***
Camminiamo.
Il forte è lì, un centinaio di metri più avanti, disegnato in mezzo a questo paesaggio bucolico che è il quadro del nuovo giorno. L’erba è morbida e sottile, accarezza le ginocchia mentre avanziamo senza fretta, colmando la distanza con quel senso di tensione che frena i nostri passi, li rende più pesanti del dovuto.
Cerco di non pensare a nulla, di dividere le occhiate tra il cielo terso e il sole che incomincia a scaldare, con quella brezza leggera che è piacere puro, tra la parete rocciosa che sta dietro il forte e i segreti che protegge.
Piccoli cirri allungati punteggiano l’azzurro sopra le nostre teste ed è tutto genuinamente bello.
Sembra una passeggiata in campagna invece di una mascherata di vita o morte.
Sembra la vita prima di questa follia che abbiamo scelto di fare: Illumina, il paradiso, l’inferno.
“Ricordatevi una cosa,” scandisco recuperando la concentrazione, “Dentro il forte dobbiamo stare più lontane possibile dalla recinzione, cioè andare verso il centro dello spiazzo. Sigrid non ha visuale entro alcuni metri dal perimetro. Ricordiamocelo, per favore.”
Il forte diventa sempre più grande man mano che ci avviciniamo.
È una struttura semplice, basilare, pure efficace. Grossi blocchi di cemento poligonali affiancati, alti un paio di metri, ne contornano il perimetro per tre lati; sopra di essi, il recinto elettrificato di cinque o sei metri che tiene fuori le bestie feroci. Piccole luci rosse lampeggiano a intervalli regolari, sulla sommità, a indicare che la corrente è in circolo.
È troppo il set di un film.
“Tranquilla,” un gesto della mano come a minimizzare, “Non stare tesa che è peggio.”
Jade espira inquieta. “Ho un’ansia che non puoi capire.”
“Pensa che lo hai già fatto altre volte e che è solo routine.”
“Ero tesa uguale anche le altre volte. Io le odio quelle. Le odio.”
“Le odiamo anche noi. Ma in questo momento siamo le brave vassalle che portano un gradito regalo.”
“Ansia.”
Ansia, sì.
La sento crescere, prendere forma e camminare con noi. È un’ansia feroce, pungente, mischiata alla paura di morire.
Siamo già state notate di sicuro, da un pezzo; la figura della sentinella sulla garitta si scorge, un po’ defilata, mentre scruta nella nostra direzione.
Inspiro ed espiro.
Lucilla invece sembra tranquilla. Chi la spaventa quella? Quando hai Dio che ti protegge di cosa cazzo devi avere paura?
Inspiro ed espiro.
Il forte si avvicina e così il cancello. È uno di quei portoni a scorrimento, in ferro battuto, sormontato da un piccolo arco di cemento che fa da tettoia; c’è del cavo elettrificato anche lassù, che queste bastarde non lasciano nulla al caso.
Inspiro ed espiro.
Il cuore sta galoppando per fatti suoi e non ho il coraggio di fare alcun esercizio di rilassamento: ogni fibra di me sta pensando e ripensando a quello che succederà tra poco, le parole da usare, i gesti da fare e non fare, gli sguardi.
L’ansia.
Una tensione che mi sta ammazzando.
Vorrei che tutto andasse più veloce, iniziare in fretta, togliersi il pensiero.
Vada come vada.
Togliersi
il
pensiero.
“Ci siamo.”
Vorrei correre, accelerare. M’impongo di continuare a passo tranquillo, calmo. I battiti del cuore li sento fin nella gola.
Siamo al portone, alla recinzione. L’erba cede il posto alla sabbia. Saetto lo sguardo, febbrile, a ogni dettaglio, cercando il posto migliore dove lasciare il mio regalo esplosivo. La carica nella tasca sembra bruciare, pesare una tonnellata.
Jade espira, solleva un braccio verso la sentinella nella garitta; la ragazza sporge, ci osserva per un attimo, aggiusta il berretto sulla testa, poi ricambia il saluto e dà voce all’interno.
Dio, l’ansia.
Mi tremano le gambe.
