Palmanova, Maggio 1968
Giulio, ti ricordi di Marcello, quell’amico di cui ti ho parlato a lungo? Dopo una bella cura in ospedale e che credo dovrà seguire per molto, è tornato in caserma. Come mi ha visto mi ha abbracciato e si è commosso. Mi sono commosso pure io.
Mi fa uno strano effetto averlo qui, è come se avessi paura che riaccada di nuovo la sua malattia e ora tendo a allontanarmi. Sono un vigliacco pauroso.
Lui che ha fatto l’artistico, ha voluto farmi un ritratto prima di tornare a casa congedato.
Su una cartellina verde presa in fureria, ha disegnato me a matita, seduto. Tutto in cinque minuti.
Che io in cinque minuti non riuscirei a disegnare nemmeno una fetta di mortadella.
Tutti hanno cambiato atteggiamento con me, è come se il mio dolore tremendo per l’ epilessia di Marcello fosse stato qualcosa di eroico. Mi salutano e mi vogliono bene.
Al bar non riesco a pagarmi un caffè, e pure quando sono solo, il barista, che è un militare come me, dice: Pagato.
Il ritratto è talmente fatto bene che Marcello deve avermi scattato una foto.
Ciao.
Andrea