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SUPERPREDATORI - parte 33

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Messaggio Da Fante Scelto Lun Ago 16, 2021 12:46 am

***


Capitolo 8
 
Frammento 13 – Intercettazione telefonica (Caterina Morabito, psicologa)
 
“Buongiorno, cara! Come andiamo oggi?”
*sospiro*
“Insomma.”
“Ancora le confabulazioni?”
*silenzio lungo*
“Sì.”
“Stai facendo gli esercizi di auto-dialogo che ti ho prescritto?”
“Sì.”
“Allora vedrai che presto spariranno. Ti attende una grande avventura sulle isole, una possibilità di cambiare direzione alla tua vita.”
“Sì.”
“Laggiù io non potrò assisterti, cara, per cui dovrai mettere a buon frutto il lavoro che abbiamo svolto in questi mesi. Negoziare con te stessa l’accettazione delle tue azioni, darti degli obiettivi, soprattutto creare dei legami. Sai quanto sia importante questo ultimo punto.”
“Okay.”
“Sarai in una squadra, altre ragazze come te con le quali dovrai collaborare per la sopravvivenza e la buona riuscita delle vostre attività. Io non voglio che tu ti chiuda, che ti isoli, che torni ad avere pensieri negativi: interagisci con le altre, confrontati, mettiti alla prova. Soprattutto, sii curiosa e interessata alle altre. Intese?”
“Intese.”
“Molto bene. Mancano pochi giorni alla partenza, per cui continua a lavorare su te stessa e non dimenticare che anche sulle isole potrai continuare a fare pratica: i produttori dello show mi hanno confermato che, per via della tua particolare condizione giuridica, non ti sarà assegnata una personal-cam. Nessuno potrà seguire direttamente la tua traccia visiva, e questo ti darà maggior privacy e più serenità, ritengo.”
“Certo.”
*silenzio prolungato*
“Non devi avere timore del giudizio degli altri, tesoro. Ricordi cosa abbiamo detto? La vita è tua e tue sono le scelte che hai fatto, comunque relegate al passato. Ora è tempo di andare avanti e mostrare al mondo che una donna è in grado, più degli uomini, di affrontare una sfida di questo spessore con un’esperienza terribile come la tua alle spalle. Io voglio questo da te, mia cara: dimostriamo insieme che la psiche femminile ha più resilienza di quella maschile. Sei il fulcro del mio prossimo libro, e vorrei che tu fossi un fulgido esempio di quello che intendo: la società delle donne, la liberazione dagli schemi del patriarcato. Posso contare su di te?”
*silenzio*
“Sì.”
“Crea dei legami. Sii propositiva e costruttiva, crea empatia verso le altre, e vedrai che il tuo passato non avrà alcun peso. Il vincolo sentimentale che unisce le donne è più forte di quello tra gli uomini, solo più difficile da cementare. Sono sicura che in questo viaggio terribile svilupperai quella comprensione dell’emotività che hai sempre, non per colpa tua, mancato.”
*respiro denso*
“Caterina.”
“Dimmi, cara.”
“Grazie di credere in me.”
“Tutte commettiamo errori, tesoro. Per quanto siano gravi i tuoi, non deve mancarti un dovuto supporto.”
“Mi odieranno tutte.”
“Non ti odieranno. L’odio è maschio, Serenity, l’amore è la nostra vera essenza. L’amore l’una per l’altra. Ricordalo sempre.”
 
***
 
Fanculo a tutto.
Premo il bottone.
Clic.
Addio.
 
BOATO.
 
L’effetto di un’esplosione è subitaneo, violento. Non ti lascia il tempo di ragionare, pensare, capire: senti solo il mondo che cambia d’improvviso e tutti i sensi che si annullano in un misto di paura, adrenalina, panico, soggezione, persino catatonia.
Ne ho vissuti di scoppi in Afghanistan.
Qui è diverso.
Qui è un’altra cosa.
Forse perché è Illumina o forse perché, per una volta, sono io ad aver premuto il fottuto bottone.
 