Sono rigida come un blocco di marmo e mi vibra la zona dell’ombelico.
Tutti i pensieri negativi del mondo stanno ruminando in quella parte del ventre e ogni cosa che può andare male ora va male, in una serie di flash che tempestano la parte razionale della mia anima. Moriremo e sarà una brutta morte.
Lenta.
Dolorosa.
Ansia.
Uno scatto metallico e il cancello inizia ad aprirsi, da sinistra verso destra. Scorre sulle guide e un lampeggiante giallo prende vita sulla sommità.
“Lu,” getto un’occhiata febbrile in alto, alla garitta, dove la guardia si scorge appena. Un passo avanti e non potrà più vedermi se non sporgendosi di proposito. “Lu, davanti a me.”
La strattono senza delicatezza perché si metta davanti, la mano va alla tasca destra.
Trema, la mano.
Sto tremando come una pazza.
Vorrei tornare indietro, annullare tutto.
Tornare indietro.
Sto tremando.
La carica mi sembra di colpo enorme, visibile sotto la pelliccia del gonnellino, palese, evidente.
Stiamo facendo una cazzata colossale.
Il cancello scorre, lento.
Il giallo intermittente del lampeggiante.
“Me la sto facendo addosso,” la voce di Jade è un sussurro.
Ora, l’impulso è quello di agire, non farsi paralizzare dalla paura.
Ora, adesso o mai più.
Spingo Lucilla avanti, proprio a ridosso del cancello che è a metà percorso, le rimango incollata alle spalle.
La mano trema incontrollabile mentre la affondo nella tasca e stringo la carica, mentre faccio scattare l’interruttore che arma l’esplosivo.
Siamo sotto l’arco, la garitta non può vederci, è un punto cieco.
Dio, se esisti aiutami.
Ora o mai più.
Tolgo la carica di tasca, la getto a terra, a destra, proprio accanto al cancello che intanto scorre aprendo il passaggio. Col piede ci butto sopra della sabbia.
Ti prego, fa’ che funzioni.
Sto tremando e non riesco a smettere.
Espiro forte, mordo le labbra.
Ci siamo.
Sta per iniziare.
La recita della vita o della morte.
La carica è nascosta, non si vede, è sotto la sabbia. Non possono vederla. Non mi hanno vista farla cadere, non possono avermi vista. Sono dietro il cancello e la garitta non ha visuale in questo punto.
Non possono avermi vista.
Non possono.
Non
possono.
Dio aiutaci.
Il cancello termina il suo cammino con un clangore. Lo spiazzo del forte si apre davanti a noi, le casupole e la sala comune delle Erinni, poi lo sfondo della parete di roccia parecchio più avanti.
Ci siamo.
Due di loro, fucili automatici nelle mani, attendono appena al di là del cancello ora aperto. Sono due ragazze giovani, abbigliamento da fatica verde cupo e il corpetto beige che vestono tutte loro. I due segni di pittura color carbone, orizzontali, sulle guance.
La coroncina nera e le due piccole ali da pipistrello al lato del capo, il loro inconfondibile appeal.
Sono una forza organizzata.
Hanno un’uniforme, un corpetto, persino un copricapo.
Sono una cazzo di forza organizzata.
Noi solo tre cretine che hanno pensato di poter fottere le signore assolute di Illumina.
Tre cretine.
Dio aiutaci.
Una delle Erinni accenna con un sorriso scaltro mentre entrambe ci squadrano con tranquilla attenzione, i fucili tenuti bassi, più di tutto squadrano Lucilla e il suo look improbabile. “Preso un’altra delle nuove, ragazze?”
Trattengo il respiro.
Jade.
Lei tace. Fissa il vuoto e tace.
Jade ti prego.
Ti
prego.
Jade.
Jade.
Jade.
Riempio i polmoni per rispondere al posto suo: non occorre.
Lei si anima di colpo, in viso un’espressione allucinata che non è sua; agguanta Lucilla per un braccio e la strattona brusca, facendola incespicare. “Queste,” mormora con aria grave, occhi vibranti, “Sono dei diavoli. Ci stanno facendo sudare sangue.”