BOATO.
 
È come se, nell’istante esatto della detonazione, il mondo si fosse fermato. L’isola si fosse fermata.
Posso quasi vedere, con gli occhi della mente, il fiore rosso aranciato che spande fuori dalla carica. È una fenice fiammeggiante che germoglia dalla sabbia.
Un miraggio di potenza ed energia.
È un pugno infuocato che scardina il cancello, lo piega, lo straccia come carta, un uppercut bollente che sfonda l’arco di cemento soprastante, che scaglia in cielo i lapilli dell’Etna e in terra la cenere dello Stromboli.
È tutta la rabbia e la fame di rivalsa che c’è nel mio cuore scatenato.
È il caos primordiale.
Il messaggio che ho deciso di portare a questo luogo di umiliazioni e paura.
Io
vi
distruggo
tutte.
 
BOATO.
 
È un attimo.
Lo scoppio, milioni di decibel di botto nelle orecchie.
Un attimo di nulla, poi il tutto.
L’onda d’urto spazza il piazzale in un secondo, m’investe la schiena, è un colpo di bora bollente. Il terreno sotto ai piedi svanisce e prendo il volo con le braccia aperte. Sono un angelo, un gabbiano, un albatro, uno pterodattilo, una fottuta poiana malevola. Una volpe aerea.
Prendiamo il volo. Tutte quante.
Dieci, quindici donne sparate per un paio di metri attraverso l’aria e scaraventate sulla sabbia, di faccia, di schiena, come viene. Urto cose e persone, annaspo, è un volo pazzo di due secondi netti che sembrano durare all’infinito.
Rotolo, mi piego, sbattuta e strizzata, rovesciata, sono una tessera del domino, siamo una quindicina di tessere soffiate via con un compressore.
È l’emozione più assurda e folle che abbia mai provato. La devastazione dei sensi. La cosa più potente che abbia mai sperimentato sulla pelle.
Tutto l’Afghanistan è nulla
confronto
a
questo
fottuto
botto.
 
Silenzio.
Fischio assordante.
 
Smanaccio la sabbia nel momento esatto in cui riprendo il controllo di me stessa. Un’adrenalina scatenata muove il mio corpo, lo fa lottare per ritrovarsi, connettere, ricreare un equilibrio anche precario. Pianto le ginocchia nella sabbia calda, mi sollevo e poi alzo, incespico.
Non sento niente.
Le orecchie fischiano e urlano assordate dal boato.
La polvere, Dio, la polvere. La sabbia s’è alzata in una cortina totale e ottundente, oscurando la luce e ingolfando i polmoni.
La paura di essermi piantata qualcosa nella carne è niente confronto allo stimolo d’agire: è il nostro momento, l’unico che abbiamo.
Ho ancora il telecomando tra le dita: non so come l’ho tenuto nel pugno, la mano non s’è aperta nel marasma. Lo caccio in tasca alla cieca.
Non potevo immaginare una scena del genere, una botta del genere, un trionfo bellico.
Non potevo immaginare.
Barcollo, incespico, mossa dall’istinto, l’adrenalina. Quante di queste stronze avranno mai visto un’esplosione nella loro vita? Io le ho vissute in Afghanistan, in Cirenaica, ci sono finita sopra con un blindato. Non guidavo io.
Intorno è un carnevale di corpi che fremono e lottano per rialzarsi, di ombre, di marionette impazzite. Sto tossendo come un demonio senza riuscire a sentirmi.
Agguanto la figura al suolo che nella polvere mi sembra Lucilla, la sollevo, è un’Erinni che annaspa e tossisce a sua volta: la ributto per terra e passo oltre.
“Lu!”
Non posso sentirmi, se grido, se impreco, è solo caos.
“LU!”
Le inciampo sopra e cado di peso, un ginocchio spedito tra i reni.
“Lu!”
La afferro e sollevo e la sua espressione è drammatica: ho fatto più danni della bomba con una semplice ginocchiata. Mi viene da ridere, da ridere come una cretina, mentre cerco di alzarla da terra.
“Dai, cazzo!”
Non mi sento, non sento quel che biascica, vedo solo le sue labbra muoversi a vuoto; lo scoppio le ha slegato una mano mentre l’altra rimane vincolata al bastone: la libero con un paio di strattoni decisi.
“Andiamo, andiamo!”
La reggo, ci reggiamo a vicenda. Non so dove sto andando, ho perso l’orientamento, cammino e barcollo verso dove credo si trovino gli edifici; la sabbia sta scendendo e si vede a tratti. Si vede appena.
Non trovo Jade, non trovo Cerbera.
Superiamo un’Erinni che, in piedi e col fucile, si sta levando la terra dagli occhi e non fa caso a noi.
Figure corrono dalla direzione opposta, confuse col polverone, una mi agguanta per un braccio: un’Erinni dall’aria attonita, una di quelle che devono essersi precipitate fuori dagli edifici per portare aiuto.
“VAI!” Le urlo gesticolando indietro, frenetica, senza sentirmi, “Pensa alle altre! Io sto bene! Pensa alle altre!”
Non sarei in grado di combattere, non in questo momento. Vattene, cazzo, sto bene, pensa alle tue fottute amiche, alle tue fottute amiche.
“VAI, VAI!”
Mi lascia, spaesata, forse neanche ha capito che sono la Volpe e non una di loro, si precipita oltre. Realizzo con orrore che parte del bendaggio alla testa s’è svolto e ora penzola libero. Sono una cazzo di Tutankhamon che prega gli dei d’Egitto di trovare una via d’uscita dal caos.
Non so che fare, se continuare ad andare verso le case, se fermarmi e cercare Jade e Cerbera.
Non capisco, non connetto.
La polvere scende, ora si vede, si vede quasi.
La nostra copertura è vicina alla fine.
Cerbera non può correre, Jade deve cavarsela da sola.
Dio, le scelte del cazzo che si devono fare in pochi secondi e col cervello a pezzi.
Dobbiamo arrivare alle casupole e fare quello per cui siamo venute. Farlo in fretta, fottutamente in fretta.
“Ehi!” La voce arriva tagliente come una lama e stavolta la sento, la sento nonostante il fischio. “EHI!”
Un’Erinni ci viene incontro di fronte, fucile in mano, teso, un’altra dei soccorsi che però ha subodorato qualcosa, non ci riconosce, il polverone ormai è solo pulviscolo nell’aria, sono Tutankhamon con le bende che svolazzano, non le tornano i conti, e Cristo.