Silenzio.
Da dove ha tirato fuori questa grinta non riesco a immaginarlo.
Le due Erinni non sorridono più; si guardano stranite per un attimo, guardano lei, guardano me, si accorgono della vistosa fasciatura che mi copre parte del volto.
La stessa che ha parlato prima accenna verso la compagna: “Chiama Porsha.” Mentre quella s’avvia trafelata fa cenno d’entrare. “Venite.”
Porsha.
Cominciamo bene.
Spingo Lucilla avanti, varchiamo il cancello, siamo dentro. Siamo nel forte delle Erinni.
Siamo nella tana del lupo. Della vipera.
Radiosa si ferma di colpo, devo fare lo stesso: ci ritroviamo a fissare entrambe davanti a noi, nell’ampio spiazzo sabbioso, dove una croce a forma di T è stata piantata nel terreno. Sulla croce c’è, appeso per i gomiti, un corpo di donna, svestito. Una ragazza sporca di terra e dai capelli scuri e madidi.
Ha gli occhi chiusi, respira con difficoltà.
Dio Santo.
L’hanno appesa lì, in bella vista, al sole.
Per un attimo ho orrore che possa far parte della nostra squadra ma non credo di conoscerla. Anche se ho pochi ricordi delle facce delle altre, lei non mi sembra di averla mai vista.
Apre gli occhi ed è come se pura sofferenza le sgocciolasse fuori dalle palpebre: in quello sguardo c’è la stanchezza ultima e totale di chi non ha più niente da dare al grande male che se l’è presa.
Dev’essere stanca all’inverosimile di patire qui dentro. Come certe malattie, le Erinni le hanno portato via ogni residua volontà di vivere.
Dio Santo.
“Muoviti,” il richiamo di Jade è per Lucilla ma anche per me, l’occhiata che lancia è un monito a non commettere errori, non farsi impressionare da cose che qui sono normali. Che lei ha già visto ma noi due no.
Spingo Lucilla avanti, cercando di non guardare la creatura torturata che respira a fatica, la posizione terribile in cui è vincolata.
Non è delle nostre, mi ripeto, non è dell’Ondata 9.
Devono averla messa lì stanotte o stamattina presto, perché ieri sera non c’era, l’avremmo vista dall’alto.
Deve aver fatto qualcosa che ha contrariato le signore di Illumina, o magari è solo sadismo.
Chiunque lei sia.
Aggiriamo la rozza croce, passi lenti verso il centro del grande spiazzo sabbioso del forte; m’impongo di non voltarmi a guardare, di procedere a stima, sperando di non restare troppo vicine alla recinzione.
Le Erinni ci guardano.
Spuntano dalle casupole, dalla loro sala comune, il lungo edificio prefabbricato che è il cuore del complesso, scrutano e osservano dalla distanza, appoggiate alle pareti, feline, attente.
Ci fermiamo dove l’accompagnatrice impone mentre quella si sposta ancora più avanti, rivolta verso gli edifici, in attesa; scandaglio il terreno alla ricerca della hot-box: è lì, a pochi metri, impossibile dire se piena o vuota.
Immagini di noi tre appese a una croce davanti all’ingresso martellano le tempie spacciandosi per premonizioni d’un futuro imminente.
Brivido.
Ho freddo e caldo assieme.
Eccola.
La figura che emerge dall’angolo della sala comune, scortata da un trio di altre, può essere solo la comandante del forte.
Jade ravvia i capelli in un gesto nervoso, mi guarda con due occhi che sanno d’inquietudine abissale.
“È tutto okay,” mormoro fingendo una calma che non ho.
“Me la sto facendo addosso.”
“Stai tranquilla.”
Annodo e snodo il guinzaglio di Radiosa dalle dita; il piccolo capannello di Erinni si avvicina, senza fretta, ogni passo un battito deciso del mio cuore. Porsha ascolta le gesticolanti congetture di un’altra che le cammina a fianco.
Non lo so quanto reggo ancora questa attesa.
Non lo so.
Ciondolo un piede, guardo intorno, passo la lingua lungo tutta l’arcata dei denti.