Cristo santo.
“EHI!”
Fottute, siamo fottute.
Ci reggiamo a vicenda, noi, i passi incerti, faccio l’unica cosa che mi viene in mente: scaravento Lucilla a terra, mi ci fiondo sopra come un cane da caccia, buttata su di lei, un braccio bloccato dietro la schiena e una mano sulla testa.
“L’ho presa! L’ho presa!”
L’Erinni guarda spaesata, senza capire, col fucile che le vibra tra le mani per l’adrenalina e la confusione.
“Prendi delle corde, cazzo, prendile!”
“A terra, tutte e due!”
“Non sento niente!”
“A terra, ho detto!”
“NON SENTO NIENTE! NIENTE!” Mi alzo, di rabbia, d’impeto, la smorfia più allucinata che trovo, le mani sbattute sulle orecchie, il cappuccio da volpe malmesso sulla testa, le bende che svolazzano mentre le vado contro come una pazza, un’apparizione d’oltretomba, “Sono diventata sorda, sorda, sorda!”
Adesso mi spara.
Sicuro.
Mi spara e fine dei giochi.
Sorda, sorda, sorda!
Le sono addosso, la canna del fucile contro l’ombelico; potrei ficcarle un pugno ma non riesco a smettere di martellarmi le orecchie, imprigionata dentro una recita che non è poi una recita, divorata dall’adrenalina, dalla pazzia consapevole, dallo sfogo libero di tutte le emozioni che corrono libere in questo preciso momento.
Adesso mi spara.
Negli occhi stralunati di questa ragazza col volto pitturato, con le ali nere delle Erinni ai lati del capo, c’è tutta l’incomprensione del mondo per una bomba che ha devastato il loro cancello, spedito culo all’aria la loro preziosa comandante e un sacco di altre, per una cretina vestita da volpe che urla e si sbatte le mani sulle orecchie.
Tutto
senza
una
fottuta
ragione.
Il nostro prezioso diversivo è praticamente finito: non siamo riuscite ad arrivare agli edifici, ho perso due delle nostre per la strada, abbiamo un fucile puntato addosso. Troppo presto. Troppo.
“Mettiti,” la voce di lei è tesa mentre arretra di un passo per togliersi dal contatto fisico, “A terra.”
Ansimo, sfatta, provata dallo sforzo. Inizio a sentire di nuovo nonostante il fischio persistente.
“Io sto con voi, oh, siamo alleate…”
Il fucile oscilla in un gesto perentorio. “A terra, subito!”
Ci ha viste camminare sorreggendoci, qualcosa non le torna, ho fatto una cazzata. Una grossa cazzata.
“A terra, merda!”
Cazzo, cazzo.
“Io la stavo prendendo, si era liberata, io…”
“A TER-RA!”
Obbedisco, a malincuore, con tutta l’amarezza del mondo. Ci ho creduto, per un attimo, ci ho creduto davvero.
E non posso neanche suicidarmi, o forse sì, se le vado addosso di brutto, se spara e mi prende dove mette fine ai giochi. Crollo con le ginocchia nella sabbia, le orecchie che fischiano e una voglia fottuta di piangere.
“Ehi!” La stronza strilla verso le compagne che stanno più in là, nel piazzale, che s’aiutano a vicenda a rialzarsi, si sbattono la polvere di dosso o cercano invano di capire chi o cosa le abbia colpite. “Ehi! Questa si è liberata! Ehi!”
Fottute.
Siamo fottute.
Lucilla si muove, lenta, si mette in ginocchio al mio fianco. C’è un sorriso sui tratti delicati, impolverati, un sorriso tenue, sincero. “Ancora non riesci?” Mormora in un filo di voce.
Vorrei piangere, nient’altro. “A fare cosa?”
Giunge le mani innanzi al viso. “Ad affidarti a Lui.”
Vorrei ridere, vorrei piangere.
Lo vorrei.
È il mondo come l’ho sempre conosciuto: finisce male, ogni storia dove sono la protagonista.
Finisce sempre male.
È nell’ordine delle cose.
Porsha barcolla nello spiazzo, la divisa impolverata, una mano sulla bocca a reprimere la tosse, attorniata dalle sue tirapiedi. Nessuna sembra badare a noi, all’avvertimento della bastarda che ci ha prese alla sprovvista. Potrei saltarle addosso, disarmarla, se riesco a non far partire un colpo. Potrei estrarre il coltello e farla pentire d’essersi messa in mezzo. Potrei persino prendere la seconda carica dalla tasca e suicidarci in maniera spettacolare, oppure lanciarla indietro e dipingere la sabbia coi pezzi di Porsha e un’altra dozzina di Erinni.