Non lo so.
Mando un’occhiata dietro, con discrezione, alla croce e alla poveraccia appesa, ma in realtà più oltre ancora, alla boscaglia in lontananza, alla zona approssimativa dove Artemis dovrebbe stare vegliando su di noi dietro la lente del fucile.
Ci siamo.
Due parole che vibrano dentro, accendono il respiro, fanno tremolare fibre e nervi che neanche immaginavo d’avere.
Ci siamo.
Si fermano a un paio di passi da noi.
Porsha è una donna sulla quarantina, di media altezza, dal fisico slanciato, non muscolare ma egualmente allenato. Per l’età che ha ostenta una bellezza di quelle che colpiscono i sensi: il viso forte, leggermente squadrato, con gli zigomi pronunciati e due fosse sotto le gote, è la cornice di occhi scuri e affilati.
I capelli, di un castano scurissimo, tagliati corti appena oltre la nuca, le stanno sul capo con ordine, lisci, quasi senza volume, asimmetrici.
La tenuta che indossa ricorda una qualche uniforme militare desueta: giacca leggera e lunga fino alle ginocchia, impermeabile, aperta, tinta oliva, sopra una maglia da fatica bianca; calzoni oliva impeccabili, stivali neri alti. Ha persino delle spalline dorate e mostrine sul collo della giacca, non riconosco la simbologia.
Niente pitture sul volto, non porta neppure il corpetto protettivo: da cosa dovrebbe proteggersi qui dentro, in una fortezza con recinzioni elettrificate?
Non sembra ostentare le ali di pipistrello che sono il marchio della sua dannata fazione, poi invece sì: due monili di quelli che si agganciano sopra l’orecchio, a forma d’ala, oro nero.
Gioielli.
Veri.
Questa ha dei gioielli col simbolo delle Erinni.
Nonostante la tenuta militaresca ha un’eleganza impressionante che orpelli e dettagli esaltano solo di più. Fin troppo facile immaginarla in tailleur e tacchi bassi, in tribunale, a mangiare anime umane con nulla più d’un sorriso accennato.
Non ha l’aria di una che sa ridere.
Piantata sulle gambe come certi ufficiali che ho visto solo in foto, passa in rassegna le nostre figure con un singolo, lento, scorrere d’iridi.
“Buongiorno.” La sua voce è cadenzata, precisa, forse un pelo meno acuta di come l’avevo immaginata, senza alcuna inflessione. Occhi attenti continuano la loro indagine sotto sopracciglia sottili e curate.
“Buongiorno a te, Porsha,” Jade china il capo in un gesto di rispetto, mi affretto a imitarla.
Scruta Lucilla inclinando appena il volto, come guardasse un animale esotico. “Dove l’avete presa?”
“Nei boschi qui intorno, Porsha. Vicino al torrente, sul sentiero delle Viole, dove ci sono le rocce scure che…”
Zittisce Jade con un cenno elegante delle dita; allunga una mano guantata e col solo indice sposta il mento di Lucilla verso destra e poi sinistra. Sembra quasi che toccarla le faccia schifo, forse questo spiega i guanti.
Si guardano, lei e Radiosa, come specie aliene. Prego non faccia nulla di avventato.
“È la suora,” mormora l’Erinni al suo fianco, “Atreja ha detto che…”
“È la più pericolosa, sì.”
La più pericolosa. La suora. Considera lei più pericolosa di me, Atreja.
Che colpo basso.
Veramente una bassezza.
“Dov’è Tania?” Freddo improvviso. “Come mai non è venuta?”
Jade mi raccomando.
Jade.
Respiro profondo.
“Sta inseguendo le fuggitive, ha mandato noi.”
Silenzio.
Aggiungi dettagli.
Si vede già che la risposta non va bene. Non basta.
Jade.
Cristo.
“Atreja vuole tre fuggitive, io voglio tre fuggitive, e Tania me ne manda una sola?”
Jade.
Respiro.
“Nessuna ci ha avvisate, Porsha! Ci siamo imbattute in queste cagne mentre seguivamo il torrente, non sapevamo ci fossero avversarie nel bosco!”