Potrei fare mille cose anche se quel fucile puntato, alla fine, non mi dà il coraggio di farne alcuna.
Attenzione.
Un suono improvviso, come un fremito lontano, attira il mio sguardo oltre il forte, ai boschi: una nuvola di cenere è apparsa sopra le chiome degli alberi e si è levata in aria.
Cenere.
Non è cenere.
Sono ali.
Ali che sbattono.
Guardo stranita un immenso stormo di volatili, passeri e pterodattili assieme, che si alza in volo all’unisono dalla volta del bosco. Nonostante la distanza è uno spettacolo eclatante.
La bomba deve averli terrorizzati.
Fatti scappare.
Almeno loro volano. Vorrei volare anch’io.
“Prega con me,” Lucilla mostra le mani giunte.
Vorrei insultarla, maledirla, ma lei insiste, severa.
L’ultima volta che mi sono messa in quel modo è arrivato un drone coi rifornimenti. Io non lo so se Dio esista, non l’ho mai saputo veramente, ma non sono mai riuscita ad affidare me stessa a qualcosa che, nella migliore delle ipotesi, è del tutto indifferente alla mia esistenza.
Del tutto.
Indifferente.
Giungo le mani per darle questa soddisfazione, per sentirmi solo una goccia più lontana dalla morte, dal dolore, dalle privazioni. Lei sorride, annuisce, chiude gli occhi.
Il fucile, senza motivo, si sposta verso destra in un movimento involontario; la bastarda che ce l’ha tra le mani ha smesso di guardarci e fissa verso il piazzale. Lucilla sorride a occhi chiusi.
L’istinto è quello di scattare, approfittare della distrazione, disarmare l’avversaria: la consapevolezza mi attraversa come un fulmine, una scarica.
La bomba è scoppiata diversi minuti fa.
I volatili si sono spaventati ora.
Lo sguardo mi si alza, involontario, di nuovo verso il piazzale, le Erinni che si ricompongono e soccorrono a vicenda, la croce piantata in mezzo, che l’onda d’urto ha inclinato. La nuvola di uccelli che si è diffusa nel mattino colorando il cielo.
Gli alberi che si piegano oltre la recinzione del forte.
Gli alberi che si piegano.
Gli alberi
che
si
piegano.
Dio.
Santissimo.
Passi pesanti nel mattino.
L’aria vibra.
La terra vibra.
La cosa che esce dal fogliame è un incubo bipede, un’incarnazione del male assoluto. Cammina piegato in avanti con falcate da colosso, colmando la distanza verso il forte in una serie di movenze possenti.
La cosa viene qui.
L’esplosione lo ha attirato, richiamato, adescato.
La cosa ha un corpo massiccio, una coda che ondeggia con l’andatura, collo taurino con una testa spropositata, due braccine ridicole.
La pelle da coccodrillo, verde come il muschio.
Li fanno sempre più realistici questi robot.
Sempre più fottutamente realistici.
Sarà costato una fortuna.
Si avvicina fino al perimetro del fortilizio, alto ben oltre i blocchi di cemento e più della metà della recinzione.
Due occhi gialli come topazi.
Un occhio: l’altra orbita è vuota, con un moncherino di freccia infilato attraverso.
Cristo
Santo.
Questo è il fottuto superpredatore definitivo, la cosa più grande e orribile che Galena potesse partorire.
L’Alfa supremo, l’Apex-Predator, il male, l’orrore finale. Qualcosa di più grande ancora di Panzer-2.
Qualcosa che incarna la quintessenza del dinosauro. Credo ci abbiano fatto un film su una cosa del genere.
Sto guardando Grimmone, il sauro guercio, e lui sta guardando tutte noi.
Il respiro mi s’è fermato parecchi secondi fa e non accenna a tornare, come la circolazione nelle mani.
Nessuna delle Erinni dà un segno di panico, di paura, mentre una a una iniziano a rendersi conto della sua fottuta presenza, una a una sollevano lo sguardo in una visione che per loro non dev’essere così fuori dal comune. Sangue freddo e assuefazione alle mostruosità dell’isola.
Ma è solo un momento, una lunga sequenza di attimi, prima che tutte spostino le iridi al cancello, il cancello che non c’è più. All’arco di pietra soprastante, con la recinzione elettrificata, che non c’è più.
Grimmone, il super-sauro guercio, sta fissando esattamente la stessa cosa.