Silenzio.
Dove cazzo stiamo andando a parare.
Madonna.
Ansia.
Porsha guarda di sottecchi l’attendente al suo fianco. “Non avete informato le guardaboschi che cercavamo tre nuove?”
Quella incupisce, storce le labbra. “Atreja non pensava che sarebbero venute qui.”
“Atreja non vorrebbe sentire che le sue indicazioni vengono prese alla leggera, Arpa.”
“No. No, infatti.” Schiarisce la voce. “Posso mandare subito una squadra ad aiutare Tania.”
“No,” stesso gesto elegante della mano, “Le guardaboschi sono all’altezza di catturare due nuove spaventate e quasi disarmate. Anche se sono dei,” occhi virano lenti su Jade, “Diavoli.”
Saliva che scende nella gola.
Forza, ragazza-procione.
Lei si scuote lievemente, mostra un palmo, “Ci hanno messe in difficoltà. Questa,” indica Lucilla, con foga, “Ha molta più forza di quanto sembri, è stato difficile sottometterla.”
Occhi virano su di me.
Freddo.
Porsha inclina il capo, la guardo nelle iridi solo per un momento prima di abbassarle rispettosamente. Accenna verso la mia testa ferita.
“È stata lei a farti questo?”
Dio.
Sì o no.
Se dico sì la punirà? Se dico no? Cambierà qualcosa?
Sì o no.
La voce mi esce rotta, schiarisco il tono, inseguo mentalmente la cadenza di Foxx, non la trovo, Dio aiutami.
“No,” digrigno i denti in quel modo che ho visto fare alla volpe, “Una troia vestita da soldato. Molto forte.”
Silenzio.
Ti prego fa’ che non sappiano distinguere la voce di Foxx.
Ansia a mille.
Le Erinni mi guardano. Porsha mi guarda. La mia faccia è troppo diversa, il bendaggio non ha funzionato. Se metto la mano nel reggiseno per cercare il telecomando mi sparano prima. La mano trema.
Se alzo le mani Sigrid spara. Se ne uccide una, due, le altre ci fanno a pezzi comunque.
Non so che fare.
Ansia.
Cuore a mille.
“Non vergognarti,” il tono di Porsha scende su una gradazione più lieve, compassionevole, mellifluo, “Tutte commettiamo errori. L’importante è rimediare.”
Annuisco appena. “Sì, Porsha.”
Lei si muove, un passo avanti e poi di lato, come volesse una visuale migliore, senza la prigioniera tra me e lei.
“Vestita da soldato?”
Ansia.
Annuisco di nuovo.
“Bizzarro.” Si accosta a Lucilla, occhio clinico. Con due dita e una certa riluttanza solleva e lascia ricadere un lembo della sua maglietta sudicia. “Dove hai preso questi vestiti, ragazza?”
Silenzio.
Altra strada pericolosa.
Lucilla non risponde; fissa senza soggezione la comandante del forte.
Non ha paura. Non un filo. La sto invidiando da morire.
“Forse hanno trovato una cassa di rifornimenti,” azzarda l’altra donna.
Porsha solleva un sopracciglio; indica col mignolo guantato la t-shirt nera di Lucilla. “Trovando una maglietta con la croce per la suora e un completo militare per la soldatessa? Forzata come coincidenza.”
Oddio.
“Perché Atreja dice,” inclina di nuovo la testa, scruta Lucilla con aria spiritata, “Che i tuoi vestiti e quelli della soldatessa sono appesi sulla Rupe, ora, sono stati offerti all’isola. Curioso che ne abbiate di nuovi e adeguati.”
Guardo Jade, di sottecchi, lei guarda me. Non ho idea di cosa cazzo fare o dire. Se è il momento di far saltare la carica.
Se aspettare.
Leggero tremore al ginocchio.
Tensione.
Lucilla prende un respiro delicato, china appena la testa ma non in segno di rispetto. “Dio non fa mancare nulla a una Sua devota serva.”
Silenzio.
Nella mia testa visualizzo un qualcosa di brutto, un calcio, uno schiaffo, dritto sul viso angelico di Radiosa: non succede nulla.