Non c’è un muscolo che si muove, un respiro che si riempie, un paio di palpebre che sbattono.
La bestia esita un lungo istante poi si avvia a passo maestoso, muscoli e tendini come cinghie d’autocarro, s’incunea lento nel passaggio abbattendo i resti dell’arcata, l’attenzione attratta dalla cosa che si agita e divincola nel pieno del suo campo visivo.
Guardiamo, tutte quante, attonite e di sale mentre il carnosauro si erge davanti alla croce a forma di T e la povera crista che ci è legata sopra, coperta di polvere e ustioni, sanguinante per le schegge. Mentre piega il capo di taglio per osservare con l’unico occhio buono.
Madonna.
Le grida di lei si sentono per tutto il forte.
Madonna.
Le braccia che strattonano invano i legami.
Madonna.
La bocca spropositata che si apre un grado alla volta, la saliva tra denti come pugnali. Una lingua che è un divano.
Madonna.
Madonna.
La testa che scatta e s’inclina come il collo.
MADONNA.
È un attimo, un fottuto attimo. Due mascelle si chiudono di netto: è una pinza da demolizione, una morsa colossale, una cosa che non è di questo mondo.
La croce viene divelta di netto, spezzata in due dal morso, sparpagliata intorno: corpo umano e tronco della struttura svaniscono ingoiati dall’abisso in un fragore di legno schiantato e l’ultima eco d’un urlo di puro orrore. La grande testa si alza e scuote per far scendere tutto.
L’ha
ingoiata
viva
Cristo
Santo.
La grande testa ritorna a fissare in avanti, con un pezzo di trave che cade al suolo e uno sgrondo di sangue sul lato sinistro della mascella.
Ci vuole ancora un attimo perché sia davvero chiara a tutte la situazione: un predatore, un superpredatore, la bestia più grossa di Galena è appena entrata nel forte come noi, dalla porta principale e senza chiedere permesso.
Passi incerti di donna iniziano a muoversi sulla sabbia, all’indietro, alla cieca, ma è solo il principio.
Non occorrono che un paio di secondi perché tutte le Erinni nel piazzale dimentichino qualsiasi altro pensiero e inizino a correre.
È il caos.
Il diversivo più improbabile che potessi immaginare.
Grimmone dentro il forte.
Grimmone.
dentro
il
forte.
Stanno correndo tutte, verso gli edifici. È come in certi film, la fuga di massa, il panico, l’imprevisto disastroso. È come un film. Deve essere un film.
Tanti effetti speciali.
Troppi effetti speciali.
Grimmone ondeggia la testa, visualizza che decine di piccole cose commestibili sono partite a correre e gli sbrocca l’istinto del cacciatore: con un verso gutturale, sordo, basso, l’immenso rettile si muove in avanti a passo pesante.
L’Erinni accanto a noi sbianca, dimentica in tempo zero qualsiasi dubbio sul nostro conto, gira sui tacchi e se la batte.
“Andiamo!” Afferro Lucilla per gli stracci, lei e il suo sorriso meravigliato, “Andiamo!”
“Aspetta!” Punta l’indice, febbrile, là nella fuga di massa dove Cerbera è stesa a terra, inerme, impolverata, incapace di muoversi, paura, terrore. Sembra me davanti a Panzer-2.
Sembra me.
Me.
L’orrore.
Non può farcela, non può.
“Andiamo!”
L’istinto è quello di mollare lì la poveraccia, un semplice calcolo di probabilità, di ragione. Cerco di tirarla nella direzione di fuga, Lucilla si svincola. “Vai!” Indica accorata verso gli edifici, “Vai! Salva le altre!”
Non puoi andare! Vorrei dirglielo, gridarglielo, ma non riesco: per qualche motivo so che Lucilla Non-Conosco-Il-Cognome può fare anche una cosa assurda come quella.
Ha la croce al collo.
Può fare qualsiasi cosa.
La guardo lanciarsi contro la calca delle Erinni in fuga, passare attraverso di loro per raggiungere Cerbera, poi le perdo, nella confusione, con l’istinto che urla di mettersi a correre, la paura fottuta.
Se c’è un Dio vorrei che la proteggesse.
Lo vorrei davvero.
Corro assieme alle altre fuggitive che mi raggiungono e vanno oltre, verso gli edifici, senza voltarmi, con la paura cieca di cosa abbiamo alle spalle.
 