Vuoto.
Porsha si scuote con un sospiro, sbatte un paio di volte le palpebre, si volta verso l’attendente. “Sembra decisamente la suora, al di là del colore dei capelli.”
“Lo verifichiamo?”
“Lo verifichiamo.” Un gesto del braccio, autorevole, verso le sue guerriere lì intorno. “Prendete l’altra.”
Brivido.
Queste mo’ hanno il dubbio che Radiosa non sia Radiosa. È tutto grottesco.
Il capannello di Erinni si sfalda mentre diverse di loro si avviano alla botola; quando la hot-box viene aperta, quando la ragazza dalla criniera leonina viene presa e tirata fuori di peso, quasi esanime, realizzo che non è in condizione per poter affrontare una fuga.
Non è in condizione.
Proprio per un cazzo.
Trasportata per le braccia un pietoso strattone alla volta, Cerbera, non ricordo il suo nome vero, è un corpo coperto di sudore e i resti laceri della sua tenuta da battaglia: una maglietta bianca dei Knights e un paio di jeans a brandelli, scalza. La cascata dorata che è la sua chioma le spiove sul capo e le spalle coprendone i tratti.
La scaricano sulla sabbia come un sacco di rifiuti e, per un lungo attimo, l’unico segno di vita è il ritmico sollevarsi e calare della sua schiena. Non oso immaginare cosa significhi passare un giorno e una notte sepolta viva.
Non lo voglio immaginare.
Porsha si china leggermente, una certa espressione di disgusto sui tratti eleganti: “Tiratela su.”
Mani brusche afferrano Cerbera per le braccia, la strattonano fino a obbligarla sulle ginocchia, la testa le ciondola sul petto.
“Basta,” mormora con la bocca impastata e gli occhi chiusi, accecati dalla luce, “Basta, basta…”
“Basta cosa, ragazza? Basta hot-box?”
Annuisce, tragica, un boccheggio sofferente che fa male pure ai miei polmoni.
“Basta…”
La stretta alle viscere si fa più tosta.
“Basta, basta, vi prego, vi supplico…”
Porsha cambia inclinazione del capo; accenna verso una delle tirapiedi e una borraccia viene stappata, la testa di Cerbera sollevata e un sorso d’acqua lasciato cadere tra le labbra. Guardarla rianimarsi di colpo, febbrile, bere quel poco che le riesce, quasi strozzarsi nella foga, è orribile. È iniquo. Fa male dentro.
La borraccia scompare di nuovo nelle mani delle carceriere.
“Acqua…” La voce è rotta, senza tono. “Acqua, per favore…”
Un indice le viene martellato sulla fronte in gesto di scherno.
“Taif,” Porsha schiocca le dita anche se il guanto toglie valore al suono, “Guardami, Taif. Guardami.”
Il modo sofferto in cui apre gli occhi fa male dentro anche di più.
“Devi fare una cosa per me, Taif, una cosa semplice.” Le si scosta da davanti, stende un braccio ad indicare Lucilla il cui sguardo, di fronte alla sofferenza della poveraccia, è cambiato, ha assunto toni più preoccupati.
“La riconosci, Taif?”
Cerbera sforza gli occhi, un rantolo di dolore. In quelle condizioni non distinguerebbe un dito da un cannone, ma con discrezione mi sposto quanto basta perché Lucilla mi copra: non voglio pensare alla scena in cui questa disgraziata riconosce pure me. Follia.
“La riconosci?”
Lei annuisce appena, un filo di saliva al lato della bocca.
“Sai il suo nome?”
Un singulto la scuote, serra gli occhi tra dolore e sopportazione. “Radiosa…”
“Hai visto? Abbiamo preso anche lei, Taif. L’abbiamo presa, la tua squadra non esiste più. Ora anche lei,” tende di più la mano, fin quasi a toccare il viso di Lucilla, “Anche lei attraverserà il tuo stesso percorso e deciderà. Deciderà se nutrire l’isola o sottomettersi. Tu hai fatto la tua scelta, Taif?”
Silenzio carico.
Non sento più l’ansia, o non nel modo di prima: ha lasciato spazio a una sorta di tensione marcata, uno stato d’attesa, di dubbio, che ha sigillato panico e sconforto dietro una barriera di vetro. Ho paura ma la paura è incanalata su binari di razionalità.
Taif annuisce appena, gli occhi socchiusi.
Porsha toglie dalla tasca della giacca il telefono, uno smartphone dal vanitoso color lilla, intorno è un cicaleccio di soddisfazione e frenesia che solo il suo gesto della mano, ormai consueto, quieta.
La comandante del forte si china perché il relitto di donna che è la nostra compagna di squadra sia l’unico oggetto della ripresa.
“Comunione o sottomissione, Taif?”
Perché la rete veda in diretta la distruzione fisica e morale di una delle ultime dell’Ondata 9. La sua umiliazione finale, quale che sia la scelta.
“Sottomissione…”
Lo dice tra le lacrime.
Porsha sorride appena, le Erinni prorompono in un verso di furia ed esaltazione, un pugno alzato all’unisono.
“Sottomissione,” ripete la donna in uniforme oliva, si rialza, volta lenta sul posto perché l’inquadratura spazi su tutte noi, in cerchio, un’esibizione di trionfo.
Sembra assurdo credere che siamo dentro uno spettacolo, uno show, che la rete ci stia guardando e trovi tutto questo appagante, spaventoso o normale. È assurdo. Stiamo recitando in un teatro dell’assurdo.
Per un premio in denaro, ancorché cospicuo, ci stiamo scannando fino a questo punto, fino ad appendere donne a una croce o sottometterle con torture da Far West.
“Lei alla Porta,” Porsha gesticola con eleganza, “Lei, invece,” indica Lucilla, stesso sguardo vagamente disgustato, “Nella botola.”
“No!” L’espressione di Radiosa cambia di colpo: i tratti si sciolgono in una maschera di paura e sofferenza. “Non voglio andare lì dentro!” La determinazione, l’indifferenza, svaniscono come neve al sole: adesso è solo una ragazzina che ha paura di soffrire.
Mani forti la afferrano per le braccia, lei si divincola.
“Per favore, per favore!”
Devo fare qualcosa. Intervenire. Premere il dannato telecomando.
Sarà il momento? Se rovino tutto?
Tensione.
Agitazione.
Lucilla si butta sulle ginocchia, il viso contratto, attonito. “Sottomissione!” Le Erinni cercano di rialzarla, lei rimane a corpo morto. “Sottomissione! Scelgo la sottomissione!”
Flash.
Attenzione.
L’ho già vista fare così una volta. Sciogliersi d’improvviso, crollare psicologicamente.
Lo ha già fatto una volta.
Stavamo per andare a morire nude giù da un ponticello d’assi: ha voluto andare per seconda mettendosi a piangere, ha salvato la situazione. Ha salvato il mio culo.
Sta rifacendo lo stesso gioco e io di nuovo non avevo capito.
Sta facendo l’unica cosa che può fare per aiutarci: catalizzare l’attenzione. Attirare tutti gli sguardi su di sé. Mentre scalcia e si butta in ginocchio, piagnucolando, mentre due poi tre Erinni la trattengono e cercano di trascinarla, tutto il forte sta guardando la scena.
È il momento.
Caccio la mano nella scollatura, chiudo nel pugno il telecomando, lo porto fuori e tengo nella mano celata contro la gamba.
Vorrei avvisare Jade ma la cretina è a sua volta imbambolata a guardare la scena.
Ora premo, scoppia la carica, danneggia il portone, Sigrid abbatte la sentinella sulla torre, inizia il panico. Non so come farà Cerbera a correre, non può correre. Non può farcela.
È un piano di merda.
Capiranno in tempo zero che la carica l’abbiamo messa noi.
Ci crocifiggeranno tutte.
Dovevamo tornarcene alla torre.
Nasconderci e aspettare.
Aspettare.
Pregare.
Sperare.
Vivere.
Fanculo a tutto.
Premo il bottone.
Clic.
Addio.
***