***
 
Gioele Palazzese fissava incredulo il monitor sulla propria scrivania, rapito dalle immagini: di tutto quello che stava accadendo, di tutte le anime in gioco in quel preciso momento, il suo sguardo era fisso sulla figura che correva in senso opposto alle altre, una folta chioma platinata.
C’era come un senso d’inquietudine, d’attesa, qualcosa che sapeva stare per succedere. Qualcosa che non sarebbe dovuto capitare.
Non nel suo show.
Non sulla sua isola.
Cerbera, la meticcia sudafricana, non era riuscita a far di più che sollevarsi su un gomito, il volto sporco di sabbia. Se ne stava lì, coricata, immobile, a tossire e ciondolare il capo.
Inerme.
Indifesa.
Grimmone avanzò di un paio di passi, le si fermò accanto. Voltò la testa con lenta attenzione, fissandola nel proprio campo visivo. Dalle fauci dischiuse gorgogliò un verso basso e sommesso, una vibrazione che risuonò nell’audio facendo tremare per un attimo i microfoni.
Ci fu un istante, un momento, nel quale ogni attività vitale di Cerbera, Taif Cammarata, andò a zero. La ragazza sollevò il capo, lenta, lentissima, e lo vide per la prima volta.
Non si era accorta di niente. Non aveva realizzato.
Forse era ancora assordata dall’esplosione.
Gioele tamburellò le dita sulla scrivania in un moto di tensione.
Cerbera sollevò un braccio, come a schermarsi, forse da lui, forse dalla luce; la sua mano tremava. La paura l’aveva paralizzata al punto da toglierle anche il fiato.
Una bellezza esotica stesa nella sabbia e un predatore alto quanto una casa.
Tensione totale, assoluta.
Lui stesso aveva scordato di prendere un respiro.
“Cosa vuoi fare, ragazza d’argento?” Lo disse a mezza voce, mordendosi il dorso dell’indice. “Cosa vuoi fare?”
Radiosa corse fino a passare accanto al gigantesco carnosauro, fino gettarsi su di Cerbera e farle scudo col proprio corpo, frapporsi tra lei e l’immensa bestia carnivora.
“Userai ancora la croce?” Gioele sentì l’indice dolere e non gli importò. “Non ti basterà.”
Grimmone mosse la testa di scatto, seguì come un grosso cane tardo l’arrivo della suora, il suo frapporsi, di schiena, senza guardare, mettersi tra lui e la cosa inerme sul terreno.
“Non ti basterà.”
Lucilla, Radiosa, spalancò le braccia tese, ali di gabbiano.
“Non ti basterà, non stavolta.”
Il suo corpo aveva la stessa forma di una croce.
Candida, immacolata.
Una croce.
“Prendila.” Gioele guardava allucinato la scena, l’immagine riflessa sulle retine. “Prendila, divorala.”
Grimmone osservava con l’unico occhio e la bocca dischiusa.
Un mostro preistorico di quindici metri coi dubbi esistenziali.
“Prendila!”
Radiosa aveva gli occhi chiusi e i denti stretti, le labbra mosse in una preghiera disperata, pronta al martirio e la montagna di dolore che avrebbe comportato.
Il fiato della bestia le scompigliò i capelli platinati.
“PRENDILA, PER DIO!”
Grimmone emise uno sbuffo di totale indifferenza, si voltò; con passo di tuono e andatura ciondolante passò oltre, l’attenzione attratta dalle piccole cose che correvano verso gli edifici, avviandosi senza fretta sulla loro scia.
Gioele Palazzese spinse la sedia con violenza indietro, si strappò le cuffie e le gettò sulla tastiera del computer. Con ambo le mani alle tempie e occhi sgranati fissava il monitor e il miracolo della croce che si era ripetuto per la seconda volta.



***
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SUPERPREDATORI - parte 33 Empty Re: SUPERPREDATORI - parte 33

Messaggio Da Petunia Mar Ago 31, 2021 10:14 am

 Il vincolo sentimentale che unisce le donne è più forte di quello tra gli uomini, solo più difficile da cementare. 
In questo pensiero mi riconosco moltissimo @Fante Scelto


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